3 Ottobre 2024
Storia delle Religioni

Le fonti di Diritto Islamico e Israeliano. L’influenza del modello giuridico Italiano in Libia e in Israele


Giuseppe Chiantera

 

Abstract

 

Dal punto di vista più strettamente giuridico l’Islam si presenta, come ogni diritto confessionale, finalizzato al raggiungimento di fini ultraterreni e, quindi, si deve dotare di strumenti che permettano di adattare le singole prescrizioni al raggiungimento di quei fini. Questo sistema non è strutturato intorno ad un corpo di leggi; esso si presenta più come il diritto dei giuristi che come il diritto dei giudici.

In Israele, invece, dopo il 1948 ci fu l’elaborazione di un diritto civile, nuovo, autoctono e originale: un progetto che è andato procedendo in parallelo con l’altro compito della Knesset di approvare, a partire dal 1958, una serie di “Leggi Fondamentali” volte a definire nel dettaglio i principi fondanti dello Stato ebraico. In tale diritto, però, la radice ebraica non è esclusiva, né prevalente. L’idea della biblica halachah come unico diritto nazionale d’Israele, fu rapidamente abbandonata, per la sua inapplicabilità pratica. Pertanto, l’edificazione del diritto civile israeliano ha preso un altro percorso, quello di una legislazione informata ai valori occidentali di laicità e democrazia e alle esigenze della modernità, confluente verso le esperienze del Common Law e Civil Law.

Lo scritto prosegue poi prendendo in considerazione la diffusione del modello giuridico italiano (legislativo, dottrinale, giurisprudenziale) in Libia e in Israele.

In Libia, fra il periodo della presenza italiana e il periodo dell’indipendenza si è inserito un tempo, non lungo, di occupazione militare ed esercizio del potere politico da parte delle potenze contro cui l’Italia aveva combattuto la guerra (soprattutto la Gran Bretagna). E quel periodo cancellò molte tracce del passato. Ma le realtà introdotte dagli italiani hanno messo radici invasive e profonde, sìcché il modello importato nei tempi coloniali convive con realtà ripristinate dopo l’indipendenza.

Il contributo del modello italiano al diritto di Israele non è dovuto, invece, a ragioni storiche o di natura geo-politica; il diritto di Israele ha risentito soprattutto dell’influenza del common law anglo-americano. Ma in questo Paese le origini della dottrina giuridica, per lo meno di quella privatistica, sono contrassegnate dal modello italiano, così come esso si è incarnato negli ebrei italiani che sono emigrati dopo essersi laureati nelle Università italiane e talvolta avervi conseguito la cattedra. Cosicché, il diritto italiano si è identificato con il carisma personale di alcuni grandi giuristi italkim, i quali si sono ispirati allo stile italiano dello studio accademico e della cultura giuridica.

 

LE FONTI DI DIRITTO ISLAMICO E ISRAELIANO. L’INFLUENZA DEL MODELLO GIURIDICO ITALIANO IN LIBIA E IN ISRAELE

 

Le fonti del Diritto Islamico[1]

L’Islam non è solo una religione, è anche una cultura, un assetto di potere, una ideologia complessa e articolata. Ma l’Islam è anche una religione, una religione che detta regole sia di tipo spirituale che di tipo temporale e che nel tempo ha organizzato regole dando vita ad un ordinamento giuridico.

Dal punto di vista più strettamente giuridico l’Islam si presenta come un ordinamento con delle caratteristiche molto particolari: come ogni diritto confessionale è finalizzato al raggiungimento di fini ultraterreni e quindi si deve dotare di strumenti che permettano di adattare le singole prescrizioni al raggiungimento di quei fini. Pur presentando analogie con il diritto romano, specie nel campo dei diritti reali e del possesso, non è strutturato intorno ad un corpo di leggi; esso si presenta più come il diritto dei giuristi che come il diritto dei giudici[2].

In Occidente invece, la norma giuridica, intesa come prodotto della ragione ed in quanto tale dotata di forza vincolante, ha il primato rispetto altri tipi di regole che pure vigono nella società (quali quelle a carattere etico, morale, religioso). Nel mondo musulmano, dove invece la fonte del diritto è Dio, legislatore per eccellenza, la norma religiosa ha anche contenuto giuridico e soprattutto riceve la propria legittimazione dal fatto di essere emanazione diretta di Allah. Di conseguenza, essa è ben più di un semplice precetto religioso, così come l’intero diritto musulmano è molto più di un semplice sistema di norme di diritto regolanti le condotte dell’individuo, essendo un sistema totalizzante che regola ogni aspetto della sua vita. Inoltre, i precetti coranici, fonte primaria del diritto islamico, essendo vero e proprio testo rivelato da Dio, non possono essere messi in discussione da un musulmano, perché ciò significherebbe appunto mettere in discussione la parola di Dio.

Altra considerazione è che non esiste un Islam, ma diversi Islam. Diversi Islam che si sono succeduti nel tempo, con caratteristiche diverse, con scelte di fondo diverse e, quindi, con soluzioni diverse ai problemi della vita pratica. Esso è caratterizzato da una estrema flessibilità. Si tratta di caratteristiche tipiche di ogni ordinamento religioso ma che nell’Islam sono agevolate dalla mancanza di un’autorità centrale. Esistono, così, diverse scuole ufficiali che sono legittimate a fornire una interpretazione delle fonti dell’Islam.

Dopo la morte di Maometto si succedono quattro califfi (detti ben guidati) e durante questo periodo si procede a consolidare la parola del Profeta. É questa l’età dell’oro dell’Islam, cioè il periodo in cui si sarebbe realizzata una perfetta società islamica. Ciò segna profondamente il modo di pensare e di agire dei musulmani in quanto, se il modello ideale di società si è concretizzato sulla terra, a differenza di quanto ad esempio ritengono i cristiani, quell’esperienza storica rappresenta il punto di riferimento, il traguardo verso cui tendere. l’Islam, per questo motivo, viene rappresentata come una religione conservatrice, inevitabilmente rivolta al passato e non al futuro come invece accade ad altre religioni.

Tra i comandi contenuti nella sharia (termine che può essere tradotto come “la retta via” e che indica la legge rivelata da Dio) si devono distinguere quelli che riguardano il rapporto tra uomo e Dio, cioè i precetti più prettamente religiosi, da quelli che riguardano le relazioni tra esseri umani. I primi sono detti ibadat, i secondi mu’amalat.

Le ibadat sono rappresentate essenzialmente dai cinque Pilastri (arkân al-dîn), cioè i cinque atti di culto fondamentali della religiosità musulmana. Questi atti trovano la loro fonte diretta nel Corano che li istituisce e ne disciplina in maniera generale l’esecuzione.

Il primo pilastro è costituito dalla professione di fede islamica (shahâda) con la quale un individuo rende testimonianza della unicità del Creatore e della verità del profeta Maometto. Da questa dichiarazione discendono in capo al fedele musulmano non solo degli specifici obblighi nei confronti di Dio, ma anche una nuova situazione sociale: egli diviene membro effettivo della comunità musulmana e inserito nella netta suddivisione fra ciò e chi appartiene all’Islam e ciò e chi non vi appartiene. Sul piano pratico, la coerenza a questa testimonianza comporta l’obbligo per il fedele di conformare la sua vita alle regole di condotta stabilite dal Corano e dalla Sunna. La testimonianza è un atto personale e volontario e nessuno ne può mettere in discussione la sincerità se non tramite una solenne dichiarazione di abiura.

L’adorazione quotidiana (salât) rappresenta il secondo atto di culto fondamentale dell’Islam.  Essa viene menzionata dal Corano in numerosi versetti; già all’interno della seconda sura è stabilito: “Coloro che credono nell’invisibile, assolvono all’orazione e donano ciò di cui noi gli abbiamo provvisti”. Tale adorazione rituale presenta comunque delle peculiarità rispetto alla preghiera del mondo cristiano in quanto soggetta a precise modalità di esecuzione. In primo luogo, essa deve essere eseguita dal fedele in momenti determinati e per ben cinque volte al giorno. In secondo luogo, la sua valida esecuzione richiede come condizioni la purezza rituale, il vestiario appropriato, l’orientamento in direzione della Mecca e l’idoneità del luogo. L’unica preghiera che si svolge in maniera comunitaria è quella del venerdì alle ore 12:00. La fondamentale importanza della preghiera quotidiana è dimostrata dal fatto che il Profeta a proposito di questo atto di culto avrebbe affermato: “Nel giorno della resurrezione la prima voce che sarà esaminata nel conto del servo è l’adorazione. Se il risultato dell’esame sarà positivo, anche tutto il resto sarà approvato. Ma se il risultato dell’esame sarà negativo, allora anche tutto il resto sarà riprovato”. Lo stato di purezza rituale è ottenuto mediante una serie di lavaggi denominati abluzioni.

L’imposta coranica (zakât) costituisce il terzo pilastro dell’Islam. La sharia impone ad ogni musulmano con capacità contributiva di pagare un’imposta a titolo di assistenza pubblica.  L’elemosina obbligatoria rappresenta la manifestazione religiosa del rapporto tra il credente e i suoi simili che si esprime attraverso la condivisione dei beni. Anche l’elemosina, come la preghiera rituale, viene menzionata dal Corano in numerosi versetti. Accanto all’elemosina obbligatoria esiste una forma di carità privata, assolutamente libera.

Il quarto pilastro, ossia il digiuno nel mese di Ramadân (sawm Ramadân), rappresenta probabilmente l’atto di culto più osservato nel mondo islamico. Esso è disciplinato nelle sue linee essenziali dal Corano che in un versetto recita:  “È il mese di Ramadan, nel quale venne fatto scendere il Corano, codice di vita per gli uomini, esposizione chiara delle direttive, criterio per distinguere il bene dal male. Chi di voi veda (l’inizio) del mese, digiuni”.

Hanno l’obbligo di digiunare tutti i musulmani puberi, sani di mente e in condizioni fisiche che permettano di farlo senza danni per la loro integrità fisica. Il digiuno consiste nel non assumere né cibo né bevanda, nel non fumare, nel non avere rapporti coniugali, nel non ingerire per via orale (né introdurre nel corpo per altra via) alcuna sostanza o medicinale. Esso comincia circa un quarto d’ora prima dell’inizio del tempo dell’adorazione rituale dell’alba e si conclude al calar del sole.

Il quinto pilastro è costituito dal pellegrinaggio (hajj). Ogni musulmano che ne abbia le possibilità è tenuto una volta nella vita a recarsi ai luoghi santi dell’Islam. Il pellegrinaggio che assolve all’obbligo rituale è quello compiuto in un determinato periodo dell’anno e che prevede l’osservanza di un insieme di riti.  Il Corano menziona anche un altro tipo di pellegrinaggio, più breve, denominato visita (umrah), che può essere compiuto in qualsiasi periodo dell’anno, ma che se svolto nel mese di Ramadân, ha la stessa valenza del lungo pellegrinaggio.

Tra le altre caratteristiche dell’Islam si osserva la mancanza di un’autorità centrale e l’assenza del clero. Quanto al primo punto, esso determina come logica conseguenza che l’Islam non si è dotato di un soggetto che abbia il potere di fornire un’interpretazione assoluta della verità; ciò evidentemente favorisce la possibilità di una pluralità di posizioni dottrinali e teologiche che si confrontino con pari dignità. Per quel che riguarda invece la scelta di questa confessione religiosa di strutturarsi prescindendo dalla creazione di un clero, questa decisione non toglie che operino nel mondo musulmano tutta una serie di soggetti che si occupano di guidare la preghiera (imam) o fornire precetti che regolino la vita della comunità dei credenti (ulama).

La sharia, cioè la legge religiosa, riparte in cinque categorie le azioni umane: atti obbligatori, consigliati, liberi, sconsigliati, proibiti. In base a questa classificazione, il diritto islamico prevede la possibilità che vengano efficacemente posti in essere degli atti che siano oggetto di un giudizio negativo, la loro riprovazione non ne inficia la legittimità (ad esempio, il ripudio).  Dinanzi ad ogni aspetto della vita quotidiana, che sia il cibarsi, la pratica di un’attività lavorativa o di un’attività sportiva, o, piuttosto, un’operazione commerciale, il musulmano deve chiedersi se si tratta di un atto proibito, riprovato, permesso, raccomandato o obbligatorio. La risposta a questo interrogativo il musulmano deve ricercarla soprattutto nel Corano, considerato messaggio divino che mira a condurre l’umanità verso ciò che è il bene, essendo Dio solo in grado di decidere ciò che è buono e ciò che è male. Se nel Corano non c’è una risposta chiara, egli farà riferimento alla tradizione (sunna). Accanto a queste due fonti scritte, il giurista musulmano poi si riferisce alla tradizione dei compagni di Maometto, agli scritti dei giuristi che hanno sistematizzato il diritto musulmano ed alle opinioni delle autorità religiose espresse in particolare sotto forma di fatwa.

Accanto alla sharia c’è il fiqh, ovvero la conoscenza della legge religiosa, quella conoscenza che permette una lettura appropriata ed una corretta interpretazione della volontà divina.

Le fonti di produzione, che i musulmani chiamano radici del diritto, sono quattro:

1)        Il Corano

I capitoli, sura, sono 114 e hanno una lunghezza variabile. Altrettanto diversificate sono le materie che vengono prese in considerazione: diritto di famiglia, usura, compravendita, prestito, disposizioni che regolamentano il diritto di guerra e la situazione giuridica degli Ebrei e dei Cristiani. Vi sono anche norme di carattere contraddittorio, una antinomia che il Corano stesso giustifica nel momento in cui stabilisce la congruità di una rivelazione progressiva prevedendo che Dio possa abrogare delle sue precedenti disposizioni sostituendole con delle nuove; da qui l’esigenza di conoscere quale sia il versetto cronologicamente anteriore che viene abrogato e quale quello posteriore, esigenza spesso di difficile soddisfazione dato che la collocazione dei versetti (prima o dopo) nel libro non è ritenuto un criterio sufficiente a dirimere l’eventuale contrasto. Per questo motivo, i musulmani hanno l’esigenza di andare oltre il Corano.

2)        La sunna

Per integrare i comandi del Corano, il principale punto di riferimento è la tradizione, intesa come tutto quello che riguarda la vita del profeta e dei suoi primi compagni. Il suo comportamento, le sue azioni, le sue parole compongono la sunna e diventano norma, giacché la sua vita, pur essendo la vita di uomo, è considerata ispirata dalla divinità. Tutto ciò è ricostruito attraverso i racconti dei comportamenti di Maometto, i cosiddetti hadith, trasmessi prima oralmente e poi trascritti. Le raccolte (sei) di hadith vennero fissate definitivamente solo tra l’870 e il 915. L’estensione della sunna, cioè la possibilità di riconoscere valore non solo alla tradizione di Maometto ma anche a quella di altri soggetti, come gli imam,  è alla base della divisione dei musulmani tra sunniti e sciiti.

3)        Igma

Accanto alle due fonti scritte citate, il diritto islamico pone due fonti orali. Con il termine igma si indica il consenso della comunità in merito a questioni religiose. L’accordo dei fedeli, o meglio dei dottori in quanto rappresentanti qualificati della comunità, produce diritto conformemente a un detto attribuito a Maometto, secondo cui “la mia comunità non si troverà mai d’accordo sopra un errore”. Gli sciiti non riconoscono valore giuridico a questo strumento.

4)        Qiyas

Con questo termine si indica la possibilità di creare una regola giuridica attraverso il ricorso al procedimento analogico, per cui da un caso disciplinato espressamente si trae il principio che serve a regolamentare un caso simile ma non previsto. L’ammissibilità di questo procedimento dividono profondamente le varie scuole giuridiche in cui si articola il mondo musulmano.

Accanto a queste radici del diritto, si pone come ulteriore fonte di produzione normativa la consuetudine. Il riconoscimento della consuetudine è servito ad adattare il diritto islamico alle tradizioni ed alle esigenze di comunità molto differenti tra loro.

Leggi rivelate prima di Maometto e riportate nel Corano e nella Sunna

Pur accettando i profeti che hanno preceduto Maometto, il Corano accusa  gli  ebrei  e  i  cristiani di aver alterato i loro libri sacri.  Anche se i libri sacri ebraici e cristiani sono considerati falsificati, il Corano  chiede  alle due comunità di conformarvisi.  Quando era consultato dagli ebrei come arbitro, Maometto si informava sul contenuto della loro Bibbia e applicava loro le sue norme, anche quando la comunità aveva deciso l’opposto, È il sistema che fa riferimento all’appartenenza nazionale o religiosa delle persone ai fini della definizione della legge da applicare.

Sulla base del fatto che i libri sacri ebraici e cristiani sarebbero falsificati, i musulmani non si sentono tenuti  a osservare le norme dettate da questi libri, tanto più che essi dispongono del loro libro sacro non falsificato e del loro Profeta, che  considerano  infallibile.  Il  Corano esige da Maometto che applichi alla sua  comunità quello che gli è stato rivelato.

Nonostante l’atteggiamento negativo dei musulmani verso i libri sacri delle altre  comunità, il Corano e la Sunna pullulano di riferimenti, di detti e di passaggi ripresi, a volte alla lettera, dall’Antico Testamento e da versioni apocrife del Vangelo. Alcuni di questi passaggi hanno un carattere normativo. Essendo citati dal Corano, essi non possono essere considerati dai musulmani come falsificati. Di conseguenza, i giuristi musulmani si chiedono se questi sono da imporre anche ai musulmani. Essi operano la distinzione fra tre categorie di norme:  norme la cui applicazione è limitata ai loro destinatari; norme la cui applicazione è estesa ai musulmani; norme i cui destinatari non sono precisati.

 

Il diritto ebraico

Diversamente da quanto avvenuto in altre tradizioni giuridiche[3], soprattutto quella romana, quella ebraica non ha conosciuto – per lo meno fino al XIX secolo con la cd. haskalah[4] – la separazione tra precetto religioso e precetto civile, tanto che l’espressione mishpàt ivrì, traduzione di “diritto ebraico”,  rappresenta una locuzione moderna, essendo difficilmente riscontrabile, nell’ebraico antico, un concetto analogo a quello della consueta accezione, moderna e occidentale, di diritto; proprio perché non sussiste una differenza qualitativa tra norme quali, per esempio, l’obbligo del risarcimento, o la sanzione dell’omicidio, e precetti relativi invece al culto, l’abbigliamento, l’alimentazione ecc[5].

La Legge, nell’ebraismo, è solo quella divina, e Dio ha parlato solo nella Torah. Non c’è Legge, pertanto, all’infuori delle mitzvòt (precetti): non può esistere, nella storia d’Israele, un sovrano legislatore.

Il diritto ebraico non è scindibile dall’osservanza religiosa. Si può pertanto definire come diritto ebraico l’aspetto precettivo della religione ebraica, identificabile essenzialmente nella cd. halachah (via, strada), ossia quella parte della Torah in cui Dio esprime, in modo imperativo, una coattiva regola comportamentale, e che si contrappone cosi alla cd. haggadah (racconto), ossia quella parte, quantitativamente maggioritaria, di Scritture (anche esterne alla Torah) in cui il testo risponde a varie esigenze narrative (storiche, omiletiche, simboliche, poetiche, sapienziali ecc.), ma non a propositivi normativi.

Il diritto ebraico è quindi quello scaturente dalla halachah, ossia dall’insieme di norme (mitzvôt = precetti) formulate nei cinque libri della Torah.

Alla Torah, fons fontium, va poi affiancata la cd. Mishnah (ripetizione, ossia il testo in cui, secondo la tradizione, tra il II e il III secolo, fu messa per iscritto la Legge orale che, insieme a quella scritta, sarebbe stata consegnata a Mosè sul monte Sinai). Fondamentale importanza, ai fini dell’intellezione del senso della halachah, assume il commento alla Mishnah che sarebbe stato elaborato, tra il IV e il VI secolo, dalle Accademie rabbiniche di Palestina e Babilonia, poi confluito nelle due grandi raccolte del Talmùd (Palestinese e Babilonese). Ma, pur assumendo il testo talmudico di altissima importanza ai fini della corretta interpretazione del senso dell’halachah, esso resta comunque sempre un’elaborazione umana, non di origine divina (come la Torah e la Mishnah), e pertanto oggetto di libera interpretazione e contraddizione.

Perduta, nel 70 d.C., la sovranità nazionale in Terra d’Israele, il popolo ebraico sceglie di perpetuare, nelle terre dell’esilio, la propria identità nazionale, osservando – attraverso la cosiddetta ortoprassia, ossia il rispetto minuzioso e quotidiano delle mitzvòt -, pur nella diversità delle latitudini, delle lingue e dei costumi, una medesima Legge, quella della Torah, nuova “patria ambulante” del popolo d’Israele.

 

Diritto israeliano

Il progetto sionista, sfociato nella rinascita di Israele come Stato sovrano e indipendente, dotato di libere e democratiche istituzioni, ha anche significato un grande processo di rinascita giuridica. Dopo il 1948 ci fu l’elaborazione di un diritto civile israeliano, nuovo, autoctono e originale: un progetto che è andato procedendo in parallelo con l’altro compito della Knesset di approvare, a partire dal 1958, una serie di “Leggi Fondamentali” volte a definire nel dettaglio i principi fondanti dello Stato ebraico, in armonia con le irrinunciabili linee di fondo scolpite nella Dichiarazione d’Indipendenza[6].

In tale diritto, però, la radice ebraica non è esclusiva, né prevalente. L’idea della biblica halachah come unico diritto nazionale d’Israele, fu rapidamente abbandonata, per la sua evidente inapplicabilità pratica. Pertanto, l’edificazione del diritto civile israeliano ha preso un altro percorso, quello di una legislazione (quantunque permeata dei valori biblici di libertà, uguaglianza e giustizia, e fortemente tributaria, soprattutto in alcuni campi, come la bioetica, verso i principi dell’ebraismo) informata ai valori occidentali di laicità e democrazia e alle esigenze della modernità, confluente verso le esperienze del Common Law e Civil Law.

Perciò, pur essendo il diritto dello Stato ebraico, il diritto israeliano, in quanto diritto laico di uno Stato democratico e non confessionale, non può essere definito diritto ebraico.
La dichiarazione d’indipendenza israeliana affermava che sarebbe stata scritta una costituzione formale, sebbene sia stata continuamente posticipata dal 1950. pertanto, le leggi fondamentali di Israele  funzionano come leggi costituzionali del paese.

Le influenze straniere e storiche sul moderno diritto israeliano sono varie e includono la Mejelle (codice civile dell’Impero ottomano), il diritto civile tedesco, il diritto religioso (l’Halakha ebraica e la Sharia musulmana; per lo più pertinente nell’area del diritto di famiglia) e il diritto comune britannico.

Alcune questioni legali specifiche in Israele (ad esempio, questioni di status personale come matrimonio e divorzio) rientrano nella giurisdizione del sistema del tribunale religioso. Esiste un elenco di comunità religiose legalmente riconosciute: ebrea, musulmana, cristiana greco-ortodossa, cristiana cattolica ecc. Ogni comunità religiosa ha il proprio tribunale religioso. Ad esempio, matrimoni ebraici sono sanzionati solo dal Consiglio religioso locale, e i divorzi degli ebrei sono gestiti esclusivamente dai tribunali rabbinici. I giudici (dayanim) dei tribunali rabbinici ebraici sono tutti rabbini ortodossi.

 

L’influenza del modello italiano in  Libia

Gli operatori giuridici libici tendono a misconoscere l’influenza del modello giuridico italiano sul proprio diritto nazionale. Ciò avviene per motivi ideologici fra le giovani generazioni di giuristi, cresciute sotto la dittatura del colonnello Mu’ammar al-Gheddafi. La damnatio memoriae del periodo coloniale, operata dal regime negli anni della Gamahiriyya, ha tentato di cancellare o di attenuare le numerose tracce dell’influenza italiana nell’ordinamento giuridico libico[7].

La Libia, uscita da un periodo di amministrazione controllata anglo-francese (la Cirenaica e la Tripolitania ricadevano sotto il dominio della Corona inglese, mentre il Fezzan era sotto l’influenza francese) che dalla metà del 1943 si era sostituita a quella militare italiana, è diventata indipendente nel 1951 sotto la guida di Re Idris al-Sanussi. Il Paese si orientò verso il modello giuridico egiziano, anche se per circa un decennio era rimasta in vigore la legislazione coloniale italiana. Il codice civile italiano venne formalmente abrogato con decreto il 28 novembre 1953 e sostituito dal nuovo codice civile di modello egiziano. Va da sé però che la classe di giuristi libici dell’epoca risentì dell’influenza italiana nel periodo di vigenza dei codici italiani. Per la redazione del nuovo codice civile libico fu istituita una commissione libico-anglo-italo-libanese che fu poi sostituita da una commissione libico-egiziana. La prima commissione (nella quale aveva partecipato quale giurista italiano il prof. Asquini) aveva predisposto i progetti di un codice civile e di un codice di commercio: il primo venne accantonato, mentre il secondo, per l’impossibilità di adottare un testo moderno egiziano, diventò il codice di commercio libico, ancora parzialmente vigente e nel quale sono molto forti le influenze del diritto italiano. Il codice civile libico è dunque il più vicino al modello egiziano: va detto tuttavia che alcuni articoli, per l’esattezza 23 su 1151 sono la traduzione in arabo di articoli del nostro codice civile. Così gli articoli 507-513 libici corrispondono ai nostri 2256-2260 in materia di amministrazione disgiuntiva e congiuntiva, revoca della facoltà di amministrare; gli articoli 517-530 ai nostri 2267-2273 in materia di responsabilità delle obbligazioni sociali, escussione preventiva del patrimonio sociale, creditore particolare del socio, cause di scioglimento della società e proroga tacita, così come lo scioglimento dei rapporti sociali limitatamente ad un socio per morte, recesso, esclusione, liquidazione della quota del socio assente, l’art. 531 è il nostro 2274, relativo ai poteri degli amministratori dopo lo scioglimento; l’art. 535 è il 2281 sulla restituzione dei beni conferiti in godimento; il 695 libico è il nostro 2119 sul recesso per giusta causa e, infine, il 1053 libico è il nostro 2817 che detta la disciplina dell’ipoteca legale.

Ma è soprattutto nel codice di commercio del 1953 che i modelli normativi italiani persistono. Questo testo è di particolare interesse per il comparatista italiano giacché è – quasi per intero – una traduzione in arabo di testi italiani[8]. Il codice di commercio libico del 1953 consta di 913 articoli, ripartiti in sette libri (questa è una peculiarità del codice libico). Di particolare rilievo è il Libro IV dei titoli di credito (disposizioni generali, titoli al portatore, titoli all’ordine, titoli nominativi, cambiale, tratta, vaglia cambiario, assegno: artt. 249-441) che ha per fonte gli artt. 1992 e seguenti del codice civile italiano. Per la cambiale e l’assegno viene recepita la recensione italiana delle due convenzioni di Ginevra. La Libia è così l’unico paese arabo, tra quelli che hanno aderito alla Convenzione di Ginevra in materia cambiaria, che non richiede per la cambiale il rapporto di provvista come quelli che hanno adottato il testo originale della Convenzione o la recensione francese.

Il Libro V tratta delle società commerciali (artt. 442-706). Sono previsti i tipi di società presenti nel nostro ordinamento, compresa l’associazione in partecipazione che è denominata società.

Infine il Libro VI sul concordato preventivo e sul fallimento (artt. 707-913) è largamente ispirato alla legge fallimentare italiana (d.r. 16.3.1942 n. 267), così come già era avvenuto per il codice di commercio libanese. Poco conta che per lungo tempo, durante il periodo della Gamahiriyya araba popolare socialista, introdotta a seguito della Terza Teoria, vi fosse stata la pressoché totale eliminazione del commercio privato e fossero divenute inutili e superflue tutte le norme societarie e quelle in materia fallimentare e di concordato preventivo, giacché la collettivizzazione delle imprese non le rendeva soggette a fallimento. Tramontata l’esperienza gheddafiana, nell’attuale periodo di transizione si assiste ad una piena riespansione del modello italiano originale per quel che riguarda il diritto commerciale.

Non può, infine, non considerarsi l’influenza del modello italiano in Libia per quel che riguarda il diritto penale. Anche per la redazione dei progetti dei codici penale e di procedura penale era stata investita una Commissione alla quale il guardasigilli libico aveva indicato come modello il codice penale egiziano del 1937. Tuttavia, della Commissione faceva parte il magistrato italiano Vito Gianturco il quale ebbe l’incarico della revisione del testo definitivo del progetto di codice penale e dell’elaborazione del progetto di codice di procedura penale. Si legge nella relazione introduttiva: «La Commissione per quanto possibile ha seguito le tracce del codice penale egiziano discostandosene in quelle parti che essendo ricalcate sul vecchio sistema francese (Codice del 1810), apparivano manifestamente arcaiche e superate dagli sviluppi della scienza del diritto penale e della moderna criminologia, tenendo conto delle più moderne codificazioni degli altri stati arabi (Siria, Iraq) e delle più evolute legislazioni degli stati del bacino del Mediterraneo»[9].  Fra queste sicuramente rientravano quelle offerte dal modello italiano. Il prestigio di cui godeva il codice Rocco, unitamente alla formazione nelle Università italiane delle elités libiche, rese facile a Gianturco nella revisione del progetto del codice favorire l’introduzione di molte parti del codice penale italiano.  Anche nei principi è forte l’impronta del modello italiano. Così, ad esempio, tra le regole generali nel Capo I è affermato il principio della riserva della legge penale: nullum crimen nulla poena sine lege. Sono poi disciplinati sul modello italiano i casi di successione delle leggi penali, la previsione del favor libertatis, la sfera di applicazione della legge penale estesa anche ai reati commessi all’estero, l’esplicito divieto del ne bis in idem. È, inoltre, previsto l’istituto dell’estradizione che è concessa solo ricorrendo una serie di condizioni previste dall’art. 9.  È posta la regola, infine, che tutte le norme contenute nella parte generale del codice si applicano, in difetto di espresse statuizioni contrarie, a tutte le infrazioni previste in leggi speciali o regolamenti speciali, e si riafferma il principio che lex specialis derogat generali. Soprattutto, è la stessa finalità emendativa della pena che viene ripresa dal modello italiano all’art. 40, perché la Commissione reputò necessario non solo reprimere, ma anche prevenire: accanto alla pena si è così sviluppato l’istituto delle misure di sicurezza inteso alla prevenzione dei reati nei confronti di persone riconosciute dal giudice come pericolose.

Va considerato, infine, che all’Università di Bengasi, nella cui Facoltà di Giurisprudenza, considerata ancora la più autorevole del paese, le materie penalistiche venivano insegnate da professori formatisi negli anni ’70 presso le Facoltà italiane, principalmente alla scuola di Delogu, nell’Università La Sapienza di Roma o nell’Università di Napoli

 

L’influenza della cultura giuridica italiana sul diritto di Israele[10]

Il contributo del modello italiano al diritto di Israele non è dovuto a un’autorevolezza del nostro codice civile, delle nostre leggi o della nostra giurisprudenza, e tanto meno è dovuto a ragioni storiche o di natura geo-politica: da questo punto di vista, si comprende agevolmente che il diritto di Israele abbia invece risentito soprattutto dell’influenza del common law anglo-americano[11]. Il Mandato britannico di amministrazione della Palestina, il quale aveva fatto seguito al disfacimento dell’Impero ottomano, protraendosi fino alla costituzione dello Stato di Israele il 15 maggio 1948, ha fatalmente lasciato in eredità a quell’ordinamento giuridico i principi del common law e dell’equity inglese, sia pure originariamente subordinandoli alla Mejelle[12]. Dopo la seconda guerra mondiale il rapporto privilegiato che lega Israele agli Stati Uniti d’America ha indubbiamente avuto un’influenza decisiva in tutti gli ambiti della realtà politica, sociale ed economica, a cominciare da quello del diritto.

Se questo è vero, è altresì vero che in Israele le origini dell’insegnamento universitario del diritto, e, in un certo senso, le origini della dottrina giuridica, per lo meno di quella privatistica, sono contrassegnate dal modello italiano, così come esso si è incarnato negli ebrei italiani che sono emigrati dopo essersi laureati nelle Università italiane e talvolta avervi conseguito la cattedra.

In Israele, il diritto italiano si è identificato con il carisma personale di alcuni grandi giuristi italkim[13], i quali si sono ispirati allo stile italiano dello studio accademico e della cultura giuridica. Questo modello, che si rifà alla grande tradizione del ius commune, può essere riassunto in questi termini: quale interprete del diritto, il professore è superiore al giudice. In definitiva, il professore è il vero interprete del diritto[14].

Il vero iniziatore dello studio accademico del diritto e del suo insegnamento universitario in Israele può essere considerato Guido  Tedeschi, il quale, nato a Rovigo nel 1907, si laureò a Roma nel 1928 e divenne libero docente nel 1930. Nell’Università di Siena egli ebbe l’occasione di contribuire ai lavori preparatori del codice civile italiano, in particolare del secondo libro. Poco dopo, a causa delle leggi razziali del 1938, fu espulso. Egli fu tra i fondatori della Facoltà di Giurisprudenza della Università Ebraica di Gerusalemme, dove insegnò dal 1949 al 1976, e fu anche tra i fondatori dell’Istituto per le ricerche di legislazione e di diritto comparato, nel 1959. La sua influenza sul diritto israeliano si può cogliere soprattutto nel contributo alla codificazione progressiva, la quale segna una maggiore vicinanza del diritto israeliano agli ordinamenti dell’Europa continentale di civil law. La codificazione progressiva cominciò con l’approvazione della legge sull’incapacità legale e la tutela nel 1962, ed è poi proseguita in vari contesti del diritto privato: la legge sulla rappresentanza del 1965, quella sulla vendita del 1968, quella sulla donazione sempre del 1968, la legge sui rimedi per la violazione del contratto ancora del 1968, quella sul contratto in generale del 1973, quella sul trust del 1979, e altre ancora. Come si può vedere, sono state via via già disciplinate dal legislatore israeliano alcune delle aree più significative del diritto privato, e fra esse una attenzione particolare merita indubbiamente quella del contratto in generale.

La legge sul contratto in generale del 1973 fu elaborata da una commissione presieduta da Guido Tedeschi, facendo sì che esso si rendesse autonomo tanto dalla Mejelle ottomana, quanto dal common law inglese. Questa legge è caratterizzata soprattutto dal ruolo significativo che essa assegna al principio della buona fede, come già in parte aveva fatto la legge sulla vendita del 1968. Fu proprio questa introduzione del principio della buona fede nel diritto israeliano delle obbligazioni e dei contratti a costituire una rivoluzione, perché essa ha inevitabilmente segnato l’inizio di un allontanamento dagli schemi del common law anglo-sassone, il quale si è mantenuto conforme a quel caveat emptor che aveva caratterizzato il diritto romano. L’adozione del principio generale della buona fede nel contratto in generale determina appunto un capovolgimento di quella logica.

Deve essere particolarmente ricordato l’art. 12 della legge sul contratto in generale, il quale disciplina la buona fede nella fase delle trattative e della formazione del contratto. Nella formulazione della regola generale, tale disposizione di legge ricorda piuttosto da vicino l’art. 1337 del codice civile italiano, ed è peraltro da ricordare che quest’ultimo costituiva un modello legislativo all’epoca quasi unico.

Ad Alfredo Mordechai Rabello si deve un contributo fondamentale allo studio della responsabilità precontrattuale nel diritto israeliano. Infatti, tale studioso ha contribuito a chiarire in via definitiva che la buona fede che deve essere presa in considerazione non è quella soggettiva, ma quella oggettiva della lealtà e della correttezza.

Ma la grande intuizione di Guido Tedeschi fu anche quella di comprendere che la nuova legge sul contratto in generale correva il rischio di restare lettera morta, perché la dottrina di lingua ebraica o araba e anche quella di lingua inglese utilizzata fino a quel momento erano di scarso aiuto. Sotto la sua direzione fu preparato in breve tempo un commentario in ebraico delle leggi contrattuali, il quale di fatto consentì ai giudici e agli avvocati di usare finalmente il nuovo testo legislativo.[15]

29/8/2023

Giuseppe Chiantera

 

NOTE

[1] Per una ricostruzione esauriente del tema si veda F. Castro, voce Diritto musulmano e dei paesi musulmani, in Enc. Giur., vol. XI, Roma, 1989.

 

[2] Cfr. G. Vercellin, Istituzioni del mondo musulmano, Torino, 1996, p. 304.

 

[3] F. Lucrezi, Ebrei a Napoli, in Ebraismo e Novecento, pag. 21ss.

 

[4] Haśkalah indica il movimento culturale, soprattutto letterario ma anche politico-sociale, sorto nel 18° sec. in seno alle comunità ebraiche della Germania. Il movimento promosse un rinnovamento dei contenuti culturali del giudaismo e l’emancipazione politica e sociale degli Ebrei. Il movimento si estese poi nella Galizia polacca (1820-60) e infine in Russia (1840-81).

 

[5] A.M. Rabello, Introduzione al diritto ebraico. Fonti, matrimonio e divorzio, bioética, Torino 2002, 3ss.

[6] F. Lucrezi, Sul valore giuridico della Dichiarazione d’Indipendenza di Israele, in Teoria del Diritto e dello Stato 3 (2003) 525ss.

 

[7] Massimo Papa, L’influenza del modello italiano in Libano, Afghanistan e Libia, in Cultura giuridica e rapporti civili – IL MODELLO GIURIDICO- SCIENTIFICO E LEGISLATIVO – ITALIANO FUORI DELL’EUROPA – Atti del II Congresso Nazionale della SIRD Siena, 20-21-22 settembre 2012.

[8] Sul punto si veda il saggio di F. Castro, La codificazione del diritto privato negli Stati arabi contemporanei. Appunti sulla circolazione dei modelli normativi, in Riv. dir. civ., I (1985), pp. 377-447.

 

[9] V. Gianturco, Relazione sul progetto del codice penale libico e note esplica- tive del codice di procedura penale per la Libia, Tripoli, 1954.

 

[10] Pietro Sirena – Yehuda Adar Il modello giuridico – scientifico e legislativo – in Israele, in Cultura giuridica e rapporti civili – IL MODELLO GIURIDICO- SCIENTIFICO E LEGISLATIVO – ITALIANO FUORI DELL’EUROPA – Atti del II Congresso Nazionale della SIRD Siena, 20-21-22 settembre 2012

 

[11]  A tale proposito, v. i saggi raccolti in European Legal Traditions and Israel, a cura di Rabello, Jerusalem, 1994, e particolarmente quello di A. Barak, The Tradition and Culture of the Israeli Legal System, ivi, p. 473 ss. V. inoltre U. Yadin, Sources and Tendences of Israel Law, in Univ. Penn. L. Rev., vol. 99, 1951, p. 561 ss.; A.M. Rabello, Sebba, Israeli Reports to the XIV International Congress of Comparative Law, Jerusalem, 1994, p. 1 ss. In italiano, v. A.M. Rabello, voce «Israele», in Dig. discipl. priv., Sez. civ., Aggiornamento,  Torino, 2011, p. 531 ss.

 

[12] L’applicabilità della Mejelle è stata formalmente soppressa dal legislatore israeliano solo nel 1984.

 

[13] Con l’espressione di italkim si ricomprendono gli ebrei nati in Italia ed emigrati in Israele, ma anche quelli nati in Israele da genitori italiani.

 

[14] A.M. Rabello, Il contributo dei giuristi italkim alla vita giuridica dello Stato di Israele, in corso di pubblicazione sulla Rassegna mensile di Israel.

 

[15] Il commentario è oggi diretto da Rabello, Shalev e Zamir ed è pubblicato dal- l’Istituto per le ricerche di legislazione e di diritto comparato intitolato a Harry e Michael Sacher.

 

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