5 Dicembre 2024
Sulla strada

Metempsicosi – Rita Remagnino

Secondo Dante l’anima umana disporrebbe di tre distinte potenze: vegetativa, sensitiva, intellettiva. A causa della sua complessità il tema viene affrontato dal poeta a più riprese: nel IV libro del Convivio e nella dissertazione embriologica di Stazio nel XXV canto del Purgatorio, che in qualche modo costituisce l’«umbrifero prefazio» del più imponente discorso cristologico che Beatrice svilupperà nel canto VII del Paradiso.
Soffocato dalla cronaca il mondo attuale non si cura delle sottili dissertazioni che riguardano l’anima, ma la sua ossessione per la morte farà inevitabilmente rientrare dalla finestra ciò che è stato buttato fuori dalla porta. Ne vedremo delle belle quando finirà l’orgia cartesiana volta a persuadere che l’uomo può controllare e spiegare tutto, perché a quel punto si dovrà scendere a più miti consigli rivalutando concetti antichi, ed eterni, come mistero, ignoto, limite, anima, spirito.
Tanto vale portarsi avanti vagliando, tra gli altri, il punto di vista di Dante che si distingue da quello platonico e averroistico della triplice anima umana (concupiscibile, irascibile, razionale), mostrandosi in sintonia sia con la visione dei Catari del XII secolo, i quali distinguevano nell’uomo tre componenti (corpus, anima e spiritus), sia con la dottrina del cristianesimo dei primi secoli esposta in particolare da Origene, che teorizzava la remota origine astrale dell’anima umana.
Solidale con la concezione ciclica del tempo Dante distingue l’Anima dallo Spirito accodandosi in questo modo ai sistemi dottrinali che prevedono la reincarnazione, come ad esempio il misticismo orfico e il buddismo, in cui l’annientamento dell’individualità umana corrisponde alla completa affermazione dello Spirito. Se ne deduce che la parte spirituale, o angelica, o «scintilla» divina, è incorruttibile mentre l’anima insufflata da dio non è eterna e può macchiarsi di gravi colpe; magari non finisce all’Inferno come nel cattolicesimo, pur tuttavia si trova costretta a subire una serie di reincarnazioni attraverso le quali ha la possibilità di purificarsi.

 

Per certi versi è una fortuna che oggi la Commedia sia relegata al nozionismo scolastico poiché una più attenta disamina del suo messaggio salvifico potrebbe scatenare il putiferio, ovvero armare la faida tra abortisti e anti-abortisti, arruolando volontari anche negli eserciti dei pro e contro l’eutanasia. E’ infatti impossibile leggere la dissertazione di Stazio senza interrogarsi seriamente sui temi essenziali riguardanti la vita e la morte, dai quali nessuno scappa perché prima o poi tocca a tutti il momento in cui l’anima “solvesi da la carne, e in virtute / ne porta seco e l’umano e ‘l divino” (Pg XXV 80-81).
Può darsi che in futuro l’umanità venga soppiantata dalle IA e il problema sia archiviato per sempre. Ma per il momento su questo fronte ci sono solo tante promesse, mentre l’essere umano continua ad essere il punto di intersezione di tutte le linee di causalità che agiscono tra il cielo e la terra. Meglio non esagerare con gli attributi? Siamo così presuntuosi che pur di metterci al centro scomodiamo l’universo? Non è forse vero che hanno un’anima tutte le forme dotate della «grande saggezza antica», siano esse animali, vegetali, minerali?
E’ così, infatti. L’uomo, però, di anime ne possiede ben due: l’«anima umana» che privata degli organi e del tutto inerte sopravvive alla morte fisica (ma solo per un po’) e l’«anima divina» che continua ad esercitare le sue tre facoltà (memoria, intelligenza e volontade) anche «dopo» in modo potenziato, dovendo scegliere che parte andare, cioè dove/come reincarnarsi.
Le forze animiche possono fugacemente incontrarsi nell’impegno di fede individuale, cioè nel battesimo spirituale che si può chiedere da adulti (consolamentum) e rappresenta l’inizio di una nuova avventura in un altro mondo. Anche nella visione cattolica c’è il battesimo, ma è un’altra cosa. C’è pure l’anima umana che sopravvive alla morte biologica del corpo; tuttavia non vi è traccia dell’anima divina in quanto nell’Aldilà immaginato dai Padri della Chiesa non servono più la memoria, l’intelligenza, la volontà. Una volta trapassati si aspetta il premio o la condanna, punto e basta.
Dante attribuisce invece un ruolo attivo alla parte divina dell’anima, essendo compito suo decidere come e dove reincarnarsi per estinguere il debito contratto sulla Terra. “Quando Làchesis non ha più del lino, / solvesi da la carne, e in virtute / ne porta seco e l’umano e ‘l divino: / l’altre potenze tutte quante mute; / memoria, intelligenza e volontade / in atto molto più che prima agute. / Sanza restarsi per sé stessa cade / mirabilmente a l’una de le rive; / quivi conosce prima le sue strade” (Pg XXV 79-87).

 

L’idea che le anime umane non siano eterne, né preesistano al corpo da un lontano passato astrale, tiene Dante in bilico sulla linea di confine che separa il tempo dall’eternità. Insieme a lui l’anima compie un lungo viaggio: dalla complessione degli eventi naturali alla virtù formativa che proviene dal cuore del generante, dalla virtù informante dei cieli alla potenza di dio.
E’ un po’ questa è la straordinarietà della tesi dantesca: la virtù informativa che ha presieduto alla generazione del corpo umano fino all’intervento di dio che infonde l’intelletto «da fuori», diventa il principio informatore del nuovo corpo etereo di cui si rivestirà l’anima dopo la morte. “Tosto che loco lì la circunscrive, / la virtù formativa raggia intorno / così e quanto ne le membra vive” (Pg XXV 88-90).
Il discorso fila: come nella vita terrena la «virtù» è riuscita a plasmare un corpo fatto di carne, sangue, ossa, e organi vitali, così in quella ultraterrena essa plasmerà un corpo aereo, trasparente e privo di organi. E poi c’è chi dice che le grandi letture non servono ad affrontare il quotidiano perché il futuro chiede solo manovali lobotomizzati che facciano da maggiordomi alle macchine. Crederemo a queste scemenze quando chi le pensa dimostrerà di non dover rendere conto di sé alla Vita e alla Morte, all’Anima e allo Spirito.
Ancora a proposito della virtù informativa Stazio puntualizza che essa profila nel feto l’anima vegetativa, cioè l’“anima […] / qual d’una pianta” (vv. 52-53), con la differenza che nel caso della pianta l’anima arriva subito “a riva”, a destinazione, mentre nel caso dell’uomo deve affrontare un cammino (la gestazione) verso il compimento della sua entelechia. La trasformazione da anima vegetativa ad anima sensitiva è piuttosto macchinosa, il processo serve tuttavia a fortificare la prima permettendo alla seconda di sopravvivere in caso di morte corporale subito dopo la nascita.
Ricapitolando: dapprima il seme paterno cade sul ricettacolo femminile veicolando la virtù che il generante trasmette al generato, nel senso che la natura del «seminante» causa la diversità; poi arriva il momento creatore di cui non più la natura o i cieli possono essere causa efficiente, ma soltanto il Motore dei cieli; da ultimo c’è la virtù divina che infonde nell’anima il «seme di nobiltà» (l’intelletto) facendola «materia».

 

Appurato che le parti vegetativa e sensitiva dell’Anima sopravvivono alla morte del corpo per un certo periodo (Stazio), è sottinteso che solo lo Spirito può dirsi immortale (Beatrice). Se l’essere umano non fosse in balìa di queste forze, gli basterebbe morire per liberarsi di tutto e andarsene in pace. Invece deve avere cura della propria anima in movimento da un livello evolutivo all’altro fino al «lavaggio» definitivo che avverrà nell’ultima vita terrena, solo allora lo Spirito potrà salire libero nel regno dei cieli.
E l’Anima lavata, che fine fa? Non c’è più, dissolta. Nel senso che la parte animica rinata, o reincarnata, produce qualcosa di nuovo rispetto a ciò che c’era prima e non può considerarsi la stessa cosa. Ne consegue che solo lo Spirito è immortale, un tema incredibilmente attuale, o se si vuole meravigliosamente «antico» poiché la questione, oggi materia della fisica quantistica, era già attestata nelle Upaniṣad (vedasi la teoria del karma). Analogamente i Veda identificavano l’essere umano come un’entità emotivo-energetica, vale a dire un campo energetico che si manifesta anche con il corpo, in quanto la materia è lo 0,0001 di ciò che esiste, ma non solo attraverso di esso.
In tempi recenti Hameroff e Penrose hanno sostenuto qualcosa del genere dichiarando che l’«essenza» è contenuta all’interno di microtubuli che vivono all’interno delle cellule cerebrali, i neuroni, perciò ogni essere umano è in primo luogo un’entità spirituale. Composto da particelle quantiche, il soffio uscirebbe dal corpo dopo la morte per tornare in circolo nell’etere, oltre i confini del visibile, cioè nella casa del Padre.
La stessa fisica quantistica è tuttavia la prima a dire che la verità dipende dai sistemi di riferimento, i quali possono modificare gli oggetti presi in esame, per cui anche questa teoria un giorno potrebbe essere smentita. D’altra parte una ricerca efficace non può limitarsi ad accertare gli eventi ma deve entrare nei particolari trascurati in precedenza, che non mancano mai.
Resta valido, comunque, il principio di Nikola Tesla ed Albert Einstein secondo cui «tutto è energia», l’energia non si crea né si distrugge ma si trasforma. Ne consegue che la morte potrebbe essere davvero un’apparenza, come del resto le culture tradizionali hanno sempre sostenuto in assenza di strumentazioni ad alta tecnologia.

 

Volendo usare il ragionamento binario che attualmente va per la maggiore si potrebbe immaginare la parte spirituale come la sede umana del divino, ovvero dell’intelletto, autentica forma corporis di ogni singola persona, affidando alla parte animica il ruolo più ondivago ed emotivo confermato da varie tradizioni.
Se per la Chiesa cattolica l’indole di questa «forza» indipendente in grado viaggiare in piena autonomia, e quindi di peccare, può essere addomesticata in Purgatorio, cioè dopo la morte, nelle dottrine reincarnazioniste il percorso di purificazione va affrontato mentre si è ancora in vita. Questo è il motivo per cui Dante sta risalendo un balzo dopo l’altro la «scala» iniziatica simboleggiata dal Sacro Monte.
Persino un mortale fuori del comune come lui, che gode del privilegio di sapere di essere in cielo e non in terra (Pd I 89-92, e Pd XXII 7), deve sobbarcarsi nel “mezzo del cammin” della sua vita (35 anni) un viaggio singolare in un contesto che però ha tutta l’aria di essere un prolungamento, un’estensione, dello stato umano in fase di presa di coscienza dei livelli superiori dell’essere.
Si spiega così l’aspetto terreno del regno di mezzo, posto agli antipodi del mondo abitato ma pieno di corpi fisici che piangono e ridono, gioiscono e soffrono, godono delle albe e dei tramonti, osservano con interesse i panorami stellari e gli orizzonti marini. Andremo là ad attendere il nuovo giorno, dice un’ombra a Sordello, dove la costa fa di sé un grembo. “«Colà», disse quell’ombra, «n’anderemo / dove la costa face di sé grembo; / e là il novo giorno attenderemo»” (Pg VII 67-69).
Più «umane» di così queste anime non potrebbero essere. Ma com’è possibile che l’anima di un defunto dimagrisca, sorrida, o riesca ed esprimere emozioni, quasi conservasse un imponderabile simulacro del corpo di cui un tempo era forma sostanziale? Quale realtà si manifesta nella dimensione intermedia sospesa tra il tempo e l’eternità? Può dirsi anima il soffio privato delle sue spoglie mortali che patisce pene corporali (all’Inferno) o vive sereno (in Purgatorio)?
Dante sa che questa è la prova del nove, deve fornire al lettore argomenti convincenti se non vuole che la reputazione del messaggio salvifico di tutto il «poema sacro» ne esca compromessa in modo irreparabile. E’ dunque comprensibile che la lezione di Stazio sia tanto lunga e complessa, quasi sproporzionata rispetto al contesto del canto, tuttavia necessaria in previsione della dissertazione relativa al corpo aereo delle anime che la seguirà.

 

Le parole con cui Stazio conclude la sua dissertazione sfumano in Paradiso, dove vengono riprese da Beatrice che però diversifica subito l’anima delle creature inferiori dal principio vitale presente negli esseri umani: “[…] ma li alimenti che tu hai nomati / e quelle cose che di lor si fanno / da creata virtù sono informati. / Creata fu la materia ch’elli hanno; / creata fu la virtù informante / in queste stelle che ’ntorno a lor vanno. / L’anima d’ogne bruto e de le piante / di complession potenzïata tira / lo raggio e ’l moto de le luci sante; / ma vostra vita sanza mezzo spira / la somma beninanza, e la innamora / di sé sì che poi sempre la disira“ (Pd VII 133-144).
Fermo restando che la virtù del Motore del cielo è la Causa prima e remota responsabile dell’intero processo di generazione delle anime, è chiara la diversa prospettiva delle due guide che non per niente sono posizionati su due livelli differenti: la prima è ancora nel regno intermedio, mentre la seconda è arrivata in Paradiso e il suo sguardo dall’alto verso il basso riflette uno spirito saldamente ancorato alla visione delle cose in dio.
Come la dissertazione di Stazio punta a mettere in risalto la sequenza orizzontale delle cause prossime (un individuo genera sempre un altro individuo identico nella specie), così il discorso di Beatrice contempla la serie verticale delle cause equivoche, dove il meccanismo della riproduzione viene considerato sotto il profilo dell’influsso che i corpi celesti esercitano su tutti gli esseri viventi del mondo inferiore.
Lo dolce poeta” sostiene l’assoluto protagonismo della «virtus formativa» veicolata dal padre biologico, come se la materia del mondo sublunare non fosse altro che il soggetto puramente recettivo dell’attività che procede dalla “circular natura / ch’è suggello a la cera mortal”. In modo più raffinato la figura femminile investita per l’occasione del ruolo di «iter ad deum» esalta invece la «virtù informante» che dagli astri scende verso il mondo sublunare.

 

Sarà pure un cavillo, ma c’è differenza tra la causalità per generazione e la causalità per creazione. Consapevole di essere entrato nel difficile Dante ripete ad oltranza che l’uomo non riuscirà mai a cogliere certe sfumature con la sola ragione (già detto nell’Inferno), una facoltà certamente importante tuttavia inadeguata ad affrontare gli argomenti legati a ciò che dio «spira», cioè allo Spirito che egli chiama Vita.
A scanso di equivoci, l’umanità del XXI secolo neanche ci prova. Tuttavia il tempo è galantuomo e quando la sbornia materialista passerà torneremo rinsaviti a meditare sulla «virtù», da intendersi come principio primordiale che si esplica in energia vivificante, espressione di potenza cosmica, causa prima e agente universale, cioè attributo di dio.
Dall’alba dei tempi le domande che contano sono sempre le stesse; chi crediamo di essere, noi, per volerle cambiare? Ammettiamo piuttosto che dal nostro vocabolario zeppo di termini mercantilistici sono spariti i vocaboli capaci di descrivere le emozioni, di parlare delle esperienze profonde, di definire i vari stadi dell’essere. Il bullismo esercitato dall’alta tecnologia ha zittito persino il dialogo, il confronto, la semplice comunicazione tra esseri umani. Ma d’altronde il transumanesimo sogna l’immortalità, non gliene frega niente delle questioni legate all’Anima e allo Spirito. Gli scienziati pazzi ambiscono alla criogenizzazione e alla creazione di un’anima digitale. Chi la «programmerà»? Non dio.
Ironia della sorte si sta rivelando difettoso lo stesso recipiente in cui questa nuova forza dovrebbe essere insufflata, cioè il corpo umano ormai depotenziato. All’opposto dell’animale, che non ha mai smesso di adattare le proprie funzioni corporee al contesto naturale, la nostra specie negli ultimi tempi si è chiamata fuori da tutto, puntando sulle protesi artificiali.
Ad ogni modo siamo agli sgoccioli, scopriremo presto come si comporterà l’anima digitale dentro un corpo depotenziato, ammesso che ci entri. Le grandi ideologie che hanno obnubilato per secoli la mente dell’uomo sono già cadute quasi tutte e prossimamente su questo schermo vedremo eclissarsi anche il Progresso e la Ragione, i cani da guardia della tecnologia.
Dopo di che non resterà che un solo modo per uscire dall’abisso del non-senso e del caos: l’ipotesi soprannaturale. Da tempo immemorabile il trascendente si muove da un’Era all’altra come un fiume sotterraneo, come una forza misteriosa e possente che può trapelare anche nella notte più oscura. Quel nastro azzurro non è mai stato cancellato dalla nostra mappa esistenziale, né potrebbe sparire in alcun modo perché l’essere umano è fatto d’acqua.

Ricercatrice indipendente, scrittrice e saggista, Rita Remagnino proviene da una formazione di indirizzo politico-internazionale e si dedica da tempo agli studi storici e tradizionali. Ha scritto per cataloghi d’arte contemporanea e curato la pubblicazione di varie antologie poetiche tra cui “Velari” (ed. Con-Tatto), “Rane”, “Meridiana”, “L’uomo il pesce e l’elefante” (ed. Quaderni di Correnti). E’ stata fondatrice e redattrice della rivista “Correnti”. Ha pubblicato la raccolta di fiabe e leggende “Avventure impossibili di spiriti e spiritelli della natura” e il testo multimediale “Circolazione” (ed. Quaderni di Correnti), la graphic novel “Visionaria” (eBook version), il saggio “Cronache della Peste Nera” (ed. Caffè Filosofico Crema), lo studio “Un laboratorio per la città” (ed. CremAscolta), la raccolta di haiku “Il taccuino del viandante” (tiratura numerata indipendente), il romanzo “Il viaggio di Emma” (Sefer Books). Ha vinto il Premio Divoc 2023 con il saggio “Il suicidio dell’Europa” (Audax Editrice). Altre pubblicazioni: "La vera Storia di Eva e il Serpente. Alle origini di un equivoco" (Audax Editrice, 2024). Attualmente è impegnata in ricerche di antropogeografia della preistoria e scienza della civiltà.

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