5 Dicembre 2024
Archeostoria

L’eredità degli antenati, centoventunesima parte – Fabio Calabrese

Siamo finalmente giunti ad aprile, l’equinozio di primavera è passato da una decina di giorni, anche se il tempo meteorologico non sembra affatto primaverile ma piuttosto un supplemento di inverno. Tuttavia, la mia tabella di marcia mi avverte che questo nuovo articolo non potrà comparire sulle pagine di “Ereticamente” prima di luglio, e magari allora scoppieremo dall’afa.

È successo che, sebbene io abbia deciso di dedicare principalmente a L’eredità degli antenati il mio spazio settimanale su “Ereticamente”, il diluvio di nuove informazioni sul nostro passato, negli ultimi tempi si è ulteriormente intensificato, e attualmente il tempo che intercorre fra gli eventi e il momento in cui riesco a darvene notizia su “Ereticamente” superando il collo di bottiglia della pubblicazione, viaggia di nuovo sui quattro mesi.

Sembra sia un fato inevitabile quello di immergersi sempre più nel remoto passato e, come avete visto, ai miei pezzi si sono ora affiancati a scadenza regolare quelli di Michele Ruzzai raccolti nella serie (o rubrica) Strade del nord. Non lamentiamocene: la consapevolezza del passato che abbiamo alle spalle è precisamente ciò che definisce la nostra identità e le da un senso, e tanto vale nella vita collettiva come in quella individuale.

“Il Resto del Carlino” di venerdì 31 marzo ci segnala che l’Università di Bologna ha avviato un progetto di scavo del Colle della Tomba Bianca di Riccione, il progetto si intitola “Dal neolitico al medioevo”, ma sono soprattutto resti di età romana che ci aspetta di trovare, in considerazione dei reperti già rinvenuti in superficie.

Sempre a Riccione, l’Università di Bologna ha avviato dallo scorso autunno una prospezione tra le fondamenta del castello medioevale degli Argolanti, qui, già nel passato, tre diversi scavi, del 1984, del 1989 e del 1999 hanno evidenziato sotto al castello i resti di una villa di età romana.

Sempre “Il Resto del Carlino” di venerdì 31 marzo ci informa che è in corso il riallestimento del sepolcreto dei Faidieni venuto alla luce a Gambulaga, frazione di Portomaggiore (Ferrara) e che, per scopi didattici, sono state realizzate dal Creativity Lab di Portomaggiore, precise riproduzioni degli oggetti facenti parte dei corredi funebri rinvenuti nel sepolcreto.

Sempre il 31 marzo, un articolo di Angelo Petrone su “Scienze notizie” ci informa del ritrovamento di due monete romane nell’isola oggi disabitata del Mar Baltico di Gotska Sandön. Possibile che i Romani siano arrivati fin lì, o le monete vi sono giunte in qualche altro modo?

Il 4 aprile “Il Messaggero” con un articolo di Ugo Baldi riferisce che un escursionista ha rinvenuto a Civita Castellana (Viterbo), in località Celle, incisa su una roccia ad un’altezza di circa quattro metri, un’iscrizione di una ventina di lettere finora sconosciuta che dovrebbe essere in lingua falisca. I Falisci, si ricorderà, erano una popolazione che abitava il basso Lazio in epoca preromana.

Il 5 aprile, sempre “Il Messaggero”, con un servizio di Laura Larcan ci da la notizia che a Vulci si sta procedendo all’apertura della tomba di una “signora” etrusca rimasta intatta per oltre 2.500 anni. Al momento non è possibile sapere cosa vi si troverà come corredo funebre.

Forse sembrerà strano, ma il sito di “Sardegna turistica – Archeologia e Turismo Culturale”, oltre a occuparsi delle meraviglie archeologiche della seconda grande isola italiana – e non sono poche – ha dedicato un articolo, suddiviso in due parti, apparse il 3 e il 4 aprile, al santuario anatolico di Gopeckli Tepe. L’autore è Gian Mario Figoni Frau.

Questo santuario, di cui mi sono occupato varie volte anch’io, rappresenta un vero rompicapo per gli archeologi, infatti le datazioni al radiocarbonio dei resti organici che vi sono stati ritrovati, lo fanno risalire al 9.600 avanti Cristo, ossia a 11.600 anni fa, cioè a un’epoca precedente la scoperta dell’agricoltura. Possibile che esso sia stato realizzato da cacciatori-raccoglitori nomadi?

Concordo assolutamente con l’autore dell’articolo che tale conclusione è assolutamente impossibile, e che per conseguenza Gopeckli Tepe ci impone di retrodatare di parecchio la scoperta dell’agricoltura e la nascita di comunità stanziali, ma, diciamolo, è un mistero che permane, e non certo il solo del nostro lungo cammino.

Torniamo (un po’) più vicino a noi, in Francia, a Rennes. “The Archaeology Magazine” ci informa che i ricercatori dell’INRAP hanno rinvenuto in una cava di età romana, poi convertita in deposito di rifiuti, “frammenti di ceramica, monete, pezzi di vetro e spille da abbigliamento”, ma soprattutto due statuette della dea Venere.

Una delle statuette di Venere rappresenta Venere genitrice, la dea madre, con il suo busto drappeggiato in tessuto. La seconda statuetta è di Venere anadiomene, che mostra la dea nuda che strizza l’acqua dai suoi capelli mentre si alza dal mare”.

Singolarmente, in questo periodo “Ancient Origins” sembra dedicarsi alla storia militare, e quanto meno, ci offre informazioni su due figure chiave di essa nell’antichità: l’oplita greco e il legionario romano.

Un articolo di Johanna Gillian del 1 aprile ci parla dell’oplita greco del V secolo avanti Cristo. Questi guerrieri che dovevano il loro nome all’oplon, il grande scudo di bronzo, erano dotati di un armamento sofisticato per il loro tempo, che comprendeva, oltre allo scudo, l’elmo, la corazza, la lancia, gli schinieri. Furono, come sappiamo, cruciali non solo nelle lotte tra le varie polis, ma nel respingere l’invasione persiana. Erano soprattutto, come spiega l’autrice, cittadini-soldati, e gran parte della loro efficacia era dovuta alla motivazione, di uomini coscienti di lottare per difendere la propria comunità.

L’articolo di Robbie Mitchell del 3 aprile ci parla soprattutto del “viaggio finale”, della sepoltura del legionario romano caduto in combattimento e dei riti che l’accompagnavano, ma naturalmente è impossibile dimenticare che “L’impero romano è stato costruito sulle spalle dei suoi soldati che hanno marciato e combattuto instancabilmente per espandere i suoi confini e respingere i suoi nemici”.

Il legionario romano era un cittadino-soldato come l’oplita greco, ma la lunghezza della ferma tendeva a staccarlo dalla comunità e a renderlo più simile a un militare professionale.

Ma ovviamente, l’ultimo saluto ai commilitoni caduti era solo una parte della vita del legionario. Il 4 aprile, un articolo sempre di Robbie Mitchell ci parla di quella che era la vita del legionario di frontiera sulle torri di guardia che proteggevano il “limes” romano, una vita nello stesso tempo monotona e pericolosa, in perenne attesa degli assalti che potevano arrivare da parte delle popolazioni barbariche.

Come passavano il tempo libero questi soldati? Robbie Mitchell torna sull’argomento il 5 aprile: molta parte di esso era dedicata ai giochi d’azzardo, che costituivano una parte importante della cultura delle legioni, soprattutto al gioco dei dadi. Tutti e tre gli articoli sono accompagnati da brevi clip filmate sull’argomento.

“Ancient Pages” ci offre in questo periodo una serie di novità succose.

Un articolo del 1 aprile ci parla di un monumento poco noto dell’antichità, l’altare dei dodici dei che si trova ad Atene e presenta un’insolita forma circolare, ed è decorato nella parte superiore con il bassorilievo dei volti delle dodici principali divinità del pantheon classico, vale a dire Giove, Minerva, Apollo, Giunone, Nettuno, Vulcano, Mercurio, Vesta, Cerere, Diana, Marte e Venere. Questo monumento oggi pressoché ignorato tranne che dagli specialisti, fra le meraviglie ateniesi, nell’antichità era molto importante, era infatti il punto zero da cui si misuravano le distanze da Atene.

Una copia di età romana fu scoperta nel XVIII secolo a Gabii vicino a Roma, un tempo importante città latina che diede i natali al poeta Tibullo, e oggi parco archeologico, quest’ultima si trova ora ai Parigi, al Lovre, è stata una delle tante opere d’arte trafugate da Napoleone.

Ma in questo periodo “Ancient Pages” sembra dedicare spazio soprattutto al mondo celtico, Cominciamo, a tal proposito, da un articolo del 29 marzo che ci parla degli antichi Celtiberi, questa popolazione della Spagna che derivava dalla fusione di elementi celtici e iberici. La loro era una cultura guerriera, “Ancient Pages” la definisce “marziale”. Durante le guerre puniche i cartaginesi li arruolarono spesso come mercenari, ed ebbero una parte di primo piano nella seconda, sotto la guida di Annibale. I Romani copiarono da loro la spada a due tagli con cui sostituirono i gladi.

Il 3 aprile un articolo si occupa di Budicca, la regina degli Iceni che in Britannia si mise a capo di una rivolta contro i Romani. È una storia ben conosciuta e non mi dilungherò su di essa. Va notato però che nel mondo anglosassone, in particolare in Inghilterra che, come sappiamo, ha sempre nutrito un odio speciale verso Roma e l’Italia, Budicca è assurta ad eroina, a simbolo di lotta per la libertà. Ci si dimentica spesso di dire che durante la rivolta e l’occupazione temporanea di Londinium (Londra), i suoi uomini massacrarono qualcosa come 70-80.000 civili fra romani e britanni. È lo stesso tipo di cecità che si dimostra per le stragi commesse dai partigiani durante (e dopo, a lungo anche dopo) la seconda guerra mondiale.

Come “Ancient Origins”, così anche “Ancient Pages” dedica uno spazio alla mitologia. Stavolta si parla (argomento poco conosciuto) di mitologia celtica. Un articolo del 28 marzo ci parla di Aillén Mac Migdna, una strana figura, l’articolo di “Ancient Pages” ci racconta che apparteneva alla stirpe dei Tuatha Dé Dannan (che sono di solito “i buoni” della mitologia irlandese), e lo definisce “goblin”, ma i comportamento e gli attributi, a cominciare dalla capacità di scatenare il fuoco, era detto “il bruciatore” fanno pensare di più a un demone: Una volta, si racconta, riuscì a penetrare a Tara, la collina sacra dove erano incoronati i supremi re d’Irlanda, scatenando il panico.

Rimaniamo in ambito celtico. Sapevate che esiste un oscar per l’archeologia, Il Current Archaeology Award? L’edizione del 2023 è stata assegnata a un progetto di ricerca di un team di EASE Archaeology (vi risparmio i nomi, chiaramente irlandesi dei membri del team), per una ricerca che ha come oggetto le isole Orcadi. Queste ultime, come dimostra il DNA ricavato dalle sepolture, tra il Neolitico e l’Età del Bronzo, dal 3.800 al 2.500 avanti Cristo, furono oggetto di un importante fenomeno migratorio che cambiò la fisionomia genetica della popolazione, con una maggiore diffusione dell’agricoltura. Secondo i ricercatori dell’EASE, ma non è chiaro su cosa si basino, sarebbe trattato di una cultura matriarcale, e la migrazione sarebbe stata guidata dalle donne.

Tuttavia, non si poteva mancare di parlare anche di vichinghi. Come abbiamo visto più volte, le nuove tecnologie, il georadar che permette di scoprire strutture sotterranee e la tecnologia LIDAR che consente di vedere al disotto della volta arborea delle foreste, in questi anni stanno rivoluzionando la ricerca archeologica. Un articolo di Jan Bartek del 28 marzo ci parla degli esiti di una ricerca che è stata condotta in Norvegia nel fiordo di Trondhein con il GPR (radar a penetrazione del suolo), una variante del georadar. Essa ha rivelato la presenza delle fondamenta di alcune “case lunghe” di età vichinga, di diversi tumuli funerari finora sconosciuti, e di una “nave di pietra”. Per i vichinghi, popolo marinaro per eccellenza, era usanza simulare attraverso un allineamento di monoliti, il profilo di una nave sulle sepolture di personaggi particolarmente importanti.

Vorrei dirvi due parole di più su questo interessante sito che ho scoperto solo recentemente. Come vedete, ho citato diversi articoli di cui non ho menzionato la firma dell’autore, sono di A. Sutherland, il curatore del sito, che si può considerare, almeno in parte una one man’s band, ma di indubbia qualità.

Rimaniamo in tema di vichinghi, per ricordare che nell’ambito della sua rubrica “incontri d’autore”, il nostro Luca Valentini il 12 aprile ha presentato su You Tube un incontro-dialogo con Alberto Massaiu, autore del libro Vichinghi, storia degli uomini del nord, recentemente pubblicato dalle edizioni Diarkos di Pisa.

Vediamo ora cosa ci offre in questo periodo “ArcheoMedia”, sito, come sappiamo, dedicato principalmente all’archeologia italiana, che ha dimostrato tante volte di essere di ottima qualità e di procedere lontano dai riflettori anche in assenza di scoperte eclatanti, e c’è veramente di che rimanere stupiti di fronte alla quantità e alla qualità del materiale nuovo offerto, ragion per cui, per non eccedere troppo i consueti limiti di questi articoli, prendo ora – a malincuore – una decisione: procederò in maniera del tutto simile a come, se vi sovviene, ho fatto fra la centodiciannovesima e la centoventesima parte, ossia, vi illustrerò ora quella che a mio parere è la scoperta più significativa riportata da “ArcheoMedia” in questo periodo, dopodiché mi dedicherò alla stesura di una centoventiduesima parte che riporterà tutto il resto, immediatamente dopo aver terminato la stesura di questo articolo.

Una novità che ci porta nella preistoria profonda, quella delle centinaia di migliaia di anni.

Forse ne avrete già sentito parlare: l’uomo di Altamura è probabilmente uno dei più importanti fossili umani mai ritrovati in Italia. In una grotta carsica di questa località in provincia di Bari, ora chiamata “abside dell’uomo” fu rinvenuto nel 1993 lo scheletro di un uomo di Neanderthal risalente a 150.000 anni fa. Con ogni probabilità l’uomo doveva essere caduto accidentalmente nell’inghiottitoio carsico e non era più riuscito a uscirne. Col tempo, lo scheletro è stato inglobato da uno strato di calcite che l’ha conservato integro, ma ha reso anche impossibile estrarlo.

Secondo quanto riferisce l’articolo su “ArcheoMedia” di Giorgio Manzi del 29 marzo, con il progetto PRIN 2017-2020, si è effettuato, grazie a tecniche di paleoantropologia virtuale (mediante sensori laser), uno studio dettagliato della morfologia del cranio dell’uomo di Altamura, e i risultati sono abbastanza sorprendenti: le caratteristiche dell’uomo rientrano in pieno nella tipologia dei neanderthaliani, tuttavia presenta un miscuglio di tratti “evoluti”, quali ci aspetteremmo per il periodo in cui è vissuto, e altri paragonabili a quelli di crani più arcaici come quelli di Saccopastore e Ceprano. Faceva probabilmente parte di una popolazione vissuta in almeno relativo isolamento.

Torniamo ora più vicino a noi per dirvi un paio di parole conclusive: per prima cosa, si nota che il risveglio d’interesse per le tematiche ancestrali sui siti generalisti che si rivolgono al grosso pubblico, che ha cominciato a manifestarsi verso la fine del 2022, continua. Come interpretare ciò? Essi sia orientano, sia riflettono l’interesse del pubblico. Che la gente stia cominciando a stufarsi di sentir raccontare sempre le solite banalità? In ogni caso, è un sintomo che fa ben sperare.

Secondariamente, parliamo spesso (soprattutto in riferimento alla mitologia), di greci e di vichinghi. Beh, stavolta “Ancient Origins” ha riportato l’attenzione sul mondo romano, in particolare sull’importantissima figura del legionario, e “Ancient Pages” sul mondo celtico. Greci, Romani, Germani (di cui i Vichinghi sono una parte), Celti. Le nostre radici sono lì, ma a loro volta, questi popoli non sono che rami del grande albero indoeuropeo. È da lì che discende la nostra eredità ancestrale, le nostre radici autentiche, che non hanno nulla a che fare con una religione venuta dal Medio Oriente.

 

NOTA: Nell’illustrazione: monoliti del santuario preistorico di Gobeckli Tepe, illustrazione ripresa da “Sardegna turistica – Archeologia e Turismo Culturale” del 3 aprile.

 

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