5 Ottobre 2024
Tradizione

Nei penetrali del Tempio: Reghini, Armentano, Evola e il rapporto fra Filosofia e Tradizione Misterica – Nicola Bizzi

Il tema dello stretto rapporto esistente tra Filosofia e Tradizione Misterica, che fu compreso piuttosto bene nella prima metà del ‘900 da autorevoli autori quali Arturo Reghini e Amedeo Rocco Armentano, come dimostrano le opere di grande profondità e rilevanza che ci hanno lasciato, venne notoriamente affrontato nel 1934 anche da Julius Evola, nel suo saggio Rivolta contro il mondo moderno¹. Nonostate le innegabili diverse posizioni e visioni interpretative tra Reghini, Armentano ed Evola, riguardo alla Filosofia greca quest’ultimo aveva giustamente compreso che essa «ebbe quasi sempre il suo centro non tanto in sé medesima, quanto in elementi che avevano carattere metafisico e misterico ed erano echi di insegnamenti tradizionali»². E, sorprendentemente, Evola aveva parimenti anche intuito, e in maniera a dire il vero piuttosto corretta, le virtualità insite nella dottrina pitagorica del numero nei confronti del Platonismo. Ma tuttavia, e non me ne vogliano gli Evoliani,occorre sottolineare come, in quanto intransigente fautore del soggettivismo idealistico, il Baronesottovalutassela portata del significato vero e tradizionale dell’oggettivismo metafisico delle principali scuole elleniche di Sapienza, sia che si parli di quello platonico-trascendente dell’Accademia, che di quello aristotelico-immanente del Liceo. E, come ha esemplarmente osservato Piero Fenili in un suo saggio³, la mancata comprensione del significato e del valore tradizionali dell’oggettivismo metafisico impediva a Evola di riconoscere quanto questo rappresentasse lo sbocco positivo – anche per via delle acquisizioni iniziatiche da parte di Platone di importanti conoscenze misteriche dell’Eleusinità e della sua derivazione pitagorica nello specifico – del movimento iniziato da Socrate con il suo sforzo nella ricerca di definizioni e concetti validi da apporre ad ogni arbitrio sofistico. E così il Barone, che pure riconosceva la piena validità dell’istanza socratica ma sorvolava stranamente sulle conquiste dell’Accademia e del Liceo, riteneva che l’impegno socratico fosse approdato soltanto ad una fatale “deviazione”, in quanto «il pensiero che invece cerca di dare l’universale e l’essere nella forma che gli è propria – ossia razionalmente e filosoficamente – e di trascendere col concetto, in sede retorica, la particolarità e la contingenza, costituisce la seduzione e l’illusione più pericolosa, l’organo per un umanismo e, quindi per un irrealismo molto più profondo e pervertitore, che doveva poi sedurre interamente l’Occidente». Questa di Evola, come giustamente rileva Fenili, è una visione sostanzialmente incompleta, perché descrive un fallimento laddove vi è stato un successo, perché dalle definizioni e dai concetti di Socrate si passò all’ordine oggettivo delle idee platoniche e delle forme aristoteliche, dalle quali l’intera realtà è disciplinata e ridotta, per quanto possibile, da cháos a kosmos, secondo la luminosa istanza apollinea sempre presente nella più alta speculazione greca. Come ha sottolineato Daphne Varenya Eleusinia in un suo articolo sulla Teologia Platonica di Proclo, secondo il grande Iniziato della Scuola di Atene, la Filosofia e le Iniziazioni dimorano perpetuamente presso gli Dei e vengono fatte rifulgere nell’ambito della temporalità per tramite dei sacerdoti⁴. Vi prendono parte «quelle anime che si attaccano in modo sincero alla vita felice e fonte di beatitudine [eudaimonia]»⁵. E la prima trasmissione dell’Iniziazione, secondo Proclo, «rifulse in modo così venerabile ed ineffabile, come avviene nel corso dei Sacri Riti», saldamente posta «nei penetrali del Tempio»⁶.

 

 

 

 

 

 

 

 

Julius Evola

Rileva sempre la Eleusiniache il riferimento di Proclo ai “penetrali del Tempio” e il continuo rimando al “rifulgere” sono chiarissime allusioni ai Misteri di Eleusi; tutto rifulge in modo venerabile, semnos, ed ineffabile, indicibile, aporretos: espressioni notoriamente ricorrenti nel contesto dell’Eleusinità⁷. Come prosegue Proclo, la trasmissione della Conoscenza iniziatica si presenta successivamente anche all’esterno dei Templi, per quanto possibile, «ad opera di alcuni Sacerdoti autentici, che adottarono la vita che si confà all’Iniziazione ai Misteri»⁸; Sacerdoti che egli definisce «interpreti della suprema visione»⁹, «che esplicarono i precetti santissimi concernenti le realtà divine»¹º. In sintesi, le norme da seguire per l’apprensione e la trasmissione della Filosofia non sono molto dissimili da quelle richieste per l’Iniziazione, e la Filosofia rappresenta, per Proclo, un’estensione e un’integrazione della pratica iniziatica al di fuori delle mura dei Templi: la vita dell’Iniziato e la vita del Filosofo coincidono. Ma questa estensione e questa integrazione della pratica iniziatica al di fuori delle mura dei Templi menzionate da Proclo erano divenute, a quel tempo, anche una drammatica necessità, un percorso obbligato privo di reali alternative (se non quelle della morte o del martirio). Se già in precedenza il legame fra Filosofia e Iniziazione Misterica era stato forte e consolidato, ancora di più lo divenne al tempo di Proclo, un’epoca che, come vedremo più dettagliatamente nel secondo volume del mio saggio Da Eleusi a Firenze, nel capitolo Da Eleusi all’Accademia Neo-Platonica di Atene: la prima fase della clandestinit๹, coincide pienamente con la prima difficile fase della sopravvivenza in clandestinità della linea iniziatica di Eleusi. In tale delicata e complessa fase, caratterizzata dal raggiungimento dell’apice delle persecuzioni cristiane (raggiuntocon i cupi e terribili anni di regno del sanguinario Teodosio), dalla forzata chiusura e distruzione dei Templi ad opera delle “autorità”imperiali asservite al nuovo culto dominante e di folle di fanatici istigate dai Vescovi e dalla chiusura motupropriu del Santuario Madre di Eleusi ad opera dell’ultimo Pritan degli Hierofanti ufficialmente in carica, Nestorio il Grande, la trasmissione della linea iniziatica (e con essa la salvaguardia e la messa in sicurezza dell’immenso patrimonio sapientale e dottrinale dell’Eleusinità) potette avvenire soltanto dietro il paravento “ufficiale” della Filosofia e delle sue Accademie. Come avrò modo di spiegare in maniera più esaustiva nel secondo volume del mio saggio Da Eleusi a Firenze: la trasmissione di una conoscenza segreta, la Scuola Neo-Platonica di Atene venne fondata da Plutarco di Atene, nipote del Pritan degli Hierofanti Nestorio, proprio in concomitanza con la formale chiusura del Santuario di Eleusi.

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritratto scultoreo del grande Filosofo ed Iniziato Proclo

Plutarco aveva ereditato dal nonno non solo il titolo pritanico e il relativo bagaglio di esperienza e conoscenza iniziatica e sacerdotale, ma era stato cresciuto e preparato negli anni dai Sacerdoti al difficile compito che seppe poi brillantemente adempiere: permettere alla linea iniziatica, e con essa alla Tradizione Misterica dell’Eleusinità, di sopravvivere e perpetuarsi all’interno della Scuola da lui aperta.E proprio Proclo, nel primo Libro della sua Teologia Platonica, ci fornisce una piena conferma di questa linea diretta di trasmissione – e quindi della piena continuità operativa – dei sedici secoli precedenti di esperienza e pratica iniziatica dell’Eleusinità. E lo fa chiaramente in vari passaggi, da quando si sofferma sul ruolo di Siriano come Maestro/Mistagogo, «guida per tutte le cose belle e buone», a quando lo definisce colui che «accolse nella parte più intima della sua anima in modo incontaminato la luce più genuina e pura della verità», colui che «rese partecipi [gli apprendisti e gli allievi della Scuola, n.d.a.] di tutta l’altra parte, quella misterica, della Filosofia di Platone». E, in particolare, quando lo definisce colui che «fece prendere parte a quelle dottrine che in segreto ricevette da quelli più antichi di lui»,colui che «rese compartecipi delle verità misteriche circa le realtà divine». E, soprattutto, infine, quando afferma che «dobbiamo lasciare a coloro che verranno in seguito memoria delle beate visioni», riferendosi chiaramente al gravoso ma nobile compito ricevuto di trasmettere alle generazioni successive la continuità della linea iniziatica Eleusina. Siriano, infatti, succedendo a Plutarco di Atene alla guida della Scuola, ereditò da questi (che a sua volta li aveva ereditati da suo nonno Nestorio) sia il titolo di Pritan degli Hierofanti che il relativo bagaglio di esperienza e conoscenza iniziatica e sacerdotale. Requisiti e cariche che, come vedremo, alla morte di Siriano passarono proprio a Proclo, e da lui ad altri ancora, in una linea di successione, in una Catena Aurea di trasmissione che fino ad oggi non si è mai interrotta.

Arrivati a questo punto, visto che poc’anzi ho chiamato in causa Arturo Reghini e Amedeo Rocco Armentano, non posso esimermi dallo spendere alcune pagine sul tema dell’Estasi Filosofica (tema che il grande Iniziato fiorentino e il suo fraterno amico e Maestro pitagorico calabrese, come più avanti vedremo, conoscevano piuttosto bene e anche per diretta esperienza personale), delle sue basi eleusine e orfico-pitagoriche e delle sue intime connessioni con l’esperienza iniziatica e con l’elevazione spirituale derivante dagli antichi Misteri.  Roberto Sestito, in un suo interessante articolo uscito nel 1991 su Ignis¹², ci ricorda come Porfirio, altro grande Filosofo neoplatonico, nonché Iniziato, teologo ed astrologo del III° secolo, nel suo commento ad un Oracolo di Apollo pronunciatosi intorno al suo Maestro Plotino, scrisse che il Fine Supremo gli apparve e gli si pose proprio accanto. Dalla biografia di Plotino lasciataci da Porfirio si apprende infatti che, seguendo il metodo indicato da Platone nel Simposio, a Plotino si manifestò il Fine Supremo, al quale egli si unì in un mistico connubio estatico.Ecco la celebre testimonianza di Porfirio:«E così, seguendo la strada indicata da Platone nel Simposio, gli apparve quel Dio che non ha né misura né forma, ma domina sull’intelligenza e su tutto l’intelligibile. Per il vero anch’io, Porfirio, posso affermare di essermi avvicinato e unito a Lui una volta sola, e ora ho sessantotto anni. A Plotino, dunque, apparve e si pose vicino il Fine»¹³. Plotino, ci riferisce Porfirio, aveva un’anima insonne, pura, sempre protesa verso il Divino, al quale anelava con tutto sé stesso. Meta, infatti, e fine per lui era l’accostarsi e l’unirsi col Dio “che è al di sopra di tutto”. E Plotino, nel periodo in cui Porfirio visse con lui, realizzò ben quattro volte questa unione mistica, come ci conferma sempre una testimonianza porfiriana:«Egli raggiunse quattro volte, per quanto so, nel periodo in cui rimasi presso di lui, questo Fine, con un atto ineffabile»¹⁴. Plotino, nelle Enneadi¹⁵, faceva una chiara distinzione fra praxis e poiesis. La praxis, in senso “tecnico”, esprime l’azione pratica, rivolta a tutto ciò che è sensibile ed esteriore e condizionata da esso. Si tratta, come sottolineava Maria Luisa Gatti Perer¹⁶, di una sorta di effusio ad exteriora in cui l’uomo si disperde e si aliena. E in questo senso specifico la praxis si oppone alla theoria. La poiesis, invece, è l’azione che coincide con la contemplazione e da essa dipende, è la facoltà creatrice di chi è intimamente arricchito dalla partecipazione metafisica all’Assoluto. La vera forza creatrice, quindi, secondo Plotino, non è la “prassi”, ma la contemplazione, e l’attività metafisica del “vedere” è di per sé feconda creatività.

Tutti gli esseri, per Plotino, aspirano alla contemplazione, e anche la praxis, che cerca di cogliere e di conoscere l’oggetto, sia pure per via indiretta, e desidera possedere il bene, ha come fine la contemplazione. Perfino la celia, lo scherzo e il gioco, secondo questo Maestro del pensiero, hanno come scopo la conoscenza e la contemplazione, e ogni prassi, sia necessaria che deliberata, in varia misura attinge ad essa. Anche le deviazioni nella prassi sono per Plotino una deviazione dei contemplanti dall’oggetto della loro contemplazione¹⁷.E non a caso gli Iniziati al secondo Grado dei Misteri Eleusini, l’Epoteia, erano (e tutt’oggi sono) chiamati “Contemplari”.  Come ho scritto nel mio recente saggioLa Via di Eleusi: il perorso di elezione e i gradi dell’Iniziazione ai Misteri, il primo grado dell’Iniziazione eleusina, che rappresenta l’accesso del profano ai Sacri Misteri e quindi il passaggio dallo stato di profano a quello di Iniziato, è rappresentato dalla Mysta (chiamata anche Mysteia o, in taluni casi, Mystaia).  La Mysta rappresenta quindi la condizione stessa dello stato di Iniziazione (Mύησις), ma anche il primo gradino di un potenziale lungo e faticoso percorso verso la Conoscenza di sé stessi, del mondo e degli Dei. Come scrisse Jean Marie Ragon, interessantissima figura di grande Iniziato sia Massone che Eleusino vissuto a cavallo fra il XVIII° e il XIX° secolo, la parola “iniziato”, nel suo primitivo significato (la cui etimologia richiama l’abito bianco che nei tempi antichi si riceveva), implica il cominciare una nuova vita: novamvitam inibat¹⁸. L’aspirante o postulante, cioè colui che chiedeva di essere iniziato, se il Tempio, i Sacerdoti o i Maestri preposti acconsentivano alla sua ammissione ai Sacri Riti, diveniva candidato e poteva così prepararsi a ricevere l’Iniziazione. Presso gli antichi Romani il candidatus era colui che aspirava ad una carica e che vestiva un abito bianco, appunto la toga candida. Anche il grande Lucio Apuleio scriveva che l’iniziazione è la resurrezione ad una nuova vita. Nell’antichità, soprattutto nelle fasi di massima espansione e diffusione dell’Eleusinità in tutte le province dell’Impero Romano, erano decine di migliaia le persone che ogni anno, provenienti da ogni luogo e senza distinzioni di sesso, ceto o classe sociale (ad eccezione di chi si era macchiato di gravi reati di sangue), ricevevano ad Eleusi, o in numerosi altri Santuari eleusini presenti in Europa, nell’area mediterranea o nel Vicino Oriente, l’Iniziazione e con essa la qualifica di Mystai, di Iniziati. La maggior parte di essi, però, si fermava al primo grado dell’Iniziazione, decidendo di non proseguire la propria esperienza verso gradi superiori all’interno di precipue Coorti ecclesiali, e faceva ritorno alle proprie case, alle proprie città o nazioni, alla propria esperienza di vita quotidiana, vedendo comunque il mondo con altri occhi. Essi si sarebbero realmente sentiti, da quel momento in avanti, “stranieri a sé stessi”, ed avrebbero acquisito una nuova visione delle cose e del mondo. Ricevendo l’Iniziazione, in loro si era risvegliata e riattivata quell’essenza, quella scintilla divina donata illo tempore dagli Dei Titani all’umanità figlia di Giapeto. Si tratta di un qualcosa che l’Eleusinità chiama “Notte”, un termine che esprime un concetto misterico assai superiore a quello di “anima” che comunemente intendiamo; esprime il concetto stesso dell’essenza divina titanica, che, tramite e grazie all’opera dei quattro Titani Creatori (Atlante, Menezio, Prometeo ed Epimeteo), alberga oggi potenzialmente in ogni uomo. Il Mystes, un po’ come l’Apprendista nella Massoneria (nella quale dell’Eleusinità sono confluiti non pochi retaggi, anche se spurii e deformati) doveva solo tacere ed apprendere, con la massima umiltà e deferenza, quegli insegnamenti dei Mistagoghi che erano consoni al suo grado e alle sue capacità di comprensione e di assimilazione di determinate verità. Se l’Iniziazione è una rinascita, la Mysta rappresenta, a livello simbolico, l’infanzia o la primavera della vita e allo stesso tempo un ritorno ad uno stadio primordiale e puro dell’evoluzione umana: lo stadio in cui si trovavano i primi uomini creati dai Titani Atlante, Menezio, Prometeo ed Epimeteo.

Come osservava Jean Marie Ragon, in effetti i primi uomini erano in qualche modo paragonabili a dei muti, non possedendo alla loro nascita, in origine, una vera e propria lingua¹⁹. Ecco perché il Mystes, come del resto l’Apprendista nella Loggia, non può parlare. Cosa avrebbe da dire? Su cosa potrebbe istruire gli altri? Il Mystes, ricevendo l’Iniziazione dopo un percorso preparatorio ed una necessaria purificazione, è soggetto ad una vera e propria morte rituale: egli si spoglia della sua profanità e della sua condizione di caduco, di semplice mortale, per entrare nel novero di coloro che, ricevendo in Eleusi il sale della vita, possono assumere in questa vita una maggiore consapevolezza e che, al termine di questa vita mortale, seguiranno un percorso ed una sorte diversi rispetto a quella riservata ai mortali ed ai profani. Ma è ricevendo l’Epopteia – il secondo grado dell’Iniziazione che veniva nell’antichità conseguito nell’ambito dei Grandi Misteri – e divenendo così un Epopte, che l’Iniziato vive l’esperienza di una morte rituale ancora più forte e sconvolgente, quella mors mystica che, trasformandolo in “contemplare” gli permette appunto di contemplare con occhi nuovi il mondo degli Dei e gli Dei stessi in tutta la loro magnificenza. Con l’Epopteia l’Iniziato diveniva organico all’istituzione ecclesiale, accedendo così ad una Coorte (l’equivalente eleusino di una Loggia) al cui interno poteva acquisire nuove conoscenze e ricevere nuovi apprendimenti, nuovi Semna, consoni al grado ricevuto. L’Eleusinità, infatti, e in particolare quella Madre, al di là dei suoi aspetti simbolici e rituali, ha sempre rappresentato un lungo cammino di studio e perfezionamento di cui l’Epopteia rappresenta la soglia vera e propria. E il termine Ἐποπτεία, composto daἐπί, epi (“sopra”) e opteuô (“vedo”, “osservo”, con radice in op), significa concettualmente “contemplazione”, ma, nello specifico dei Misteri, soprattutto la visione degli Dei che si ha con la pratica iniziatoria. L’Epopteia rappresenta quindi, come abbiamo detto, l’esperienza contemplativa culminante dei Misteri, ed è proprio per questo che uno dei principali significati del termine Ἐπόπτης è “Contemplare” o “Contemplare del Tempio”, cioè colui a cui è consentito contemplare gli Dei. Ma soprattutto, come evidenziò nel 1841 Jean Marie Ragon, «colui che vede le cose tali e quali sono, senza veli»²º.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Filosofo ed Iniziato Porfirio di Tiro in un’incisione settecentesca

Se la Mysta comporta per l’iniziando una morte rituale simbolica e “di concetto”, con l’Epoteia l’Iniziato vive l’esperienza di una morte rituale vera e propria.  Un discusso frammento oggi attribuito ufficialmente a Plutarco di Cheronea, ma che, prima dell’attribuzione voluta e di fatto imposta da Francis Henry Sandbach²¹, molti filologi classici ritenevano (secondo me a ragione) di Plutarco di Atene²², risulta fondamentale per comprendere la natura dell’esperienza epoptica:

«L’anima al momento della morte fa un’esperienza analoga a quella provata da coloro che si sottopongono all’iniziazione ai Grandi Misteri. Perciò anche il verbo teleutàn (morire, n.d.A.), come anche l’azione che esso esprime, sono simili a teléisthai (essere iniziato, n.d.A.).Dapprima si erra faticosamente, smarriti, correndo timorosi attraverso le tenebre senza raggiungere alcuna meta; poi, prima della fine, si è pervasi da ogni genere di terrore, spavento, tremore, sudore e angoscia. Ma poi una meravigliosa luce ci viene incontro e si è accolti da luoghi puri e da prati, dove risuonano voci e si vedono danze, dove si odono solenni canti ieratici e si hanno divine apparizioni. Tra questi suoni e queste visioni, ormai perfetti e pienamente iniziati, si diviene liberi e si procede senza vincoli, con ghirlande di fiori sul capo, celebrando i Sacri Riti insieme agli uomini santi e puri. Si osserva allora la massa degli uomini che vivono qui sulla terra, i non iniziati e i non purificati, schiacciarsi e spingersi nel fango della palude e nelle tenebre, attanagliati dalla paura per imali della morte a causa della mancanza di fiducia nei beni dell’Aldil໲³.

Tornando all’articolo di Sestito, egli si chiede in che modo avesse divinato l’Oracolo in merito all’Estasi di Plotino. E nel testo di Porfirio non fatica a trovare la risposta: descrivendo, nello stile aulico, poetico ed enigmatico che gli era proprio, il percorso della sua “anima demoniaca” verso la dimora beata ove soggiornare in compagnia dell’Aurea Stirpe degli Dei: Minosse e Radamante, Eaco, Platone e Pitagora. E, secondo Sestito, è proprio la presenza di Pitagora a questo consesso di Immortali che segna il punto di partenza, storicamente parlando, di una disciplina esoterica che ha avuto, in tempi a noi più vicini, e per l’esattezza in personaggi come Tommaso Campanella e Giordano Bruno, degli interpreti fedeli e dei seguaci scrupolosi. Infatti, quella che viene chiamata, dal titolo di un manoscritto conservato nel Fondo Magliabechiano²⁴ della Biblioteca Nazionale di Firenze, Pratticadell’Estasi Filosofica, altro non sarebbe, secondo l’opinione espressa da Reghini fin dal 1912, che vera e propria una pratica di “alchimia spirituale” di scuola pitagorica che era stata trasmessa e tramandata attraverso i secoli e che era ben nota a grandi Iniziati quali Tommaso Campanella e Giordano Bruno. Torneremo più avanti su questo straordinario testo, riportandolo anche nella sua versione integrale, e avremo modo di riflettere sul suo contenuto in compagnia di uno straordinario dialogo filosofico-iniziatico di Amedeo Rocco Armentano. Scrive Sestito, nel suo articolo, che «il racconto di Porfirio è nondimeno privo di veli quando cita l’Oracolo di Apollo sulla sorte toccata all’anima di Plotino e richiama alla memoria i passi più salienti dei Versi Aurei attribuiti a Pitagora»²⁵. Sestito pone poi a confronto le più salienti frasi di questa palingenesi divinizzante tratte dalla Vita di Plotino con la ritualistica pitagorica dei Versi Aurei, nella celebre traduzione che ne fece nel 1928 per il Gruppo di Ur Ercole Quadrelli sotto lo pseudonimo di Tikaipôs:

1 – Sciogliersi dai vincoli dell’umana necessità, ossia liberarsi dai legami del corpo, progressivamente «il corpo lasciando» (v. 70 degli Aurei Detti nella traduzione di Ercole Quadrelli), traendo dallo spirito la potenza e lo slancio per giungere «sì là dove ti esorto, …e l’anima immune da mali» (v. 65-66) nelle giuste condizioni affinché l’anima possa godere dello splendore divino.

2 – Spezzare l’involucro per abbandonare la tomba dell’anima, che, nel linguaggio simbolico dell’Eleusinità Orfica e poi Pitagorica, voleva indicare la separazione cosciente dell’Essenza Divina prigioniera del corpo-tomba (σωμα-σήμα), partendo da una perseverante ed equilibrata catarsi della sostanza fisica e del suo rivestimento fluidico. Per la mistica orfica, infatti, il corpo (soma, σωμα) è visto come “tomba” (sèma, σήμα) dell’anima. Da qui, tutte le regole alimentari notoriamente attribuite agli Orfici e ai Pitagorici, e altre pratiche che andavano dal controllo del sonno e del pensiero fino al dominio dei sensi.

3 – L’accenno alle sofferenze e alle battaglie della vita che possono e debbono essere vinte con la potenza che presiede alla generazione della vita stessa, non altro significa se non «che gli uomini prove sopportan da essi accettate». E quel che si intuisce nell’esercizio del triplice esame d’ogni atto diurno eseguito prima di addormentarsi – rileva sempre Sestito – svela, quando è giunto il momento, il mistero della “Eterni-fluente Natura”, ovverosia della Divina Tetraktys sulla quale giuravano tutti i Pitagorici prima di essere ammessi al sodalizio iniziatico.

Lo scrittore, esoterista ed Iniziato Elémire Zolla, nel suo celebre saggio Uscite dal mondo, ha affermato che il messaggio reghiniano più autentico consiste proprio nel «tentativo severo e secco, talvolta toscaneggiante con disinvoltura violenta, di delineare l’esperienza centrale, l’Estasi Filosofica»²⁶.

 

 

 

 

 

 

 

Giordano Bruno in una incisione ottocentesca

Ha osservato Natale Mario Di Luca che questo riferimento di Zolla è evidentemente rivolto alla descrizione del transumanare o del pitagorico abbandono del corpo –vera e propria morte iniziatica – che Arturo Reghini dimostrava di ben conoscere e che una prima volta esemplificò attraverso l’integrale citazione dell’antico manoscritto conservato a Firenze che poc’anzi abbiamo menzionato, la Prattica dell’Estasi Filosofica²⁷, e poi, direttamente sebbene in terza persona, in un suo articolo su Ignis:«(…) se, spenta ogni viltà, se lasciata ogni speranza, rinunciando con assoluta e profonda sincerità a tutto quello che ne fa un individuo umano, ei si riduce, indifferente ma non insensibile, a vivere perindeaccadaver come un morto ambulante, e di nuovo si affaccia sereno ed impassibilmente all’orlo del pozzo metafisico, sente ancora la misteriosa e paurosa attrazione dell’antro immane, ma non ne subisce più la vertigine. E, securo, equilibrato e sereno,procede oltre, senza sottrarsi, senza smarrirsi; e s’interna, gradatamente e tranquillamente profondando. Si lascia afferrare dall’attrazione affascinante e solenne e trascinare invincibilmente giù per le liscie pareti del formidabileSantuario, fino alla cripta del Tempio. Ei prova allora la sensazione indicibilmente intima di insinuarsi attraverso una sottile commettitura che dà sul di dentro; e, sospinto, compresso, svesciato, ne sguscia via internandosi; oltrepassatene le pareti, si tuffa nel Santuario, e si inabissa nei penetrali dell’intima sua non impenetrabile natura. Come un morto, penetra nell’invisibile, nell’Ade, e diviene immateriale, a-eides. Talora la misteriosa attrazione opera in modo così veemente che ci si sente come sradicare, come divellere dai cardini; talora è così rapida che è come un salto, un rapimento; altre volte infine è come un tranquillo salir di marea, è un subentrare alto e fatale, una graduale, purissima, nitida effusione di una chiara alba spirituale, un lento e silente affiorare di una ieratica insostenibile beatitudine»²⁸. E Reghini tornò a parlarne due anni dopo su Ur, e stavolta in termini più chiaramente autobiografici, sia pure sotto il velo del semianonimato rappresentato dal suo pseudonimo Pietro Negri, come della “coscienza della immaterialità”:

«Circa quattordici anni fa stavo un giorno, fermo ed in piedi, sul marciapiede del Palazzo strozzi a Firenze, discorrendo con un amico; non ricordo di che ci intrattenessimo (…). Era una giornata affatto simile alle altre, ed io mi trovavo in perfetta salute di corpo e di spirito, non stanco, non eccitato, non ebbro, libero da preoccupazioni ed assilli. E, ad un tratto, mentre parlavo od ascoltavo, ecco, sentii diversamente: la vita, il mondo, le cose tutte; mi accorsi subitamente della mia incorporeità e della radicale, evidente, immaterialità dell’universo; mi accorsi che il mio corpo era inme, ossia al centro profondo, abissale ed oscuro del mio essere. Fu un’improvvisa trasfigurazione; il senso della realtà immateriale, destandosi nel campo della coscienza, ed ingannandosi col consueto senso della realtà quotidiana, massiccia, mi fece vedere il tutto sotto una nuova e diversa luce;fu come quando, per un improvviso squarcio in un fitto velario di nubi, passa un raggio di sole, ed il piano od il mare sottostanti trasfigurano subitamente in una lieve e fugace chiaritàluminosa. Sentivo di essere un punto indicibilmente astratto, adimensionale; sentivo che in esso stava interiormente il tutto, in una maniera che non aveva nulla di spaziale. Fu il rovesciamento completo della ordinaria sensazione umana; non solo l’Io non aveva più l’impressione di essere contenuto, comunque localizzato, nel corpo; non solo aveva acquistato la percezione della incorporeità del proprio corpo, ma sentiva il proprio corpo entro di sé, sentiva tutto sub specie interioritatis. (…). Fu un’impressione possente, travolgente, soverchiante, positiva, originale. Si affacciò spontanea, senza transizione, senza preavvisi, come un ladro di notte, sgusciando entro ed ingrandendosi col consueto grossolano modo di sentire la realtà; affiorò rapidissima affermandosi e ristando nettamente, tanto da consentirmi di viverla intensamente e di renderne conto sicuro; eppoi svanì, lasciandomi trasecolato»²⁹.

Nel 1928, quasi in concomitanza con la definitiva rottura dei rapporti con Julius Evola che portò Arturo Reghini, il fido Giulio Parise, e con essi l’intera loro pattuglia di valenti intellettuali pitagorici, ad essere estromessi dal Gruppo di Ur, la rivista pubblicò, dandone grande risalto, alcune istruzioni di catena provenienti da un circolo iniziatico che si era costituito a Roma qualche tempo prima. Al punto terzo di dette istruzioni, l’esercizio prescritto si avvaleva proprio della Prattica dell’Estasi Filosofica, che in tale contesto venne pubblicata però in forma incompleta e commentata in modo impreciso e frammentario. Vale la pena, a mio avviso, concentrarci su questo raro testo e sul suo contenuto, al fine di comprenderne il reale significato e, soprattutto, il messaggio che il suo autore intendeva trasmettere o veicolare. La Prattica, il cui titolo completo è La Prattica dell’Estasi Filosofica del B., che come abbiamo detto è conservata nella sua forma originale manoscritta del XVI° secolo presso la Biblioteca Nazionale di Firenze (Codice Magliabechiano VIII:6), per il suo indubbio valore documentario è stata oggetto più volte, negli ultimi decenni, di pubblicazioni, accompagnate da commenti non sempre a mio parere adeguati. Più volte è stata attribuita a Tommaso Campanella o a qualche ignoto allievo di scuola campanelliana, ma questa attribuzione al Filosofo, mistico e mago calabrese o alla sua cerchia è tutt’altro che dimostrata. L’insigne italianista Alessandro D’Ancona (1835-1914), pur avendo inserito la Prattica in appendice alla sua dotta edizione delle Opere di Tommaso Campanella³º, lasciava trasparire dei dubbi, osservando che«la iniziale B. parrebbe togliere la possibilità che questa fosse opera del Campanella. Ma noi la crediamo sua o di qualche suo scolaro, e forse potrebbe esser anche di Giordano Bruno».

 

 

 

 

 

 

 

 

Tommaso Campanella in una incisione del 1654

In realtà, come ha osservato lo studioso di Alchimia e di Tradizione Ermetica Massimo Marra, che ne ha recentemente curato una riedizione critica sul suo sito internet, «non vi è nessuna traccia sicura che possa portare ad una attribuzione certa, e, d’altro canto, la concezione ermetica ed il richiamo a pratiche estatiche si inscrivono perfettamente nell’atmosfera culturale e nelle coordinate filosofiche di autori come il Bruno o il Campanella, e più in generale, nel vitalismo ermetico rinascimentale»³¹.  Marra, che definisce il testo «un rarissimo caso – nell’ambito della Tradizione Occidentale – di descrizione non criptata di un metodo meditativo-immaginativo con dichiarata finalità illuminativo-estatica, scevro da qualsiasi riferimento mistico-religioso»³², inquadra la Prattica all’interno della ricca temperie culturale e filosofica tardo-rinascimentale e seicentesca di area meridionale. Un’interpretazione, questa, senz’altro più condivisibile di quelle di precedenti studiosi che, non senza alcune forzature, hanno tentato di ascriverla ad una generica “mistica cristiana” di epoca rinascimentale o al controverso fenomeno del Rosacrocianesimo. Ma non concordo con Marra proprio sulla scevrità del testo da qualsiasi riferimento mistico o religioso. Il testo della Prattica, che fra poco esamineremo nella sua interezza e che si presenta visibilmente, per la forma, di area meridionale (si veda, ad esempio, il “sagliano” per salgano), ben lungi dal contenere riferimenti o tratti di mistica “cristiana o tantomeno rosacrociana, è a mio parere anche scevro dalle influenze ermetico-alchemiche ravvisate da Marra nella sua analisi. Esso riflette piuttosto le antiche pratiche e gli esercizi mistici e fisico-spirituali dell’Eleusinità Orfica e del Pitagorismo, connettendosi quindi direttamente con la religiosità iniziatica dei culti misterici pre-cristiani e con la Filosofia di grandi Iniziati di scuola neoplatonica come Plotino e Porfirio, ma anche di Proclo, Giamblico, Siriano, Marino, Asclepigenia e Plutarco di Atene.

Molto spesso, nella pur dotta saggistica profana inerente le molteplici espressioni della spiritualità rinascimentale, e in particolare nel rapporto fra queste e la forte ed esuberante “riscoperta” della Filosofia Neoplatonica e della religiosità “pagana” e nel loro straordinario riflesso sull’arte e sulla letteratura, si tende a fare, come si suol dire, di tutta un’erba un fascio e a bollare o a etichettare con eccessiva disinvoltura con il termine “ermetico” tutto ciò che appare come “eterodosso”, “fuori dai canoni”, “magico”, “esoterico” o “esoterizzante”. E si tende a ignorare, a non accettare, o a far finta di non sapere che quella straordinaria stagione di rinascita delle scienze e delle coscienze e di riscoperta, dopo secoli di oscurantismo clericale medioevale, dello splendore della civiltà classica greco-romana; quella straordinaria stagione che, fra il XV° e XVI° secolo, partendo dall’Italia e da Firenze in particolare, si irradiò su tutta Europa, fu possibile anche e soprattutto grazie all’azione di antichi ordini iniziatici e scuole misteriche che, come un fiume carsico, erano sopravvissuti, con il loro bagaglio di conoscenze e dottrine, a secoli di persecuzioni, rialzando finalmente la testa e riemergendo alla luce del sole. Ordini iniziatici e scuole misteriche che con il fenomeno del cosiddetto “Ermetismo” (nato sostanzialmente in area alessandrina in epoca tarda, non prima del I° secolo a.C., e sviluppatosi nei secoli successivi con connotazioni salvifiche tratte sincretisticamente in buona parte dal caotico e variegato bacino dello Gnosticismo) assai poco, se non niente, hanno mai avuto a che spartire, sia da un punto di vista strettamente dottrinale che storico, simbolico ed allegorico. In tale saggistica si tende così purtroppo a fare un indiscriminato abuso del termine “ermetico”, come se l’intera esperienza mistico-misterica tradizionale che caratterizzò e vitalizzò la stagione rinascimentale fosse interamente riconducibile all’Ermetismo, che rappresentò a dire il velo in tale contesto solamente una delle “anime” in campo e che ebbe un ruolo in fin dei conti piuttosto marginale rispetto a grandi Tradizioni sapientali ed iniziatiche quali quella Eleusina e quella Pitagorica. Tradizione che, come ho già sottolineato, con l’Ermetismo ebbero sempre ben poco in comune. A prescindere, quindi, che il testo della Prattica sia da attribuire a Tommaso Campanella, ad un suo ipotetico allievo, oppure a Giordano Bruno o a nessuno di questi, esso riflette una conoscenza misterica e sapientale marcatamente eleusino-orfica e pitagorica riconducibile ad un filone che, proprio nell’Italia meridionale, ha trovato una diretta linea di continuità e di trasmissione. Come ho evidenziato nel mio saggio introduttivo ad una recente riedizione di Sulla Tradizione Occidentale di Arturo Reghini³³, al di là della sopravvivenza in clandestinità del ramo Madre e dei filoni Figlia dell’Eleusinità e di quello Pitagorico, e dalla complessa realtà determinatasi dalla dispersione, nell’ambito dell’Eleusinità Madre, di alcune delle Tribù Primarie di Eleusi, frammenti non certo trascurabili della Tradizione sono sopravvissuti, in Italia e in particolar modo nelle regioni del Sud, nell’ambito di ristretti gruppi di famiglie, e un esempio calzante a riguardo ci è fornito da Roberto Sestito nel suo saggio Storia del Rito Filosofico Italiano³⁴, quando egli ci parla delle fratrie. Il contesto di riferimento a cui si riferisce Sestito, quello dei prodromi della Massoneria “egizia” napoletana, potrebbe apparentemente esulare dal nostro discorso, ma vedremo che non è così. L’autore evidenzia, infatti, che i fondatori della Libera Muratoria di Napoli del XIX° secolo, nei loro Prolegomeni storici alle Costituzioni del Rito Scozzese pubblicate nel 1820 (che con molta probabilità non sono altro che la trascrizione delle costituzioni del 1750 del Principe di Sansevero Raimondo Di Sangro) si riallacciano esplicitamente ad una certa tradizione “regionale” dell’Italia meridionale, una tradizione espressamente di carattere “pitagorico”, e che un discendente del Conte di Clavel, proprietario di una villa ad Anacapri (località in cui il Conte, finita la Iª Guerra Mondiale, era solito passare lunghi periodi dell’anno in compagnia di Amedeo Armentano e di Italo Tavolato) sosteneva di aver saputo che i gradi coperti del Rito mizraimita non erano mai usciti da Napoli, rappresentando per la nostra penisola una sorta di “pignora sacra”³⁵. E inoltre che, negli Annali del Rito Filosofico Italiano, in relazione al Rito di Mizraìm e al relativo Supremo Consiglio per la Francia, si parli di una “costituzione calabrese”³⁶.

 

 

 

 

 

 

Napoli: Stutua del Dio Nilo in Largo Corpo di Napoli (Piazzetta Nilo),
scultura marmorea di epoca romana imperiale del II°-III° secolo d.C.

Come evidenzia Sestito, la locuzione costituzione calabrese nasconderebbe una precisa allegoria filosofica, come del resto anche quella rito egiziano, indipendentemente dal puro e semplice riferimento geografico, perché, come scrisse in un suo articolo Giustiniano Lebano, «La voce “Egitto” in arcano non era intesa per quel luogo geografico comunemente conosciuto. La voce “Egitto” è primandria di Aig-Ipt-Os. Spiegate le varie voci con l’ermeneutica s’intendeva ogni Urbe Arcana collegata alla vasta fascia dello zodiaco urbico dell’universo arcano. Egitto quindi è voce arcana che spiega il Mondo arcano. E gli Egizi furono detti i Subcostituiti»³⁷. Sembrerebbe, quindi, come evidenzia sempre Sestito, che a Napoli, nella prima metà del XVIII° secolo, sia venuta (o riemersa) alla luce una corrente iniziatica che, con criteri propri, non solo era molto antica, ma che si era insediata negli alti gradi del Rito Scozzese della Massoneria e tra i vertici di altri ordini esoterici di carattere misterico, ermetico, egizio e templare. In poche parole, «una superba rinascenza spirituale non limitata soltanto alla Massoneria e non dissimile da altre fioriture avvenute in altre epoche e con finalità alquanto simili»³⁸. Lo scrigno che conservava una semente così preziosa era probabilmente custodito nell’ambiente delle “fratrie”, misteriose associazioni tipiche dell’Italia meridionale, i cui vincoli di solidarietà furono sempre strettissimi e resistenti, per costumi e mentalità, a tutte le innovazioni di carattere sociale e religioso e che si sono perpetrate nel tempo senza bisogno di statuti o di regolamenti scritti. La fratria, nell’interpretazione che ci fornisce Sestito, era un sodalizio, derivato dal modello antico, potremmo tranquillamente dire dal γένος (ghenos) greco, che attraversava e trascendeva il modello della famiglia tradizionale, normalmente molto chiusa, per aprirsi a determinati individui anche di diverso livello sociale o di altre località geografiche, e si formava di fronte all’esigenza di mantenere e trasmettere un segreto, un sapere occulto o un bagaglio di tradizioni e conoscenze destinate a restare appannaggio di pochi e a non divenire di pubblico dominio o oggetto di una condivisione allargata. Un concetto, quindi, che può trovare similitudine nel clan di modello scozzese, o in quello di tribù (si pensi alle Tribù sacrali di Eleusi), vere e proprie famiglie allargate la cui esistenza e le cui azioni si fondavano sulla difesa e sulla tramandazione di una determinata tradizione.

 

 

 

 

 

 

 

 

Raimondo di Sangro, Principe di Sansevero, in un ritratto di scuola
napoletana del XVIII° secolo (collezione privata)

In effetti, come ci confermano varie fonti, è proprio anche grazie all’operato di un qualcosa di molto simile alle fratrie che la Tradizione Misterica è riuscita a sopravvivere, con un filo ininterrotto, dall’antichità pre-cristiana fino ad oggi. Sia gli Eleusini Madre che quelli di altri ordini e riti questo lo sanno molto bene, perché, a prescindere dalla parallela sopravvivenza delle legittime istituzioni ecclesiali occultatesi all’interno delle Scuole Neoplatoniche, delle Accademie e di altre simili strutture, una cospicua parte dell’antico patrimonio misterico e sapientale è sopravvissuto all’interno di gruppi di famiglie, che potevano o meno essere in contatto fra loro (ma che per molti secoli preferirono non esserlo), famiglie che potevano essere o divenire anche di natura allargata, sul modello del clan, della tribù o della fratria, qualora se ne presentasse la necessità (ad esempio, nel caso della mancanza di un erede diretto per linea di sangue, ricorrendo ad adozioni di persone fidate o a matrimoni a tal fine pianificati). Famiglie in cui la tramandazione del patrimonio sapientale e della conoscenza iniziatica sovente avveniva secondo una regola non scritta ma motivata da tutta una serie di ragioni di sicurezza: quella del salto generazionale, con il passaggio – ad esempio – da nonno a nipote. E molte di queste famiglie sono coincise, nella storia, con importanti dinastie, casate nobiliari e signorie, come nel caso dei Medici, dei Gonzaga, degli Este, dei Visconti, dei Da Varano, dei Da Montone o dei Malatesta. Ma la stragrande maggioranza di esse, soprattutto nell’Italia meridionale, non si è mai palesata ed ha sempre fatto dell’anonimato una regola stessa di perpetuazione e di sopravvivenza. Appare decisamente significativo quanto scrisse a riguardo Giulio Parise nel 1947:«Qualcuno forse rammenta di aver udito accennare, o di aver letto, fugaci accenni ad una Tradizione autoctona, di pretto carattere Italico, trasmessa da epoca arcaica e tuttora esistente; qualche studioso di cose massoniche sa che, dopo la creazione della Gran Loggia di Londra, nel periodo della massima espansione della fratellanza iniziatica così rinnovata nella forma, vi fu chi, dall’Inghilterra e dalla Francia, venne qui, a cercare quelle regole dell’Arte che si sapevano qui note, e non altrove»³⁹. Ritengo quindi, con piena cognizione di causa, a prescindere da chi sia l’autore della sua versione manoscritta conservata a Firenze, che il testo della Prattica dell’Estasi Filosofica sia stato trasmesso proprio nell’ambito di certe fratrie dell’Italia meridionale detentrici e perpetuatrici di un’antica sapienza iniziatico-misterica eleusino-orfica e pitagorica. Vediamone adesso il testo nella sua versione integrale:

«Bisogna eleggere un luogo, nel quale non si senti strepito d’alcuna maniera, all’oscuro, o al barlume d’un piccolo lume così dietro che non percuota né gli occhi, o con occhi serrati. In un tempo quieto et quando l’uomo si sente spogliato d’ogni passione tanto del corpo quanto dell’animo. In quanto al corpo non senta né freddo, né caldo, non senta in alcuna parte dolore, la testa scarica del catarro et da fumi del cibo et da qualsivoglia umore; il corpo non sia gravato di cibo, né abbia appetito né di mangiare né di bere, né di purgarsi, né di qualsivoglia cosa; stia in luogo posato a sedere agiatamente appoggiando la testa alla man sinistra o in altra maniera più comoda… l’animo sia spogliato d’ogni minima passione o pensiero, non sia occupato né da mestizia, o dolore, o allegrezza, o timore, o speranza, non pensieri amorosi o di cure familiari o di cose proprie o d’altri, non di memoria di cose passate, o d’oggetti presenti; ma essendosi accomodato il corpo come sopra, deve mettersi là, e scacciar dalla mente di mano in mano tutti i pensieri che gli cominciano a girar per la testa et quando viene uno subito scacciarlo, et quando ne viene un altro, subito anco lui scacciare insino che non ne venendo più, non si pensi a niente al tutto, et che si resta del tutto insensato interiormente et esteriormente, e diventi immobile come se fussi una pianta o una pietra naturale; et così l’anima, non essendo occupata in alcuna azione è vegetabile né animale, si ritira in se stessa, et servendosi solamente degli instrumenti intellettuali, purgata da tutte le cose sensibili, non intende le cose più per discorso, come faceva prima, ma senza argomenti e conseguenze: fatta Angelo, vede intuitivamente l’essenzia delle cose nella lor semplice natura, et però vede una verità pura, schietta, non adombrata, di quello che si propone speculare: perciocché avanti che si metta all’opra, bisogna stabilire quello di che si vuole speculare o investigare et intendere, et quando l’anima si trova depurata proporselo davanti, et allora gli parrà d’avere un chiarissimo e risplendente lume, mediante il quale non se gli nasconde verità nessuna.

Et allora si sente tal piacere e tanta dolcezza che non ci è piacere a questo mondo che a quello si possa paragonare: ne anco il godimento di cosa amatissima e desideratissima non ci arriva a un gran pezzo. In tal maniera che l’anima pensando d’avere a ritornare nel corpo per impiegarsi nelle vil’opere del senso, grandemente si duole et senz’altro non ritornerebbe mai se non dubitasse che per la lunga dimora in tal estasi si spiccherebbe al tutto del corpo, percioché quelli sottilissimi spiriti né quali ella dimora se ne sagliano al capo, et però alcuni sentono un dolcissimo prurito nel capo, dove son gli strumenti intellettuali: et a poco a poco svaporano, i quali se tutti svaporassero, senz’altro l’uomo morirebbe. Et però sono più atti a questa estasi quelli che hanno il craneo aperto per la cui fessura possino exalare alquanto gli spiriti; altrimenti se ne raduna tanti nella testa che l’ingombrano tutta, et gli organi per così gran concorso si rendono inabili.  Questa credo che sia l’estasi Platonica, della quale fa menzione Porfirio che da questa Plotino sette volte fu rapito, et egli una volta, essendo che di raro si trovan tante circostanze in un uomo. Con tutto ciò in duoi o tre anni potrebbe anco succedere tre o quattro volte; et quelle cose che allora s’intendono bisogna subito scriverle et diffusamente, altrimente ve le scorderesti, o rileggendole poi non l’intenderesti».

Dettaglio di un’incisione rinascimentale a soggetto ermetico. Come rileva sempre Roberto Sestito nel suo articolo, l’esercizio descritto nella Prattica si propone un fine elevato: l’anima, divenuta “angelo”, arriva ad ammirare sé stessa, intuendo e contemplando ad un tempo la sublime essenza che la pervade e la vivifica. Questo atto contemplativo (quindi epoptico nel senso pieno del termine) gli Iniziati lo spiegavano con il conseguimento in un templum di uno stato di fissità, di un assimilarsi all’Uno. E l’atto dell’intuire lo consideravano come un movimento verso l’essenza delle cose, un rivolgersi per stare, in opposizione allo svolgersi dell’ex-stare, dell’esistere che consideravano uno stato inferiore di caduta⁴º. Secondo Sestito, si può sostanzialmente suddividere la Prattica in tre parti, sulla base di una classificazione ternaria che ricorre spesso in tutte le discipline di carattere pitagorico:

1 – Un esercizio sul corpo;

2 – Un esercizio sul pensiero;

3 – Un esercizio sulla mente-intelletto.

La parola “esercizio”, come osserva sempre questo grande studioso reghiniano, non deve trarre in inganno: si può trattare, nel caso specifico, di più esercizi strettamente collegati tra di loro che interessano oggettivamente una parte del nostro corpo con risonanze dirette o indirette sul resto del nostro microcosmo (basti pensare al ruolo assegnato dall’autore della Prattica alla sfera cranica e all’importanza di una certa fessura per comprendere come l’esercizio sul corpo vada preso in serissima considerazione). L’esercizio sul pensiero, che è sottilmente polarizzato sul respiro, è per Sestito sicuramente il più impegnativo di quello sul corpo, e il loro comune carattere con l’elemento aereo risulta evidente. Una volta postosi nelle condizioni richieste dall’esercizio ed essendosi messo in armonia con il ritmo luminoso del suo respiro, l’officiante si troverà di fronte all’ostacolo più serio al movimento della sua anima sulla via della liberazione: il pensiero. Il pensiero, di fatti, di per sé non ha nulla di spirituale o divino. Esso è un prodotto esclusivo dei nostri sensi, e proprio per questo, nel contesto di determinate pratiche epoptiche di natura misterico-iniziatica, non può essere lasciato scorrere liberamente, ma deve necessariamente essere dominato e allontanato (“scacciato”, come suggerisce la Prattica), affinché l’anima – che è sensibilissima come uno specchio – non ne venga impressionata negativamente.

 

 

 

 

 

 

 

 

Ipotetico ritratto dell’Iniziato e Filosofo neoplatonico Plotino in un dettaglio dell’affresco di Raffaello Sanzio La Scuola di Atene (Vaticano, Pal. Apostolici, Stanza della Segnatura)

Lasciare il pensiero scorrere liberamente con la segreta speranza di vederne esaurirsi il flusso è un’ingannevole illusione buona per i pigri, gli sciocchi e i fiduciosi. Esso non potrà mai del tutto esaurirsi spontaneamente (le sue risorse possono essere definibili infinite, “eterne”) e quando qualcuno crederà di aver frenato la spinta del pensiero in tal modo, egli si ingannerà due volte, perché ciò che vedrà sorgere in sé non sarà il sole dell’anima, ma la sua grottesca caricatura. Come sosteneva Amedeo Rocco Armentano nelle sue Massime di Scienza Iniziatica, «Il pensiero, per la sua stessa natura, non può secernere il puro spirito delle cose, imperrocché vede tutte le cose sotto duplice aspetto»⁴¹. Torneremo più avanti sulle Massime di Scienza Iniziatica di Armentano e ne capirete il motivo. Con la pigrizia o con la creduloneria, osserva sempre Sestito, non si raggiunge l’Iniziazione: ecco perché il pensiero deve necessariamente essere dominato, padroneggiato e, soprattutto, conosciuto. E, quando si presentano il momento o la necessità, nel contesto di determinati esercizi, deve essere assolutamente posto in condizione di non nuocere. Ma come si fa a dominare il pensiero? Secondo Sestito, non certo costringendolo con la forza, bensì con l’uso intelligente di quella potenza che è alla radice della vita e che presiede a tutte le manifestazioni visibili e invisibili del Cosmo. E, man mano che il pensiero si allontana, la mente (nous) cessa di apparire un passivo strumento dei sensi e riprende il ruolo che l’origine della parola stessa le assegna: misura di tutte le cose, per cui ad uno stato di oscurità, di ignoranza e di paura (che può essere lungo e fatale) segue uno stato di quiete profonda, che precede l’esperienza unica dell’Estasi. La prima delle Massime di Scienza Iniziatica di Armentano recita testualmente, in forma dialogica:

«È possibile conoscere?
È possibile.
Come?
Dominando il pensiero, facendo a meno di credere e liberandosi dalle passioni e dalla paura del nulla»⁴².

E, in alcune delle Massime successive, Armentano affermava che è la Contemplazione che dà la Conoscenza⁴³, che per contemplare è necessario essere liberi nei sensi⁴⁴ e che per essere liberi nei sensi occorre saper usare i sensi liberamente⁴⁵. Nella sua quinta Massima, Armentano ci insegna infine che i sensi non devono essere negati né bestemmiati, poiché essi ci accompagnano dal primo all’ultimo giorno, e che occorre saper ascoltare la loro voce. Arturo Reghini, che si cimentò in un importante commento interpretativo delle Massime di Armentano fra il 1923 e il 1925 in alcuni suoi articoli sulle riviste Mondo Occulto, Atanòr e Ignis⁴⁶, ci ha fornito, soprattutto riguardo a quelle Massime relative al pensiero e ai sensi, delle fondamentali chiavi di lettura. Riguardo alla prima Massima, che poc’anzi abbiamo riportato, Reghini osserva che, benché il testo nella lapidaria sua concisione non ci dica di quale conoscenza si tratti, è implicitamente inteso che la domanda non possa riferirsi che ad una conoscenza degna di questo nome, ossia ad una conoscenza sintetica integrale che possa chiamarsi la Conoscenza (con la “C” maiuscola). Come ci faceva notare Reghini, una conoscenza limitata ad un’area finita e confinante con un campo indeterminato e sconosciuto non merita il nome di Conoscenza, e, sebbene gli uomini si accontentino generalmente di conoscenze di questo genere e credano alla fatalità di tale carattere, si può pure porre il problema se sia o no possibile pervenire ad una Conoscenza superiore, ad una vera e propria Conoscenza esente da ogni limitazione e momento di errore. Naturalmente – osservava sempre Reghini – questo problema non può essere a sua volta risolto con i soli mezzi atti a dare all’uomo la conoscenza “ordinaria”, ed è perciò naturale che non sia possibile dare la dimostrazione logica dell’esattezza della risposta positiva che il nostro testo dà a questa domanda. Infatti, l’affermazione che il conoscere è possibile è già di per sé frutto di una esperienza trascendente il pensiero, a meno che essa non provenga da una credenza religiosa di natura dogmatica, da una mera illusione o da una menzogna cosciente. Ma nel nostro caso Reghini rileva che queste ultime sono ipotesi che possono essere scartate, poiché il testo di Armentano afferma categoricamente che dalle credenze e dalle passioni occorre liberarsi e che il pensiero deve essere dominato, quindi tenuto immune dalle passioni e dalle credenze stesse. La positiva affermazione della Massima è quindi, secondo il grande Iniziato fiorentino, risultato dell’esperienza, dell’aver provato e sperimentato, toccato con mano (o, più propriamente, con la mente o con l’anima), da parte di Armentano, un qualcosa che l’antica Tradizione Misterica Eleusina ben conosceva e che ci è stato trasmesso fino ad oggi attraverso gli scritti di Plotino, di Porfirio e dell’autore seicentesco del manoscritto della Prattica. Che sia necessario trascendere il pensiero per ottenere questa Conoscenza, come giustamente sottolineava Reghini, è cosa che si può comprendere anche logicamente. Il pensiero infatti, di sua natura, definisce e rappresenta, riferendosi e coordinandosi alle esperienze dei sensi. E comprendere, capire, è necessariamente ed etimologicamente limitare. La facoltà della mens è infatti quella di misurare (mensura), e quindi le sfugge non solo l’indefinito, ma anche ciò che è rispetto ad essa incommensurabile. Assegnare al pensiero, come generalmente si usa, la funzione della conoscenza, e concepire l’Universo come infinito, illimitato, equivale a condannarsi per un duplice motivo, secondo Reghini, ad un inesorabile e spenceriano inconoscibile. Osserva ancora Reghini che la mentalità moderna (e ben poco è cambiato dai suoi tempi ad oggi), che non ha alcuna ripugnanza a limitare l’Universo nel tempo e ad accettare acriticamente le varie “cosmogonie” religiose e scientifiche con tanto di “creazione” e di “fine del mondo”, è invece portata ad ammettere ad accettare l’idea di un Universo spazialmente infinito, concezione che appare inevitabile perché un nec plus ultra senza al di là spaziale sembra apparentemente un “assurdo logico”. E se l’Universo – si chiedeva Reghini – è spazialmente infinito, come potrà il pensiero arrivare a conoscerlo tutto? E, senza conoscere tutto l’Universo, si potrà mai parlare di vera Conoscenza?

 

 

 

 

 

 

 

Illustrazione dell’edizione del 1888 del saggio di Camille Flammarion
L’atmosphère: Météorologiepopulaire

Tutto questo si basa però sull’intuizione umana dello spazio e, in particolare, sul concetto di retta indefinita sopra la quale non vi può essere né un primo né un ultimo punto, ossia sull’ipotesi implicita che la concezione di un Universo esteriore spaziale tridimensionale ed euclideo corrisponda alla realtà, e sia anzi l’unica ipotesi adeguata. Un concetto dello “spazio assoluto” che già al tempo di Reghini era stato messo in discussione dalle teorie di Albert Einstein e dal postulato di un Universo spaziale finito e multi – o pluri – dimensionale, e ancora di più oggi, grazie alle teorizzazioni della Fisica Quantistica. Per Reghini era curioso osservare che mentre il pensiero trova assurdo che una retta tracciata nello spazio debba arrestarsi ad un ultimo punto, viceversa non può immaginare altro che dei segmenti di tale retta. Perciò, se la logica conduce ad ammettere un’ipotetica infinità dell’Universo, l’immaginazione conduce alla concezione di un Universo limitato. Reghini, nei suoi articoli, indugiava in queste considerazioni unicamente per mostrare come non vi sia alcuna vera ragione per accettare aprioristicamente il postulato dell’infinità dell’Universo e che, di conseguenza, il concetto pitagorico della Monade, l’Entità unitaria, limitata e indivisibile, l’elemento primo matematico dell’Universo, il principio (arché) da cui derivavano tutti i numeri, la molteplicità di entità monodimensionali e tridimensionali, il concetto stesso di unità in quanto principio di molteplicità, non sia affatto da ritenersi superato. Osservava infatti Reghini che pitagoricamente l’Essere è necessariamente limitato nella sua unicità e che l’unità è unica, senza altro né altri. La dualità e la molteplicità sono apparenze che non distruggono l’unicità dell’essere. E che, passando dalla unità alle unità, dall’uno ai numeri, dalla unità integrale alla numerazione indefinita, si passa dall’unicità dell’essere all’indefinita varietà e diversità della natura. L’Universo illimitato in questa sua varietà è contrapposto alla caratteristica limitazione dell’essere, e ci dà la prima coppia degli opposti pitagorici, di quella fondamentale dualità su cui poggia la natura tutta. Una dualità che, come vedremo, è sempre stata un concetto di fondamentale importanza nella Tradizione Misterica Eleusina, dal cui alveo nacque e si sviluppò il Pitagorismo. Ma pitagoricamente, come osservava Reghini, la indefinita illimitazione della natura non porta ad inferire analogicamente una simiglianteillimitazione dell’Essere, anzi giusto l’opposto. Dedurre dall’infinità del mondo l’infinità divina è un po’ come trascinarsi nel Regno dei Cieli i concetti di questo mondo, è appoggiarsi sopra a delle idee per cercare di comprendere quel che trascende le idee stesse, è pretendere di levarsi in volo senza liberarsi dalle impedimenta.

 

 

 

 

 

 

 

 

Amedeo Rocco Armentano in una rara immagine giovanile

Aveva quindi ben ragione Reghini quando affermava che coloro che, attraverso un’esperienza estatica di natura epoptica o altre pratiche similari, sono pervenuti a “sentire il proprio corpo dentro di sé”, e che perciò possono, come Plotino, arrivare ad intuire che, similmente, il Macrocosmo è nella Divinità come il Microcosmo è in noi, possono anche comprendere come si possa parlare di limitazione dell’Essere ad anche dello stesso Macrocosmo. Un grande Iniziato come Dante Alighieri, giunto alla fine della sua ascesi, vide che «nel suo profondo si interna»:

«Nel suo profondo vidi che s’interna,
legato con amore in un volume,
ciò che per l’universo si squaderna»⁴⁷.

Questo, come ci faceva notare Reghini, è il nesso, unico, dell’illimitata molteplicità, e la coscienza umana, connettendovisi a sua volta, può raggiungere la “coscienza dell’universale connessione”, ed in essa e per essa raggiungere la Conoscenza. È un nesso tutto interiore a-spaziale, questo enunciato da Reghini. Exotericamente, il simbolismo geometrico spaziale fa corrispondere e rappresenta questo nesso con il volumen, l’ὁλκός pitagorico della sfera racchiudente il mondo squadernato nei quattro elementi, volume che avvolge il mondo; e mostra che solo dal centro è possibile la visione sintetica, simultanea, globale dell’intera sfera e del suo volume o nesso. Il simbolismo aritmetico, temporale, musicale, ritmico – ci insegna sempre Reghini – percepisce e rappresenta questo nesso nell’armonia che fa del mondo un cosmo, e mostra che solo con l’accordo è possibile armonizzare col tutto e vivere all’unisono con l’armonia delle sfere. Con tutto questo il grande Iniziato fiorentino non intendeva affatto togliere il suo valore al pensiero. Il “picciol lume” nell’oscurità della notte può infatti servire all’uomo per non mettere il piede in fallo, ma sarebbe assurdo pretendere tale oscurità facesse scomparire. Anzi, chi nella piena oscurità, «spento d’intorno ogni lume», assuefà l’occhio alla notte (Madre e Germinatrice secondo la Tradizione Misterica Eleusina) finisce con l’ottenere la percezione più o meno indistinta delle cose vicine e di quelle lontane. Mentre, al contrario, una luce vicina ci permette, sì, la visione delle cose vicine, ma rende intorno ad esse più fitte le tenebre e ci impedisce ogni percezione di ciò che sta in lontananza. Soltanto il Sole, che fuga le tenebre, illumina parimenti quel che è vicino e quello che è lontano. E prima che l’aurora spunti è pur savio contentarsi della visione notturna consentita dagli astri senza ricorrere a lumi artificiali. Ma, se la coscienza si affida, si identifica e si vincola al pensiero, non distaccando mai l’attenzione dalla piccola luce della ragione, non solo finirà col perdere perfino la nozione del mare di tenebre che la avvolge e coll’illudersi di vedere, ma si metterà da sé stessa in condizione di insensibilità verso ogni possibile aurora.

 

 

 

 

 

 

 

 

William Blake: The Sun at his Eastern Gate, 1820
(Illustrazione per L’Allegro e il Pensieroso di John Milton)

NOTE:

1 Julius Evola: Rivolta contro il mondo moderno. Ed. Hoepli, Milano 1934.
2 Ibidem.
3 Piero Fenili: Gli errori di Julius Evola. Su Ignis n. 1 – Giugno 1991.
4 Daphne Varenya Eleusinia: Teologia Platonica. Articolo su www.academia.edu.
5Proclo: Teologia Platonica, I°, 6, 7.
6 Ibidem.
7Daphne Varenya Eleusinia: Articolo citato.
8Proclo: Teologia Platonica, I°, 6, 12.
9 Ibidem, I°, 6, 16.
10 Ibidem, I°, 6, 17.
11Nicola Bizzi: Da Eleusi a Firenze: la trasmissione di una conoscenza segreta, vol. 2°: Dal Medio Evo al rinascimento: la rinascita delle scienze e delle coscienze. Ed. Aurora Boreale, di prossima pubblicazione.
12 Roberto Sestito: Le basi pitagoriche dell’Estasi Filosofica. Su Ignis n. 1, Giugno 1991.
13 Porfirio: Vita di Plotino, 23, 9-14.
14 Ibidem, 23, 16-17.
15 Plotino: Enneadi, III°, 8.
16 Maria Luisa Gatti Perer: Plotino e la metafisica della contemplazione. Ed. Vita e Pensiero, Milano 1996.
17Plotino: Enneadi, III°, 8.
18Jean Marie Ragon: Iniziazioni antiche e moderne. Ed Atanòr, Roma 2014.
19Ibidem.
20Ibidem.
21Francis Henry Sandbach (1903-1991) è stato uno dei più noti filologi classici. Docente all’Università di Cambridge, ha pubblicato molti testi, fra cui una sua traduzione dei Libri VII°, IX°, XI° e XV° dei Moralia di Plutarco di Cheronea.
22Plutarco di Atene, noto come filosofo neoplatonico, fu il fondatore della Scuola Neoplatonica di Atene, all’interno della quale si perpetuò in clandestinità l’Eleusinità Madre per sfuggire alle persecuzioni cristiane. Era nipote del grande Nestorio, l’ultimo Pritan degli Hierofanti Eleusini ufficialmente in carica, dal quale ereditò il titolo pritanico e la Tradizione Misterica. Personalmente, in disaccordo con Sandbach, attribuisco a lui, e non a Plutarco di Cheronea, il Frammento 178.
23 Plutarco di Cheronea (attribuito a): Frammento 118 (Sandbach).
24 Il Fondo Magliabechiano, comprendente 5.799 manoscritti suddivisi in quaranta classi e un vasto numero di opere a stampa, costituisce la raccolta più antica della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze e nacque nel 1714 con il lascito di Antonio Magliabechi, grande letterato, erudito ed Iniziato, bibliotecario di Cosimo III° de’ Medici e sospettato di eresia dall’Inquisizione per i suoi molteplici interessi umanistici. La raccolta venne poi incrementata con acquisizioni successive provenienti dall’Accademia degli Apatisti, dall’Accademia della Crusca, dall’Accademia Fiorentina, dalla Biblioteca Mediceo Palatina Lotaringia, dalla Congregazione dei Teatini,dalla Badia Fiorentina, dal Convento S. Agostino di Cortona, dalla Chiesa di S. Giuseppe, dall’Ospedale di Santa Maria Nuova, dalla Libreria Strozziana, da vari altri enti e istituzioni e dalle raccolte personali di personaggi come Antonio Cocchi, Anton Maria Biscioni, Giuseppe Bardelli, Vincenzo Follini, Niccolò Gamurrini, Giovanni Lami, Paolo Lorenzini, Flaminio Pellegrini e diversi altri.
25 Roberto Sestito: Articolo citato.
26Elémire Zolla: Uscite dal mondo. Ed. Adelphi, Milano 1992.
27 Arturo Reghini ne riportò integralmente il testo nel suo saggio Le Parole Sacre di Passo dei primi tre Gradi e il Massimo Mistero Massonico (ed. Atanòr, Roma 1922).
28 Arturo Reghini: Ex Imo. Su Ignisnn. 8-9, Agosto-Settembre 1925.
29 Arturo Reghini (con lo pseudonimo Pietro Negri): Sub specie interioritatis. Su Ur n. 1, 1927.
30 Alessandro D’Ancona: Opere di Tommaso Campanella. Ed. Pomba, Torino 1854.
31Massimo Marra: La materia degli angeli: per un’interpretazione della “Prattica dell’estasi filosofica” dello Pseudo-Campanella.
Su: www.massimomarra.net.
32 Ibidem.
33 Arturo Reghini: Sulla Tradizione Occidentale. Con prefazione di Moreno Neri e saggio introduttivo di Nicola Bizzi. Ed. Aurora Boreale, Firenze 2018.
34 Roberto Sestito: Storia del Rito Filosofico Italiano e dell’Ordine Orientale Antico e Primitivo di Memphis e Mizraìm. Ed. Libreria Chiari, Firenze 2003.
35 Ibidem.
36 Ibidem.
37Giustiniano Lebano: Il Senato Occulto di Roma, in Ignis, Anno V°, n. 2, Dicembre 1992.
38 Roberto Sestito: Opera citata.
39 Giulio Parise: Biografia di Arturo Reghini. Pubblicata su Rivista di Studî Iniziatici (Mondo Occulto) – Napoli, Anno XXI, n. 1-2-3, Gennaio-Luglio 1947.
40 Roberto Sestito: Articolo citato.
41 Amedeo Rocco Armentano: Massime di Scienza Iniziatica. Ed. Associazione Culturale Ignis, Ancona 2004.
42 Ibidem.
43 Ibidem, Massima n. 2.
44 Ibidem, Massima n. 3.
45 Ibidem, Massima n. 4.
46La prima parte di questo studio interpretativo di Reghini venne originariamente pubblicata su Atanòrnei numeri 5 e 6 di Maggio e Giugno 1924 (preceduta da una parziale pubblicazione delle Massime stesse sui numeri di Gennaio-Febbraio e Novembre-Dicembre 1923 di Mondo Occulto), mentre la seconda apparve nell’ultimo fascicolo (Novembre-Dicembre 1925) di Ignis. Tali interventi sono stati, in tempi recenti, raggruppati sotto il titolo di Commento alle Massime di Scienza Iniziatica di Amedeo Armentano, oggetto di una pubblicazione on-line curata dal sito www.lamelagrana.net, oggi risultante non più attivo.
47 Dante Alighieri: Commedia, Paradiso, XXXIII°, 85-87.

Nicola Bizzi

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