6 Dicembre 2024
Cinema fantastico

Mostri all’angolo della strada e Apocalissi prossime venture. Il cinema fantastico di John Carpenter (parte II)

di Niccolò Ernesto Maddalon & Jari Padoan


 

Non voglio far parte della massa, voglio essere un individuo.

Mi porto cucito addosso ognuno dei miei film, con orgoglio.

Ecco perché ci tengo a tutte le critiche negative che ricevo:

se i critici cominciassero ad apprezzare i miei film,

sarei in guai seri!

John Howard Carpenter, regista e compositore

 

Fantascienza buonista secondo Carpenter: Starman

Dopo il successo ottenuto con Christine – La Macchina Infernale, parrebbe quasi che Carpenter voglia tentare una simbolica “rivincita” sull’E.T. spielberghiano che, ai tempi dell’uscita nelle sale di La Cosa, gli è quasi costato la carriera. Questo perché per una singolare, se non spiazzante circostanza, il suo nuovo film conterrà per così dire una certa dose di buoni sentimenti (e in questo caso da un punto di vista adulto, non di ragazzini desiderosi di aiutare un piccolo e traballante alieno telefono-dipendente…) e di picaresche avventure on the road decisamente più consone alla dimensione carpenteriana, il tutto in un contesto di fantascienza ecologista e antimilitarista. Arriva così sui grandi schermi il film Starman, tentativo di incursione di Carpenter nella fantascienza “per famiglie”. O meglio, un compromesso tra il necessario desiderio di andare incontro al “grande pubblico” (nei limiti del possibile…) e la sua tipica vena di regista iconoclasta.

Il film si apre con la reincarnazione di un uomo recentemente defunto in forma di sosia-clone extraterrestre: dopo una mirabolante rapida mutazione da feto a risorto Scott Hayden/Starman, questi si dirige verso la casa di Jenny, la vedova del defunto Scott Hayden umano (vediamo tramite gli occhi di Starman in soggettiva nottetempo, come avveniva nell’incipit di Halloween, mentre l’ambiente urbano spettrale altro è un’evidente autocitazione di 1997: Fuga da New York). Dal momento in cui l’enigmatico “Uomo delle Stelle” entrerà nella vita della neo-vedova, per i due inizierà una romantica avventura per permettere al protagonista di ricongiungersi con il suo popolo extraterrestre in quel di Meteor Crater, nel deserto dell’Arizona.

Come già accennato, contrariamente agli alieni ostili e mostruosi che ricorrono nel cinema di fantascienza-horror di quegli anni (basti pensare allo Xenomorfo di Alien, allo Yautja cacciatore di trofei umani di Predator e naturalmente alla malefica entità muta-forma del carpenteriano La Cosa), questo Uomo delle Stelle non è portatore di terrore e morte ma un messaggio di pace e fratellanza per i terrestri, avvicinandosi in qualche modo a: preferisce sviare i suoi antagonisti umani con buffi stratagemmi grazie ai poteri conferitigli dalle sfere in suo possesso e può contare su eventuali alleati lungo il suo percorso, un percorso che può facilmente apparire come una via di caduta e resurrezione. Evidente, infatti, è la sottotraccia cristologica del soggetto: come Gesù Cristo, oltre ad avere sconfitto personalmente la Morte, Starman resuscita animali uccisi dai cacciatori, ha solo tre giorni per poter ricongiungersi coi suoi famigliari celesti e, verso la fine del film, si ritrova ad affrontare una traversata del deserto con le persecuzioni dei “satanici” militari sulle sue tracce. La parabola di fantascienza messianica si conclude con il finale aperto che lascia intendere una fecondazione della donna da parte di questo messaggero stellare, il cui ascendente più diretto si può storicamente trovare nel celebre romanzo di Robert Heinlein Straniero in terra straniera (1961), un’opera chiave della fantascienza umanistica del secondo Novecento (per quanto non scevra da tendenze, appunto, “buoniste” e “New Age”). Anche questa volta, inoltre, è evidente la critica di Carpenter alla visione guerrafondaia profondamente radicata in certa cultura statunitense, percepibile nella rappresentazione degli antagonisti principali come dei bifolchi cacciatori di cervi, emblema dell’America più retrograda e reazionaria (e che sembrano quasi una sorta di rozzi alter ego dei protagonisti del drammatico Cacciatore di Michael Cimino) e degli emissari del NORAD elitrasportati (che potrebbero ricordare Apocalypse Now).

Tra le impressioni generalmente positive riscosse da Starman, l’analisi dell’autorevole sito ilcineocchio.it sottolinea la «storia d’amore sci-fi atipica per il regista, ma riuscita» e rimarcando ancora una volta che «la regia di John Carpenter è abile, di grande mestiere soprattutto nella commistione tra gesti e abitudini quotidiane ed effetti speciali». Ma in realtà, anche in questo caso l’ipercritico e saturnino regista di Carthage, guardandosi indietro, si è espresso negativamente nei confronti di quest’opera così lontana dalla sua usuale vena orrorifica, avendo definito Starman semplicemente… «un film per signorine» [I].

 

Il Vangelo secondo Bruce Lee reinventato in chiave weird / urban fantasy:

Grosso guaio a Chinatown

Big Trouble in Little China, uscito in Italia nel 1986 come Grosso guaio a Chinatown, vuole essere nelle intenzioni di Carpenter una classica commedia d’azione ricca di rimandi al suo amato western. Anzi, nell’idea originale avrebbe dovuto essere un vero e proprio western fantastico ambientato in una cittadina di frontiera a fine Ottocento [II]. Ma anche in questo caso (per insondabili motivi legati alla produzione che finanziava il progetto…), Carpenter non riuscì a realizzarlo e virò il soggetto del nuovo film a un tributo-parodia dei celebri film di arti marziali girati negli Anni Settanta a Hong Kong con protagonista Bruce Lee.

Sarà proprio per rendere in parte omaggio al leggendario divo e artista marziale sino-americano, che Carpenter deciderà di girare diverse scene del film in questione dove nacque il campione di Kung Fu e interprete de I Tre dell’Operazione Drago e L’Ultimo Combattimento di Chen, ovvero presso la comunità cinese di San Francisco. Realizzato con la collaborazione delle Chinatown di San Francisco e di New York, Grosso Guaio a Chinatown decostruisce ulteriormente il mito dell’eroe d’azione impavido e “macho”, grazie al personaggio del rude e gigione camionista Jack Burton (uno scanzonato e plateale Kurt Russell, al suo terzo ruolo da fumettistico antieroe dopo aver indossato i panni di Snake Plissken e quelli del McReady de La Cosa poi, per quanto stavolta si tratti di un personaggio dai tratti più solari e buontemponi). Burton, non è un eroe né tantomeno il vero protagonista del film: essendo quello che nel cinema anglofono viene definito un badass poser (termine traducibile in “sbruffone” o “pallonaro”), egli vive per complicare la vita ad un giovane ristoratore cinese suo amico, Wang Chi (interpretato dall’attore e artista marziale Dennis Dun, che Carpenter notò e apprezzò in L’Anno del Dragone di Cimino, uscito l’anno precedente).

Grosso Guaio a Chinatown è quindi un esplicito e divertito omaggio al cinema d’arti marziali di Hong Kong, rielaborato in chiave “commedia-action” e, naturalmente, con tocchi e spunti tipici dell’horror carpenteriano. Ricco di scene di combattimento a suon di arti marziali rivisitate in stile cartoonesco e di battute taglienti divenute iconiche presso i fan di Carpenter («Sei pronto, Jack?» «Sono nato pronto!»), il film attinge inoltre a piene mani dalla cultura videoludica per cabinati tipica di quegli anni, soprattutto da quei videogiochi “picchia-duro” a scorrimento, a tema “giovani avventurieri moderni che devono liberare una bella ragazza rapita da una banda di malviventi dei bassifondi cittadini” (Double Dragon 1 & 2 e Crimefighters tanto per fare i nomi di alcuni fra i più famosi).

Dopo i circa quindici minuti iniziali di presentazione dei due personaggi principali, una volta messo piede nella zona bagagli dell’aeroporto di San Francisco, Miao Yin (Suzee Pai), fanciulla cinese ieratica e quasi perennemente taciturna e promessa sposa di Wang Chi, viene rapita da un trio di sinistri individui (dall’abbigliamento vagamente “tamarro”), legati al mondo della malavita sino-americana che spadroneggia nel quartiere di Chinatown. Da qui, Jack Burton e Wang si lanceranno all’inseguimento dei sequestratori nei recessi di una San Francisco sconosciuta e letteralmente magica, alla corte di David Lo Pan (un diabolico James Hong) un anziano ed incartapecorito padrino delle Triadi paralitico che ospita in sé lo spirito di un malvagio stregone vissuto 8000 anni prima (e che parrebbe vagamente ispirato al mito degli Otto Immortali della tradizione taoista [III] ovviamente rivisitato in chiave negativa-demoniaca). Fra una peripezia e l’altra, il comprimario/spalla comica Burton, il vero protagonista Wang Chi e una congrega di artisti marziali del posto (guidati dal saggio Egg Shen, interpretato da un simpatico e magnetico Victor Wong), riescono a sconfiggere Lo Pan e a recuperare Miao Yin e altre ragazze cadute nelle grinfie del fu Padrino di Chinatown, tra le quali l’avvenente e saccente Gracie Law (Kim Cattrall), con la quale Burton instaurerà un tormentato affaire basato su una reciproca attrazione/repulsione. Il finale a sorpresa, con un demone scimmiesco che sbuca sul retro della motrice con a bordo un Jack Burton intento a improvvisarsi disc jockey radiofonico al baracchino mentre guida sotto un violento nubifragio, è il tipico colpo di scena prima dei titoli di coda che Carpenter beffardamente adora mettere in casi come questi. Arrivando così a ribaltare, in modo beffardo e dissacratorio, anche il mito dell’eroico e solitario cowboy che si allontana trionfante verso l’orizzonte al crepuscolo in cerca di nuove avventure.

A quanto sembra, grazie a John Carpenter, anche per la moderna, tecnologica e super-capitalista Hollywood la più misteriosa e magica Cina s’avvicina…

(A guisa di curiosità, è interessante notare che la scena dell’incontro tra Jack Burton e i seguaci dello stregone Egg Shen è girata in una caserma dismessa, ex proprietà del Corpo dei Vigili del Fuoco di New York City, che ha funto da quartier generale della squadra di Ghostbusters dell’omonimo film girato da Ivan Reitman l’anno precedente. Quindi, un set importante per il cinema fantastico degli Anni Ottanta!)

 

L’incubo oltre lo specchio: Il Signore del Male

Tanto per cambiare, Grosso Guaio a Chinatown non godrà di un grande successo di pubblico, diciamo pure che passerà quasi del tutto ignorato nelle sale [IV]. Ma John Carpenter, grazie al suo amico produttore Larry Franco, firma un contratto per la Alive Pictures e progetta un nuovo film decisamente personale e originale (firmando egli stesso soggetto e sceneggiatura, peraltro con lo pseudonimo di Martin Quatermass in un omaggio al personaggio omonimo protagonista del film Il Dr. Quatermass e l’Astronave degli Esseri Perduti e della serie televisiva Quatermass).

Nasce così Prince of Darkness – Il Signore del Male, che per stile e leitmotiv si propone come il secondo capitolo della “Trilogia dell’Apocalisse”, sicuramente all’altezza del precedente La Cosa e del successivo, allucinante Il Seme della Follia che Carpenter girerà nel 1994.

Un gruppo di studenti universitari specializzati in fisica e psicologia, in cui si distinguono l’aspirante scienziato Brian Marsh (Jameson Parker, ben lontano dalla serie poliziesca umoristica Simon & Simon che lo rese celebre), la sua collega Catherine Danforth [V], la giovane Lisa, studiosa di lingue antiche, e l’occhialuta Susan (esperta di architettura medievale che avrà la sventura di essere la prima vittima del liquido malefico) viene convocato dal professor Howard Birack [VI] (Victor Wong, nei panni del quasi “socratico” docente di cosmologia e fisica quantistica) e da Padre Loomis, un misterioso prete (il grande Donald Pleasence, qui al suo grande ritorno sul set di Carpenter dopo Halloween e Fuga da New York, nella parte dell’uomo di chiesa che vede la propria fede vacillare).

I due insoliti figuri, con la collaborazione dei ragazzi, intendono studiare una enigmatica teca di vetro celata nelle cripte della chiesa sconsacrata di St. Godard (probabile omaggio di Carpenter al collega regista francese Jean Luc Godard). All’interno dell’antichissimo contenitore contenente un fluido verdastro in perenne e sempre più rapido movimento (un inquietante “unisono” con il comportamento delle stelle a neutroni, in rapidissima rotazione su loro stesse). Il sacerdote scopre che l’obsoleta chiesa losangelina era un tempo sede su suolo americano della congrega monastica nota (a pochissimi) come la Confraternita del Sonno, ordine religioso della cui esistenza è tenuto all’oscuro il Vaticano stesso. De facto, la detta Confraternita del Sonno venne fondata, nel più assoluto riserbo, da alcuni monaci deputati a custodire in segreto il contenitore del sinistro liquido semovente. A seguito della recente morte nel sonno dell’ultimo di questi guardiani in abito talare, strani e sinistri eventi si scatenano a Los Angeles e nel resto del mondo: i cieli si oscurano al punto da essere rischiarati “solamente” dall’inquietante bagliore generato da una supernova in esplosione, gli insetti impazziscono e orde di vagabondi-zombie (nella torma degli spettrali clochard si nota nientemeno che Alice Cooper, celebre cantante heavy metal e storico esponente del cosiddetto shock rock) assediano e isolano la chiesa, arrivando ad assassinare a coltellate due dei protagonisti. Si torna al tema dell’assedio già presente in Distretto 13 e in The Fog, qui palese omaggio al collega e amico regista George A. Romero e alla sua “Trilogia dei Morti Viventi” [VII], oltre a ricollegarsi ovviamente al filone horror demoniaco-satanico avviato da film quali Rosemary’s Baby di Roman Polanski (1968), l’Esorcista di William Friedkin (1973) e The Omen – Il Presagio di Richard Donner (1976), vista anche la presenza di scene di possessioni demoniache operate a distanza dal diabolico liquido relegato nella teca, ma pronto a scatenare l’Apocalisse aprendo un varco inter-dimensionale con l’Anti-Universo ove risiede un Anti-Dio, naturalmente, costituito di antimateria. Il passaggio avviene grazie al corpo di una studentessa di nome Kelly (Susan Blanchard), posseduta e ingravidata del figlio del Principe delle Tenebre in una sorta di variante sulfurea e invertita dell’Immacolata Concezione. Da qui, la ragazza si trasforma progressivamente in una di signora-zombi glaciale e invulnerabile, una sorta di incrocio tra la Regan del citato Esorcista e una versione femminile di Michael Myers.

Kelly, o meglio, l’orribile essere che ha preso il suo posto (e anche qui si respira il miglior  Lovecraft, se si considerano le tremende mutazioni fisiche narrate ad esempio in The Dunwich Horror, The colour out of space, The shadow over Innsmouth o The dreams in the witch house, nel quale l’orrore si scatena proprio attraverso le ricerche di fisica quantistica…) verrà sconfitto da Catherine, sulle cui misteriose origini del suo personaggio si può risalire grazie ad un sogno collettivo fatto dai protagonisti. La ragazza si sacrificherà trascinando la Figlia del Maligno oltre uno specchio utilizzato dalla futura madre dell’Anticristo come portale per l’Anti-Universo, successivamente chiuso previa distruzione del detto specchio. Nonostante il Male paia sconfitto (?), resta l’atroce dubbio che qualunque specchio (topos fondamentale della narrativa fantastica) possa permettergli di subentrare nel nostro Universo e scatenare la Fine del Mondo. Ciò si evince dalla scena finale, con Brian (che è tra i pochi superstiti del massacro demoniaco) testimone di un incubo nel incubo. Lo studente rivede in sogno la misteriosa Catherine, rivelatasi essere una messianica viaggiatrice del tempo giunta fra noi dal 1999, dodici anni avanti nel futuro: Catherine è stata mandata nella Los Angeles del 1987 per fermare con ogni mezzo i mefistofelici del Signore del Male (del quale, sembra dirci Carpenter, il diavolo della tradizione giudaico-cristiana è solo un pallido riflesso). Una volta destatosi, il protagonista fa per toccare lo specchio della propria camera. Nel momento in cui ha quasi appoggiato un dito sulla superficie riflettente, lo schermo si fa improvvisamente buio e il film si interrompe…

In definitiva, nel secondo tassello della “Trilogia dell’Apocalisse” ritroviamo un Carpenter al massimo della padronanza del proprio stile e della propria poetica dell’incubo, e più “lovecraftiano” che mai nel recuperare e sviluppare sullo schermo i topoi del Solitario di Providence: orripilanti mutazioni psicofisiche, decadenti catacombe che celano segreti spaventosi e più antichi dell’umanità stessa (The Call of Cthulhu docet!), nonché il tema dei varchi inter-dimensionali e del sogno collettivo. Il Signore del Male rimane un grandioso e disturbante affresco cinematografico, che riesce nella notevole impresa di unire in un film dell’orrore suggestioni gotiche e fisica quantistica, effetti gore e speculazioni teologiche. Probabilmente, il film più complesso e impegnativo realizzato da Carpenter nella sua ennesima riflessione su due antichissimi terrori dell’uomo, l’Oltretomba e il Male assoluto.

 

L’Invasione degli Ultra-Plutocrati da un Altro Mondo: Essi Vivono

Carpenter, come si sa, non ha mai digerito gli USA in cui non si riconosce, quella meschina e cinica America patria del consumismo da fast-food & Mtv ormai completamente succube del capitalismo più arrivista e predatorio, da sempre generosa coi più ricchi e abbienti quanto impietosa con gli ultimi ed i reietti. Il regista newyorchese, brandendo ancora una volta l’arma della macchina da presa e dell’immaginario dei “B-Movies”, torna in azione e mette in scena la sua ennesima personale critica al Sistema stelle & strisce con un film di fantascienza dai toni grotteschi (ma come sempre in Carpenter, spietati).

Essi Vivono (They Live) è ispirato al racconto Eight O’ Clock in the Morning di Ray Nelson e per molti versi simile al racconto breve di Stephen King La Gente delle Dieci presente nell’antologia Incubi e Deliri, Carpenter gira un film su di una subdola invasione extraterrestre, con una notevole differenza rispetto a quelle precedenti: se gli alieni “cattivi” Anni ’70-‘80 miravano a conquistare la Terra per distruggerne gli abitanti (si veda a titolo d’esempio Alien o La Cosa) ed i loro colleghi Anni ’50-’60 voleva imporvi una loro dittatura di palese matrice totalitarista anti-americana (palese e neanche troppo velata allegoria al clima di terrore e paranoia russofobo-anticomunista da maccartismo prima e Guerra Fredda poi) nel nuovo film del regista newyorchese, gli alieni saranno degli insospettabili yuppies figli/prodotto dell’edonismo reaganiano i quali, oltre ad essersi mimetizzati alla perfezione fra noi umani, ci tengono a bada con la televisione e con messaggi subliminali. Inoltre, in linea con la visione pessimista di Carpenter, stavolta l’invasione è già avvenuta da tempo: i malefici yuppies interplanetari sono visibili in bianco e nero solo grazie all’ausilio di occhiali da sole speciali, prodotti da un movimento di resistenza composto da operai e diseredati provenienti da ogni parte d’America e pronti a “risvegliare” il nostro mondo, come dice Gilbert, il leader dei rivoluzionari, interpretato da Peter Jason.

Tali inconsueti plutocratici invasori provenienti da qualche sistema stellare della Galassia di Andromeda (come si scopre quando i due protagonisti riusciranno ad accedere alla base aliena che si snoda sotto le strade di Los Angeles), oltre a controllare da molto tempo l’andamento dell’economia a livello mondiale, possono fare affidamento su numerosi operatori umani collaborazionisti della loro causa quali la polizia e l’esercito, se non addirittura su di un ex senzatetto riciclatosi a novello Giuda Iscariota (il personaggio del barbone interpretato da un laido e subdolo George “Buck” Flower, storico caratterista di Carpenter, da sempre specializzato in particine da outsider, basti pensare al suo ruolo del clochard ubriaco in una breve scena di 1997: Fuga da New York). Quasi a volerci inoltre ricordare che sono loro quelli che grazie al Dio Denaro dettano legge, gli alieni-nababbi dalla faccia a teschio sono muniti di orologi da polso Rolex contenenti una ricetrasmittente che, oltre a permettere di comunicare con la loro base segreta, fungono da mezzo di tele-trasporto altrove in un lampo.

Il protagonista del film è un operaio bianco di nome John Nada. Un nomen omen, nell’ottica “neoliberista”: chi non lavora, non esiste. E il personaggio, interpretato dal wrestler Roddy Piper (1954-2015), è infatti ridotto ad una condizione di precariato e miseria ai limiti della condizione di senzatetto. John, dopo aver perso il suo ultimo lavoro a Denver, decide di lasciare il Colorado per la California, in cerca di fortuna a Los Angeles: qui accetta di lavorare in nero presso un cantiere edile dove fa amicizia con il manovale di colore Frank Armitage (il cognome di questo personaggio è un altro tributo carpenteriano a H. P. Lovecraft, dato che in The Dunwich Horror uno dei protagonisti ha lo stesso cognome): a fine turno i due si recano presso la vicina baraccopoli di Justiceville per pernottarvi. Dopo una giornata in cui attorno alla bidonville avvengono strani movimenti, la notte seguente un vasto dispiegamento di poliziotti in assetto antisommossa assaltano e radono al suolo la baraccopoli, manganellando e traendo in arresto molti dei suoi abitanti.

Le strade di John e Frank si dividono: mentre il secondo decide di continuare a lavorare al cantiere per una paga da fame, Nada (dopo aver visto come è veramente il nostro mondo e la nostra società attraverso un paio dei suddetti occhiali da sole) si arma di un fucile a pompa sottratto a due poliziotti-alieni da lui uccisi, entra in una banca (altro emblema del capitalismo) e apre il fuoco su tutti i presenti con una testa da morto per volto. Per scappare alla polizia, il Nostro prende in ostaggio Holly Thompson, una dipendente di una locale emittente televisiva.

Recuperati degli altri occhiali da sole “rileva-alieni”, Nada cerca di convincere uno scettico Frank ad indossarli (ci riuscirà solo a seguito di una violenta scazzottata di oltre otto minuti con il suo ex collega di lavoro in un degradato vicoletto colmo di spazzatura, scena ispirata a Carpenter dalla sua passione per il wrestling, un ambiente dal quale proveniva appunto Roddy Piper). Dopo essersi riconciliati e sistemati presso una squallida pensione a ore, i due compagni di sventura riescono ad entrare in contatto con la resistenza grazie a un invito ad una riunione segreta organizzata dal loro leader Gilbert. Purtroppo la polizia fa irruzione nel covo del movimento clandestino, uccidendo quasi tutti i ribelli presenti alla riunione notturna in corso. John e Frank, riescono ad accedere alla base aliena sita nel sottosuolo losangelino: qui trovano Holly (presente nel covo dei ribelli al momento della retata), la quale si rivelerà essere una collaborazionista umana degli alieni in quanto addetta alla programmazione e ideazione dei messaggi subliminali. Quando scopriranno che la Thompson è una traditrice, purtroppo per Frank sarà troppo tardi: l’operaio finirà infatti ucciso con una pistolettata alla testa per mano della algida dark lady in spalline al servizio degli invasori.

Al suo suadente ma imperioso «Non interferire. Non puoi vincere…», John vendica il suo amico uccidendo Holly con una pistola tascabile, servendosi poi dell’arma per distruggere l’antenna parabolica che invia il segnale di ipnosi di massa, appena un attimo prima di finire mitragliato a morte da un elicottero delle forze dell’ordine. Il finale (in perfetto stile carpenteriano) è da antologia: l’ultimo gesto di un oramai sconfitto nel corpo ma moralmente invitto John Nada è un dito medio rivolto verso i suoi assassini. I pochi minuti di epilogo beffardo e sardonico illustra le reazioni della gente esterrefatta nel constatare all’improvviso che gli alieni “vivevano” mentre noi “dormivamo”.

Dietro il coinvolgente intreccio narrativo, del resto pieno di azione anche grazie al physique du rôle di Piper e Keith David, Essi vivono è un urlo di rabbia verso l’assopimento delle coscienze [VIII], indottrinate e ipnotizzate dal continuo bombardamento dei media, in particolare, naturalmente, quello televisivo (un tema spietatamente affrontato anche nell’allucinato Videodrome girato da David Cronenberg nel 1983, che condivide con Essi Vivono la lucida e autentica denuncia dei danni intellettuali portati da certa TV-spazzatura che negli anni Ottanta assunse il predominio).

Ancora una volta, quello che Carpenter mostra, attraverso la lente deformante del suo cinema, è un messaggio politico in piena regola, ma che non va considerato nelle griglie ideologiche di “destra” o “sinistra” e delle rispettive, innumerevoli diramazioni e correnti. Perché il regista sa bene che il problema è casomai chi sta “sopra” e chi sta “sotto”. E sopra di noi, nel mondo attuale, c’è ancora un capitalismo internazionale disumano e disumanizzante, senza volto, senza Patria e senza «nessuna umana pietà», citando il buon Jena Plissken.

 

Un Uomo Invisibile alla Corte dei Fratelli Warner: Avventure di un Uomo Invisibile

A seguito del flop nelle sale di Essi Vivono, ad oltre diciotto anni dall’uscita nei cinema di Starman, nel 1992 Carpenter vorrebbe tornare a girare un film fantascientifico dalla trama semplice ma al contempo lineare: dopo il rifiuto di partecipare alla trasposizione comica e moderna dell’Uomo Invisibile creato da H.G. Wells (sotto l’egida della Warner Bros.) da parte di grandi registi del calibro di Ivan Reitman e Richard Donner, un entusiasta John Carpenter coglie la proverbiale palla al balzo. Viene così messa nero su bianco la sceneggiatura di Avventure di un Uomo Invisibile.

Nick Halloway (un Chevy Chase in un ruolo decisamente originale rispetto ai soliti personaggi comici interpretati dall’attore in questione) è un giovane broker particolarmente ossessionato dai soldi, dal lusso e dal successo che conduce una vita monotona, ripetitiva, piatta e noiosa all’inverosimile: se il John Nada protagonista di Essi Vivono è un invisibile facente parte del “quarto stato”, qui Nick Halloway lo è in quanto rappresentante ideale di tutti gli yuppies d’inizio Anni ’90: schivo, indolente, calcolatore, privo di relazioni sociali e/o amicizie, edonista, insofferente a qualunque stimolo non venga dal comprare o vendere titoli azionari in borsa.

Un giorno, a seguito di uno strano esperimento di laboratorio malriuscito dirimpetto alla stanza in cui Nick si è appisolato, il nostro insopportabile e superficiale protagonista diviene letteralmente invisibile dopo che il suo corpo è stato investito da una tempesta di particelle molecolar-nucleari. Braccato da Jenkins, un glaciale funzionario della C.I.A. (l’attore neozelandese Sam Neill, che tornerà alla corte di Carpenter pochi anni dopo nel grandioso Il Seme della Follia), Nick potrà contare sulle sue forze e su Alice Monroe (una Daryl Hannah, nell’insolito ruolo di spalla e compagna di sventura del protagonista), una giovane donna con cui Halloway ha avuto una fugace quanto breve relazione, qualche tempo prima dell’incidente che lo ha reso permanentemente invisibile. Una volta simulata la propria morte e sconfitto il temibile Jenkins (il cui decesso verrà prontamente insabbiato dalla C.I.A. ed archiviato come un suicidio) Nick, assieme a Alice, si godrà la sua nuova vita in una località sconosciuta fra le Alpi Elvetiche.

Anche in questo caso, con notevole acutezza quasi profetica, Carpenter vede in questo particolare periodo della storia americana (siamo alla vigilia dell’insediamento nella Casa Bianca del presidente Bill Clinton) un potenziale preludio ad un futuro prossimo particolarmente opprimente e alienante, costituito da un’umanità assoggettata al culto dell’alta tecnologia scriteriatamente (ab)usata per farci sentire più realizzati e socialmente migliori, quando in verità tende a creare disagi, dissapori e disamori a tutti i livelli della vita sociale.

La trama, seppure in parte riprendendo e reinventando idee già presenti nel meccanismo narrativo alla base di Starman (basti pensare ai militari e agli emissari del governo statunitense visti per lo più come delle persone pompose e prevaricatrici da evitarsi in quanto rappresentanti un Sistema particolarmente reazionario e liberticida che persegue la coppia di protagonisti in fuga, tanto per rendere il concetto), la critica ai falsi miti moderni quale il successo da raggiungersi a qualunque costo e con qualunque mezzo, il culto del Dio Denaro e uno spaccato nella vita degli invisibili (in questo caso tali anche nel senso letterale dell’accezione) fra i colletti bianchi oriundi dei quartieri bene delle grandi metropoli americane.

Parafrasando Karl Marx: un invisibile ex agente di borsa si aggira per la Svizzera in cerca di una sua dimensione ideale!

 

Ridere di (dis)gusto all’Obitorio: Body Bags

Nel 1993 esce per la televisione americana un film dell’orrore a episodi intitolato Body Bags – Corpi Estranei, e dietro la macchina da presa c’è ovviamente un redivivo John Carpenter.

Il regista non si limita a dirigere l’episodio iniziale La Stazione di rifornimento, e a co-dirigere assieme a Larry Sulkis quello intitolato Hair, ma arriva ad interpretare per puro divertimento un eccentrico medico legale (dalla cera non esattamente ottima) che fa da narratore delle storie, all’interno dell’episodio-contenitore L’Obitorio. Nell’episodio diretto da Carpenter, una giovane ragazza di colore assunta in prova come commessa e custode notturna presso una stazione di servizio si vedrà presa di mira da un serial killer il quale si aggira nei paraggi, avendo eletto il parcheggio della pompa di benzina a suo “territorio di caccia”.

In Hair, co-diretto assieme al collega Sulkis, Carpenter narra le grottesche disavventure tricologiche di un uomo di mezza età che, per far fronte ad un principio di calvizie, si affida ad una terapia anti-caduta sperimentale. Dopo un iniziale entusiasmo per il successo del trattamento, come per una morbosa legge del contrappasso, i capelli cominceranno a crescergli a dismisura, mentre in Eye, la storia finale, un giocatore di baseball che perde un occhio in un incidente stradale, noterà su di sé gli strani effetti di un trapianto singolare…

Nel finale dell’episodio-contenitore L’Obitorio, il bizzarro e sboccato coroner interpretato da Carpenter si adagia su di un tavolo da dissezione, rivelandosi essere un morto vivente racconta-storie alla Zio Tibia … Giusto in tempo per essere sottoposto alla propria autopsia (!).

Allegramente grottesco e coscientemente “granguignolesco”, Body Bags vede un variopinto cast artistico coinvolto nei vari racconti del terrore: dal personaggio del sinistro ma simpatico narratore impersonato da Carpenter, all’amico regista Tobe Hooper e Tom Arnold nei panni di due medici legali (addetti all’autopsia del collega nel beffardo quanto inquietante finale), Mark Hamill (assurto alla celebrità nei panni del Luke Skywalker della prima, storica trilogia di Star Wars), Stacy Keach (in seguito nei panni dell’ideologo neonazista in American History X), la cantante del gruppo punk rock dei Blondie, Deborah Harry (già inquietante e depravata dark lady nel Videodrome di Cronenberg), e altri ancora.

La Showtime, l’emittente televisiva addetta alla produzione del film, con atteggiamento ben poco serio e coerente decise tuttavia di ritirarsi dal progetto prima ancora che iniziassero le riprese. Portando così Carpenter e colleghi a fare gioco di squadra per stare a galla e a cercare di convincere i produttori a mandare in onda almeno Body Bags come episodio-pilota di quella che avrebbe dovuto essere una nuova ed originale serie di film horror a episodi.  Purtroppo, dato lo scarso successo ed il relativo esangue indice di ascolti, la serie non andò oltre il suo primo (ed ultimo) episodio: se John Carpenter è ormai da tempo un autore troppo estremo e sgradito per le “grandi” case di produzione cinematografiche, in questo periodo non può certo trovare terreno fertile nelle produzioni televisive (delle quali aveva già espresso un personale parere in Essi Vivono…).

Si dovrà infatti attendere il 2005 e l’innovativo esperimento della serie Masters Of Horror perché l’autore possa tornare a “mietere vittime” anche sul piccolo schermo.

(continua…)

 

NOTE

[I] Cfr. Giulia d’Agnolo Vallan, Lo spiraglio nella nebbia, in Lost Highway: John Carpenter, Film TV n.23, giugno 2018.

[II] Cfr. Michele Caricola, Grosso guaio a Chinatown. Il nuovo antieroe di Carpenter, in AA.VV., John Carpenter. L’antieroe del cinema americano, Weird Books, Roma 2020, p.123 e segg.

[III] Cfr. Aldo Tagliaferri, Il Taoismo, Newton & Compton, Roma 1996.

[IV]  Ancora una volta il cinema di Carpenter dovette fare i conti con una spietata concorrenza, vista la contemporanea uscita nelle sale di titoli sfracella-incassi come Aliens – Scontro Finale di James Cameron, seguito pirotecnico e fracassone dell’agghiacciante capostipite girato da Ridley Scott, e soprattutto di Top Gun con Tom Cruise, manifesto di certo becero ed edonista “superomismo” yankee di quegli anni, e la cui regia, incredibilmente, venne inizialmente commissionata dalla Twentieth Century Fox proprio a John Carpenter (il quale, chissà perché, rifiutò senza problemi!), e in seguito a Tony Scott, fratello di Ridley (NdA).

[V] Ennesimo omaggio di Carpenter all’amato Lovecraft e al suo celebre romanzo At the Mountains of Madness Le Montagne della Follia (1936), in cui uno dei coprotagonisti porta il cognome di Danforth (NdA).

[VI] Un probabile omaggio al celebre fisico britannico Paul Adrien Maurice Dirac (1902-1984) (NdA).

[VII] Composta dagli storici La notte dei morti viventi (Night of the living dead, 1968), Zombi (Dawn of the dead, 1978) e Il giorno degli zombi (Day of the Dead, 1985) (NdA).

[VIII] AA.VV., Essi Vivono, in Ritorno al futuro. La fantascienza in 201 film, Demetra, Verona 1998, p.54.

 

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