10 Ottobre 2024
Attualità

L’abusivismo immigratorio e le illusioni del multiculturalismo – Claudio Antonelli

Montreal (Canada)

 

Immaginiamo i problemi che sorgeranno in Italia nel campo della coesione sociale – in quello dell’ordine pubblico essi sono già evidenti – in seguito a questa immissione incontrollata, caotica di “nuovi italiani” in un Paese che ha avuto in Africa una fase colonialista molto limitata, breve e anche tardiva, e che non ha quindi gravi responsabilità morali, a questo riguardo, nei confronti d’intere aree del Terzo Mondo.

Dico queste cose esitante e a malincuore, conscio di rischiare i fulmini dei buonisti così amanti del “Diverso” straniero, ma pieni di astio e talvolta anche di odio per il diverso nostrano.

In Canada, il rispetto delle regole apporta alla società multietnica un vincolo, un sigillo unificante. Il cittadino canadese, qualunque sia la sua origine, si trova inquadrato in una cornice rigorosa e severa di diritti-doveri. Per molti versi in Italia, invece, il rispetto delle regole è di là da venire. E non saranno di certo i nuovi arrivati, tra cui numerosi sono i clandestini, ad insegnare il senso civico e le virtù della coesione sociale a un popolo che da sempre coltiva campanilismo, spirito di parte e odi civili.

Prendiamo Napoli, città sovrappopolata, fervida di mille attività economiche anche precarie e illegali che vanno dalla contraffazione allo spaccio e dallo scippo ad ogni altro genere di micro e macro criminalità. Ebbene, Napoli di tutto aveva bisogno, incluso un certo numero di badanti e di raccoglitori stagionali di pomodori, come anche di qualcuno disposto a rimboccarsi le maniche e a lavorare senza battere fiacca e senza voler incrociare le braccia ad ogni piè sospinto per ragioni sindacali: la specialità italiana. Ma non aveva bisogno di questa marea di nuovi partecipanti al suo abusivismo quotidiano.

Nell’ex perla del Mediterraneo, nei ranghi dei mendicanti, dei lavavetri e dei borseggiatori gli elementi stranieri e clandestini sono molto numerosi. Per non parlare delle migliaia di venditori ambulanti di occhiali, di borsette, di orologi e di articoli taroccati di ogni sorta.

So di toccare un tema sul quale in Italia sia il governo sia la popolazione amano tenere un discorso fatalistico, universalistico, e buonista di ispirazione vaticanista o invece marxista. L’Italia è un esempio evidente che la fisionomia di una nazione può rapidamente alterarsi. E su questa nuova Italia, che già si sta delineando, nessuna analisi seria, nessuna statistica è permessa, nessuno sguardo critico è tollerato, senza che immediatamente scatti l’accusa di “razzismo” sull’indagatore.

Che sia ben chiaro: il mio sguardo dubbioso, critico e allarmato è rivolto non agli immigrati volenterosi e ben integrati, cui va il mio profondo rispetto (sono addirittura favorevole allo ius soli in un quadro però di legalità immigratoria), ma a questa massa di mendicanti, venditori ambulanti di patacche e di sfaccendati spesso aggressivi che dopo una notte, passata non si sa dove, affollano strade e marciapiedi dove bighellonano o svolgono attività apertamente illegali. Questa è la triste realtà di Napoli. E ciò senza che nessuna autorità intervenga. E senza che della cosa si parli, fatta eccezione per quelli della Lega. Ma anche i Leghisti, in fondo, parlano per parlare, tanto che gli immediati dintorni della stazione ferroviaria di Mestre sono un ricettacolo di alcolizzati, spacciatori, borseggiatori, ladri e delinquenti.

Spicca poi tra questi –a Mestre, a Trieste, e nel resto di quell’ampia area – la forte presenza di individui provenienti dall’ex Jugoslavia. Nota particolarmente dolente per noi, nati nelle terre italiane del Nord-Est ma costretti a fuggir via dallo sperimentale laboratorio jugoslavo costruito anche sui nostri infoibati; laboratorio infine dissoltosi – dopo il crollo del Muro “antifascista” di Berlino – tra le lacrime e il sangue.

Nonostante questa realtà che salta agli occhi di tutti, si preferisce farsi cullare dalle illusioni del multiculturalismo.

Invece di proporre agli immigrati l’identità storica del Paese d’insediamento, come fattore coesivo e unitario per tutti, oggi i benpensanti propongono il multiculturalismo come formula nazionale capace di arricchire l’identità di tutti i cittadini: autoctoni e nuovi arrivati. Taluni arrivano ad auspicare persino una pluralità d’identità nazionali nei Paesi europei su cui si rovesciano ondate di migranti dal Terzo Mondo. Ma il Paese, la Nazione non è un supermercato che debba adattarsi ai gusti e ai bisogni dei clienti del giorno. Sono invece i nuovi clienti della Nazione che dovrebbero adattarsi a questa. Ciò che non sempre avviene.

L’adattamento, è vero, non è sempre facile quando si arriva in un nuovo Paese. Tra certe abitudini e certe regole di vita c’è inconciliabilità. E difatti talune abitudini portate dagli immigrati nei loro bagagli si scontrano subito con le regole del Paese d’arrivo. Un solo esempio: gli italiani non appena s’installano in Canada devono imparare la maniera di aspettare disciplinatamente in fila, vale a dire devono imparare a rispettare la maniera canadese di far la coda; che è poi la maniera in vigore nella stragrande maggioranza dei Paesi del mondo. E dovranno anche imparare ad abbassare la voce, perché qui in Canada i toni di voce sono molto più bassi.

Il radicalismo religioso di certe culture trapiantate non ammette grandi adattamenti. Esso a lungo andare è pertanto una minaccia per la coesione e per l’unità della società d’accoglimento. Questo fenomeno è già attuale in certi Paesi europei, ma non in Canada, non ancora. L’urto avviene solo quando il numero degli appartenenti a certi gruppi etnoreligiosi supera una data soglia; limite oggigiorno non ancora raggiunto, ma che in certi Paesi d’immigrazione non dovrebbe tardare a essere raggiunto e superato a causa dello squilibrio tra la forte denatalità dei nativi rispetto all’indice di natalità, più elevato, dei nuovi arrivati.

Gli articoli di fede di certe religioni ispirano opposizione e persino disprezzo e odio verso i seguaci di altre religioni. Tanto per parlare chiaro, gli Sciiti non amano i Sunniti, e l’Islam stesso non concede sconti e compromessi ai suoi “sudditi/fedeli” nel loro ruolo permanente di propagatori e combattenti della fede, che quest’ultimi vivano alla Mecca o che vivano altrove.

Alle donne un certo Islam ortodosso impone una sorta di maschera facciale, perché i tratti femminili del viso, nelle terre fedeli al profeta, sono considerati ad alta gradazione erotica. Il femminismo non è certo di moda nei Paesi islamici. Scrisse Luigi Barzini senior:

Maometto disarmò la donna velando la sua bellezza: le impedì di fare tanto male, ma anche di fare tanto bene. La segregazione che trasformò la donna in una proprietà invisibile, in una cosa umile e vile che ha un padrone, ha sottratto gli uomini a una gentile e soave influenza, li ha privati di ogni raffinatezza di sentire, ha tolto loro il palpito della compassione, la dolcezza del perdono, lo slancio della generosità, il senso di una bontà serena, tutti quei sentimenti che la donna insegna senza insegnare vivendo nella stessa vita dell’uomo, essa che è sempre pronta a chiedere grazia per chi soffre. (…) La civiltà araba è stata una civiltà dei sensi e della mente, ma il cuore non v’è entrato e non vi ha portato l’idea fondamentale di una giustizia, l’idea che nasce soltanto dalla pietà. E con la donna nascosta manca l’amore che fonde le genti e le razze, che fa un solo popolo degli abitanti di una stessa regione, che allarga I vincoli di sangue (…). Questo popolo, diviso, s’è odiato, si è dilaniato, si è demolito, perché non aveva imparato ad amare. Le genti dell’Islam pagano aspramente col loro sangue e la loro pace la soppressione della donna.”

Per il suo carattere transnazionale, l’Islam è in accordo con un modello di Nazione che anche esiste presso la diaspora ebraica, piuttosto che con la concezione nazionale, strettamente territoriale, di Mazzini o di Cavour. Tra gli immigrati islamici trapiantati in Europa non sono mancati, del resto, coloro che hanno risposto all’appello alle armi lanciato dallo Stato Islamico.

Vi sono quartieri cittadini a Montréal in cui i seguaci di un’altra religione, nemica dell’Islam, e che per elementare prudenza non nomino, vivono rinchiusi e direi quasi murati nella propria fede, che esige ch’essi indossino una sorta di uniforme nera con frange particolari ed altri ritrovati d’abbigliamento per potersi riconoscere tra loro, ed essere identificati prontamente dagli altri concittadini come facenti parte di una comunità distinta che non segue le norme di comportamento generali, e che desidera vivere in disparte rispetto al resto della società. Persino sulla porta di casa essi affiggono un segno distintivo, affinché nessuno li confonda con il resto della popolazione. Ogni confusione tra i membri della propria tribù – i puri – e gli altri – impuri– è per loro anatema. Questi fedeli osservanti di un catechismo assai speciale evitano, per strada, di rivolgere persino uno sguardo a coloro che visibilmente non appartengono alla loro stessa cerchia di eletti. E ai bambini dei seguaci di questa fede, incentrata sull’esclusione quasi totale dell’Altro, è fatta proibizione dai genitori di interagire e di rivolgere persino la parola ai figli dei vicini di casa quando quest’ultimi non possiedono il pedigree di popolo beniamino di Dio, toccato invece in dono a loro. Ecco anche perché essi tendono a concentrarsi in ghetti, per non avere contatti con gli altri. Se mi permetto di parlare di ciò è perché io conosco dal vivo queste situazioni, percorrendo io spesso strade e quartieri di Montréal dove gli appartenenti a questa comunità, che fa del rifiuto del “diverso” un articolo di fede, sono presenti in gran numero.

Le minoranze sono in uno stato di inferiorità rispetto alla maggioranza. E quindi le divisioni religiose, tribali e settarie della nostra società sono accettabili e controllabili fino a che queste non superano un certo limite; che è delicato e direi pericoloso cercare di stabilire a priori, perché il passato pesa come un macigno su noi occidentali giudicati gli eredi morali di certi eccessi del passato la cui bruciante memoria invece di stemperarsi si riacutizza in un crescendo alla Ravel. E quindi noi, discendenti degli antichi “carnefici”, non possiamo esprimere giudizi sui discendenti delle nostre eterne “vittime”.

Le politiche multiculturali incoraggiano i nuovi arrivati a conservare l’identità originaria e a trasmettere ai figli il passato storico del Paese di partenza. Nel Paese multiculturale i vari gruppi etnici coltivano con amore il proprio passato. Sicché coesistono entro gli stessi confini tanti passati, ossia tante solitudini. Il fatto però è che la patria adottiva può avere un solo passato “ufficiale”, dal momento che lo Stato, la Nazione si reggono sulla continuità storica. A meno che con il multiculturalismo non si voglia attuare una sorta di coacervo tribale, dove il Paese fungerebbe da contenitore delle varie etnie e “tribù”. Ma questo sarebbe un ritornare alla notte dei tempi. Per noi italici sarebbe come tornare all’epoca dei romani, sabini, etruschi, frentani, umbri, marsi, lucani, sanniti, bruzi, mamertini…

Numerosi sono gli italiani “in dissidio” con la propria identità nazionale e che si vantano di essere “cittadini del mondo”, anche se in realtà sono spesso pieni delle fisime tipiche di molti abitanti della Penisola: confondono il parlare col fare, sono campanilisti e faziosi, sono imbevuti di protagonismo, discutono dalla mattina alla sera di calcio, danno grandissima importanza alla mangiata… Del resto, questo stesso loro rinnegare l’identità italiana è, secondo me, un’affermazione patente d’italianità. Infatti la storia ha abituato gli abitanti della penisola a vivere sotto dominazioni straniere e ad onorare le bandiere altrui. Non è un caso che lo stesso termine “onore” abbia in gran parte della penisola una connotazione soprattutto sessuale o criminale. Mentre l'”interesse nazionale” è una nozione che l’italiano medio, pur sensibilissimo al proprio interesse personale, rigetta con forza in nome delle intenzioni francescane di cui egli abbonda, a parole.

Molti di questi italiani “figli dell’universo” sono dei gran sostenitori, appunto, del multiculturalismo, la nuova formula magica basata sul buonismo alla quale pochi osano rivolgere uno sguardo critico. Io invece trovo puerile e ridicola, in italiani ossessionati dallo spaghetto al dente e gesticolanti all’estremo, questa dichiarazione di universalismo, ossia di coesistenza nella stessa persona di una pluralità d’identità e di culture. Occorre poi mettere in chiaro che in un Paese d’immigrazione di tipo multiculturale non esistono esempi “puri” di culture nazionali, al di fuori beninteso del modello dominante che è quello storico del Paese d’accoglimento. Lontani dalle culture nazionali d’origine, lontani dalla Patria e dal suo humus, i gruppi trapiantati finiscono col perdere la loro intensità identitaria di partenza ossia la ricchezza della cultura originaria.

Le culture trapiantate tendono ad assumere forme spesso degradate e persino caricaturali (o se vogliamo folcloristiche) della cultura originaria importata nella nuova terra dagli immigrati (vedi le patetiche Little Italy sparse nel Nord America). Su questo aspetto della perdita di validità di una cultura quando essa è trapiantata all’estero non mi pare sia stato scritto molto (ne scrisse però Prezzolini nel suo: “I trapiantati”). Eppure, alla base della celebrazione del multiculturalismo vi è l’assioma che tutte le culture sono uguali. Sì, forse quando rimangono a casa propria, e neppure allora… Ma il viaggio oltreconfine e specie il viaggio oltreoceano le intaccano profondamente. Basti vedere le rotondità di tanti italo-americani per capire che la commistione delle due cucine, l’italiana e l’americana, ha comportato un prezzo per la forma fisica e la salute dei nostri connazionali.

I vari gruppi etnici del Canada, ad esempio, proprio perché gruppi trapiantati esprimono ciò che è lecito chiamare delle subculture. Non sono le Chinatown del mondo, ma è la Cina a far riverberare la luce della sua cultura millenaria sui cinesi espatriati. Similmente è l’Italia e non le varie “Little Italy” ad esprimere l’incomparabile arte del vivere per la quale gli italiani vanno famosi. Le “Little Italy”, infatti, non sono che un’ombra del modello di vita esistente nella penisola. Il multiculturalismo quindi non è un inventario fedele di culture, ma un campionario approssimativo di esse.

Nel Paese in cui vige la politica del multiculturalismo, le culture trapiantate non sono un superamento della nazione che ha dato loro origine, ma una forma – se mi è permessa l’espressione – di parassitismo nazionale. Il multiculturalismo, infatti, si nutre di “nazione” ma da lontano.

Le culture, le lingue, le cucine nazionali sono difficili da trasportare all’estero. Il passato storico non si trapianta. Nei Paesi dove vige il multiculturalismo – vedi il Canada – l’immigrato, benché fedele al suo ceppo, non si alimenta all’humus della patria d’origine viva e in evoluzione, ma a una cultura piuttosto sclerotica fatta soprattutto di memorie. Inoltre, l’ibridismo, conseguenza del multiculturalismo, porta inevitabilmente all’appiattimento e all’omologazione delle singole culture. Quando si mescolano diversi colori si ha per risultato di ottenere una nuova tinta e non certo di ravvivare ed arricchire i colori d’origine di tale cultura.

La pluralità di culture non è un fattore di arricchimento delle singole culture, anche a causa di certe incompatibilità di fondo: il cattolico non diventerà un miglior cattolico cercando di essere anche un po’ musulmano. Un altro esempio: la cucina di partenza non migliora espatriando ma quasi sempre peggiora. Il piatto italoamericano della pasta con “meat balls” non è un miglioramento rispetto alla pasta alla bolognese. La cultura storica dominante del Paese d’accoglimento potrà invece trarre dei benefici. Che si pensi ad esempio a ciò che gli italiani hanno apportato in Québec e in Canada nel campo delle abitudini alimentari. I benefici nel campo culinario, invece, non sono reciproci come attesta l’indice di obesità, più elevato tra gli italiani trapiantati in Canada o negli USA rispetto ai connazionali rimasti in patria.

Il risultato dell’espatrio, per ogni cultura, è una contrazione. A meno che gli emigrati non fondino un nuovo Paese che dia origine ad una cultura trapiantata vitale; in definitiva ad una nuova cultura (vedi gli USA). Ma l’epoca delle scoperte di nuove terre e dei colonialismi è terminata da un pezzo. Il decadimento della cultura di partenza è tanto più accentuato quando più la nuova patria è distante geograficamente dall’antica. La prossimità fisica dei due mondi – vedi i Paesi con una frontiera comune – riesce invece a far scacco in parte a questo decadimento. In altre parole, la deformazione, l’impoverimento, la sclerosi sono lo scotto pagato dalle culture locali allo sradicamento. Inoltre, chi emigra da un Paese del Terzo Mondo in un Paese avanzato vuole – o dovrebbe volere – che i figli si considerino, e siano considerati dagli altri, cittadini di pieno diritto della nuova patria. I fanatismi religiosi di certi gruppi immigrati sono invece un serio ostacolo all’integrazione. Che si pensi alla poligamia o anche al trattamento che i Paesi musulmani riservano agli omosessuali, che noi invece in Europa coccoliamo e sui quali non è permesso dire ormai nulla che non sia di totale lode. Altrimenti si rischia d’incorrere nell’accusa di omofobia.

Nel Paese multiculturale le culture degli immigrati non sono poste tutte sullo stesso piano. Fra loro esistono delle gerarchie implicite, dipendenti da vari fattori. Inoltre, tutte vivono all’ombra della cultura dominante. La nuova patria, infatti, fornisce un modello di vita dal forte potere attrattivo. Il passato del Paese multiculturale d’arrivo ha un peso schiacciante rispetto alle memorie storiche importate dal Paese d’origine dei vari immigrati; soprattutto quando l’emigrante si stabilisce oltreoceano. In Francia e in altri Paesi europei si sta delineando invece – vedi le minoranze musulmane – un fenomeno di rifiuto anche aggressivo della cultura d’arrivo.

Il favore che incontra il multiculturalismo di Stato come nuovo progetto di società è anche alimentato dall’idea, illusoria, che l’individuo possa eliminare le pastoie di un’identità “fissa” scegliendo per sé l’identità cultural–nazionale che più gli aggrada, non diversamente da come sceglie un ristorante o un vestito. In realtà la coesistenza, entro i confini di un Paese, di gruppi di trapiantati di diversa origine non crea individui “multiculturali”. Ognuno di noi è stato plasmato dal luogo di nascita, e in seguito emigrando subisce i necessari mutamenti che nella patria adottiva lo mettono in sintonia con la cultura dominante. Vivendo a fianco di gente di un’origine diversa dalla nostra ci si può riuscire ad aprire all’altro, ad imparare una nuova lingua, ad apprezzare abitudini di vita diverse dalle nostre e così via… Ma permarranno in ognuno di noi sotto traccia i tratti della cultura nazionale dominante che ci ha formati da giovani in famiglia. L’identità culturale di un individuo insomma non è schizofrenica, anche se essa può conoscere un‘evoluzione nel tempo, in conseguenza dei Paesi in cui l’espatriato si trova a vivere. Se è vero che emigrando si accede a un nuovo mondo e in una certa misura si “aggiunge” una nuova cultura all’antica, il trapianto comporta delle perdite notevoli. Che si pensi, ad esempio, alla lingua italiana parlata da noi “italiani all’estero”.

Il trapianto oltreconfine di una cultura, se da un lato provoca un decadimento e un ibridismo, dall’altro paradossalmente crea un indurimento e una sclerosi dell’identità di partenza di taluni immigrati, esasperando certi aspetti culturali e comportamentali della loro cultura originaria. Il che avviene soprattutto in gente che ha emigrato in età non più giovanile. In taluni casi ciò può tradursi addirittura nel rifiuto dei valori della società nella quale l’espatriato ha scelto di andare a vivere. Questa reazione è dovuta in parte ad un sentimento di inadeguatezza. Ma a farla nascere è soprattutto un’inconciliabilità di passati: il passato della nazione da cui l’immigrato proviene diverge dal passato della nazione nella quale egli si trova a vivere.

Il fenomeno del rifiuto di aderire alla cultura e ai valori della società di accoglimento è una realtà che riguarda talvolta anche i figli nati nella nuova terra. Che si pensi a certe banlieues francesi, dove la polizia non è ammessa e dove vigono le regole di una subcultura fautrice spesso di comportamenti devianti. Ciò è da imputare, appunto, al culto del multiculturalismo vigente in certi Paesi d’immigrazione. Per i promotori del multiculturalismo, infatti, l’integrazione-assimilazione è un’idea tabù.

Un indubbio risultato positivo per l’individuo che viva a contatto di gente dalla cultura e dalle abitudini diverse dalla sua è un allargamento della propria coscienza con l’accettazione della diversità. La tolleranza e l’apertura all’altro, insomma. Ciò non impedisce, però, alla maggioranza di continuare a nutrire pregiudizi o addirittura avversione nei confronti di certe minoranze: vedi la scarsa considerazione che godono, in Canada, gli autoctoni (ex maggioranza divenuta minoranza), e vedi anche i pregiudizi e i luoghi comuni che persistono nei confronti di noi italiani immigrati, frequente bersaglio di “pizza” e “mafia”.

La mescolanza di gruppi disparati non è quindi la nuova formula magica per l’armonia e la felicità di un Paese, come molti sembrano credere. Io ritengo poi che in un Paese d’immigrazione, quando i nuovi arrivati provengono da Paesi lontani, com’è il caso per il Canada (ma non per gli Stati Uniti nei riguardi dei messicani, dei cubani e di altri gruppi ispanici, i quali continuano ad alimentarsi alla cultura ispanica data la vicinanza dei loro Paesi d’origine), il multiculturalismo è una fase, lunga sì, ma da considerarsi provvisoria. Non dovrebbe essere quindi considerata un traguardo definitivo.

L’esempio datoci dagli ebrei della diaspora, che nei secoli e nei millenni sono vissuti e hanno prosperato “all’estero” (estero rispetto ad Israele, loro patria mitica divenuta solo di recente stato nazionale), incoraggia i trapiantati di diversa origine a cercar di far valere una propria identità imperitura, distinta da quella del Paese in cui si trovano e in cui sono nati i loro figli. Tra gli immigrati italiani del Canada, io ho udito tante volte la frase: “Anche noi dobbiamo fare come gli ebrei…” Il che significa “anche noi dobbiamo restare nei secoli italiani e aiutarci gli uni con gli altri”. E come gli italiani emigrati, altri gruppi di trapiantati guardano agli ebrei come ad un modello di non assimilazione, di coesione etnica, di forza, di continuità. Il multiculturalismo, del resto, s’ispira idealmente al modello ebraico, ossia a un popolo che è restato nei secoli e nei millenni sé stesso nonostante le tante patrie da cui è stato accolto e in cui ha vissuto.

Il fatto è che la nostra identità di trapiantati è profondamente dissimile da quella degli ebrei. Noi non abbiamo un Dio nazionale italiano, sorta di Garibaldi divino. Il nostro Dio è il Dio di tutti che non accorda privilegi particolari al popolo dello Stivale. Al centro della nostra religione, delle nostre preghiere, c’è l’umanità intera, e non la storia messianica dell’Italia e del suo popolo. In sostanza, per gli italiani e così per gli altri gruppi di trapiantati, l’identità nazionale non deriva dalla religione, fattore potente di coesione quando essa è di tipo nazionale esclusivo, come lo è per gli ebrei. Noi non possiamo contare su un’identità transnazionale capace di creare tra noi e tra i nostri discendenti il senso di un comune destino ovunque noi viviamo. La terra, la terra di nascita, ha per noi e per i nostri figli un valore cruciale. Noi non siamo stati preparati né dalla nostra storia, né dai dogmi religiosi, né dai miti, a vivere secondo una formula di tipo tribale in cui è la religione – basata su una stretta discendenza etnica, sul sangue insomma – a sancire l’identità nazionale. Il nostro patriottismo è territoriale, ossia legato al suolo di nascita. Se tra gli italici fosse invalso il tribalismo, nella penisola si sarebbe rimasti all’epoca dei conflitti tra romani, sabini, etruschi, frentani, umbri, marsi, lucani, sanniti, mamertini, enotri, siculi, liguri…

L’amore degli ebrei per Gerusalemme ed Israele – luoghi sacri, ideali, mitici, virtuali, molto più che luoghi fisici, geografici – ha fatto di loro un popolo senza terra, avendo essi perso, al momento del mitico esodo continuamente commemorato e pianto, Gerusalemme ed Israele. Questa perdita avvenuta una volta per sempre li ha messi però al riparo dal tremendo destino che l’amore rivolto alla terra in cui si è nati, al Paese, alla patria può comportare per certuni. Io ho visto la maniera in cui i miei genitori hanno vissuto i tragici avvenimenti della seconda guerra mondiale con la perdita della loro terra natale. Essi, avendo fatto proprio il destino della patria, hanno subito la sconfitta dell’Italia nella propria vita intima, nella propria anima. Con la perdita dell’Istria, essi persero irrimediabilmente una parte di sé stessi. Se i miei genitori, invece di amare in quella maniera totale il luogo che li aveva visti nascere, avessero rivolto amore, dedizione, lealtà e fedeltà a una mitica patria lontana – una loro Gerusalemme, perduta un paio di migliaia di anni prima – abbandonando la terra natia essi non vi avrebbero lasciato, seppellito lì per sempre – come avvenne – il proprio cuore. E non avrebbero trasmesso al loro figlio un insopprimibile senso di fedeltà alla terra di nascita.

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7 Comments

  • Gianni 24 Agosto 2022

    A mio parere esiste un rapporto di sudditanza psicologica anche tra quelli che sono contrari a questa invasione.Dove sta scritto che uno abbia diritto a scegliersi la nazionalità come al supermercato?Dove sta scritto che una nazione sovrappopolata di 60 milioni di abitanti ne debba avere 69 per produrre più di quello che permettono le sue risorse umane?Dove sta scritto che dobbiamo accollarci una marea di gente straniera con i problemi che seguono,invece di promuovere sovranamente degli sbarramenti legittimi?Chi ha stabilito che i costosissimi figli degli stranieri debbano diventare italiani,visto che l’Italia ha già il suo popolo e loro una patria?

    • tizio.8020 24 Agosto 2022

      Giuste considerazioni, ma il problema di fondo è un’altro.
      Noi abbiamo più o meno la stessa popolazione da decenni; stiamo invecchiando, ma non per scelta nostra.
      Gli Africani erano 820 milioni nel 2000, nel 2018 erano già 1,28 miliardi!
      Un incremento del 56%.
      SE pure fossimo pazzi, e ne accogliessimo 120 milioni (impossibile, ma ipotizziamo di poterlo fare)…otterremo solo ed esclusivamente di suicidarci.
      Cosa succederebbe infatti in ventanni?
      Noi praticamente spariremmo…impossibile mantenere una popolazione così elevata.
      Loro , nemmeno se ne accorgerebbero.
      Sarebbero già divenetati circa 180 milioni qui, ed oltre 2 miliardi là!
      No grazie.
      La cosa peggiore poi è che lo Stato Italiano spende per mantenere questa gente tutto il denaro che viene negato a noi.
      Vengono loro forniti alloggio, vitto, cure mediche tutto gratis.
      Io ho cresciuto 6 figli senza mai prendere un euro, perchè essendo P.IVA “non ho diritto a nulla”.
      Loro, appena vengono assunti, hanno diritto a TUTTO, compresi quelli che una volta erano “assegni familiari”, e dora sono “assegno unico”, per TUTTI i parenti che possono far segnare sullo Stato di famiglia, “anche se residenti all’estero”.
      Praticamente prendono più soldi loro per i parenti rimasti là, di quanto prendi tu di stipendio per mantenere quelli che hai qui!!!
      Le discriminazioni ci sono in Italia..ma contro di noi!

      https://stranieriinitalia.it/normativa-immigrazione/assegni-familiari-chi-ne-ha-diritto-possibile-richiederlo-anche-per-i-familiari-allestero/

      • Salvatore di Talia 11 Settembre 2022

        Sono completamente d’accordo con “TIZIO.8020”

        (Tizio che, tra l’altro, mi sembra di ricordare da certi suoi sagaci Commenti ad alcuni miei Scritti su “Come Don Chisciotte”. CIAO, TIZIO!).

        Non solo sono d’accordo, ma nel mio recente “SOSTITUZIONE ETNICA”, 1° episodio della serie: “Una Paura alla Settimana” per conto di “EreticaMente”, metto sul tavolo dei numeri ancor più…SPAVENTEVOLI riguardo all’Invasione dell’Africa (a proposito di…’PAURA’!) rispetto a quelli –peraltro sen-sa-tis-si-mi– prospettati dallo stesso amico Tizio.

        lèggere per credere:
        https://www.ereticamente.net/2022/08/u-n-a-p-a-u-r-a-a-l-l-a-s-e-t-t-i-m-a-n-a-d-i-salvatore-di-talia.html

        Al bravo autore del Saggio, Claudio Antonelli da Montreal, dico invece che –pur, in linea di massima, concordando con lui sulle linee generali– LO “IUS SOLI” È UN VERO ABOMINIO ALLA STATUNITENSE e, in quanto tale, va evitato come la peste nella nostra bella Penisola Italica, “Perla del Mediterraneo”. Inoltre, detto molto in sintesi, diversamente da lui SONO CONTRARIO AL CONCETTO STESSO DI…’INTEGRAZIONE’, che ritengo infatti di estrema pericolosità poiché scontatamente soggetto alle peggiori (e più…tra-gi-che) STRUMENTALIZZAZIONI ‘BUONISTE’.

        S.d.T.

  • Claudio Antonelli 28 Agosto 2022

    Scrive Gianni: “A mio parere esiste un rapporto di sudditanza psicologica anche tra quelli che sono contrari a questa invasione…”
    Proprio cosi’: si aderisce alle verità del momento storico in cui si vive, senza accorgersi di storture ed eccessi…
    Ieri gli occidentali fremevano di passione per il colonialismo che, infatti, investì i quattro angoli del pianeta. Oggi molti di loro fremono appassionatamente, in virtu’ della religione dei diritti umani, per il colonialismo all’incontrario, ossia per un immigrazionismo senza limiti in cui il penetratore sceglie il paese da penetrare, e il penetrato gode.
    I popoli restii a questa penetrazione senza regole, vedi gli ungheresi, sono additati al pubblico ludibrio nelle sedi internazionali.
    Oggi la parola d’ordine dei benpensanti è “globalizzare”, ancora meglio: farsi globalizzare.
    La Nazione è la grande nemica di questo Mondialismo, oggi tanto in auge. Nelle liste di prescrizione stilate dai benpensanti contro i “populisti”, troviamo individui, movimenti, partiti, e anche interi popoli. Il popolo ungherese, ad esempio, è definito “populista” e “razzista” nella sua interezza.
    Matteo Renzi, da parte sua, chiamo’ “bestie”, distinguendoli dagli umani, quegli italiani che non condividono la sua passione per la solidarietà planetaria e che non sono quindi avari di critiche sull’abbattimento delle frontiere ai “disperati”, la regola oggi. Unico test provante la “disperazione” dei migranti è che giungano in Italia su barconi di fortuna. Anzi che si allontanino solo un po’ dalle coste africane, perché sono poi le navi dei colonizzati a prelevarli e a portarli in Italia. La navigazione anche solo iniziata dà loro il diritto di essere accettati senza domande o senza che abbiano l’obbligo di rispondere alle domande miranti a sapere chi siano e da dove vengano.

  • roberto 8 Settembre 2022

    Canadesi, Australiani, Ungheresi…. Strana gente, che preserva la propria società e modo di vivere (vogliamo chiamarla Civiltà?) da questa orda di disperati, sradicati e, alla lunga, infoiati ed incazzati, perché li si vorrebbe un minimo acculturare e far lavorare… Forse ormai è tardi: siamo troppo petalosi, troppo tolleranti (verso gli immigrati e intolleranti verso chi non ci sta!) troppo effeminati e corrotti… Ci estingueremo belando bella ciao!

  • roberto 8 Settembre 2022

    Dimenticavo… Integrazione : dovrebbe essere quello “sforzo” di adeguamento che, qualunque ospite, dovrebbe attuare, in segno di rispetto e gratitudine verso chi gli dà una opportunità… Non il contrario! Ma loro, nella maggioranza, non ci pensano nemmeno! Chi si adegua lo fa obtorto collo e con rancore, che si amplifica di generazione in generazione.

  • Salvatore di Talia 11 Settembre 2022

    Senz’altro…BRAVO l’autore del Saggio, Claudio Antonelli da Montreal…

    Tuttavia –pur, in linea di massima, concordando con lui sulle linee generali– tengo a far presente che LO “IUS SOLI” È UN VERO ABOMINIO ALLA STATUNITENSE e, in quanto tale, va evitato come la peste nella nostra bella Penisola Italica.

    Inoltre, detto molto in sintesi, diversamente dal Signor Antonelli SONO CONTRARIO AL CONCETTO STESSO DI…’INTEGRAZIONE’, che ritengo infatti di estrema pericolosità poiché scontatamente soggetto alle peggiori (e più…tra-gi-che) fra le STRUMENTALIZZAZIONI ‘BUONISTE’.

    I…’Risultati Tangibili’, Caro Claudio, PARLANO CHIARO; o, come si direbbe dalle Sue parti (che, poi, sono anche le…mie), “SPEAK VOLUMES”. Basti pensare a ciò che Lei, molto efficacemente, ci narra dello ‘squallore migratorio’ di Napoli e/o delle varie Stazioni Ferroviarie dello Stivale.

    Per non dilungarmi oltre, rimando ora al seguente mio SAGGIO in due parti d’Inizio-2022 per conto di “EreticaMente”, saggio in cui –senza smanceria alcuna– faccio quel che si dice…IL PUNTO DELLA SITUAZIONE.

    TITOLI: “Ma di che razza di…’Razza’ stiamo parlando?” + “La Sostituzione Etnica d’Europa e la Saga del C-19”:

    https://www.ereticamente.net/2021/12/s-a-l-v-a-t-o-r-e-d-i-t-a-l-i-a.html + https://www.ereticamente.net/2022/01/salvatore-di-talia.html

    Grazie a Lei, Claudio, e…no: NON stia a preoccuparsi delle… ‘FURIE DEI BENPENSANTI’, mi dia retta!

    S.d.T.

    P.S.: Come credo Lei concordi, il…’Suo’ JUSTIN TRUDEAU è esponente tra i più nefasti di quella FECCIA MASSONICO-GLOBALISTA FILO-MIGRATORIA che –attraverso l’Invasione dal Terzo-Mondo– intende espressamente…DISTRUGGERE L’OCCIDENTE e le sue Popolazioni Autoctone e che…STA A NOI, CLAUDIO, COMBATTERE giorno dopo giorno. No, no: niente “IUS SOLI”, per questa volta!

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