8 Giugno 2025
Società

La ragione populista (II^ parte) – Roberto Pecchioli

La visione populista ha solide ragioni, ma è destinata alla sconfitta per assenza del soggetto, il popolo. La civilizzazione occidentale sopravvive per inerzia, ma il suo tempo è contato. La campana è suonata e la questione populista – le ragioni etiche, spirituali, civili, dei popoli di questo pezzo di mondo – non sopravvivrà al combinato disposto ( poiché si tratta di una gigantesca operazione di architettura antropologica) di immigrazione massiccia, drammatica crisi demografica, indifferenza a qualsiasi principio diverso dal materialismo, dal consumismo usa e getta, dall’individualismo . Il populismo parla in prima persona plurale ( noi) nel tempo in cui regna il soggettivismo, insieme minimo e ipertrofico. Non è per caso che uno degli argomenti della propaganda antipopulista sia di natura psicologica: la ragione populista come patologia dell’anima.

E l’ argomento preferito dai politici di sistema e dagli organi di informazione. Una critica banale creduta per carenza di pensiero critico ( un’altra vittoria del potere). Il populismo sarebbe un accrocco confuso di emozioni negative, motivato dalla paura di una globalizzazione non compresa. Mancanza di discernimento di chi, prigioniero di ansie e pregiudizi, non si accorge di vivere nel migliore dei mondi possibili. Il populismo è per gli stupidi, questo è il messaggio diffuso da comunicatori di infimo ordine. Eppure è evidente il degrado, la decadenza generale, non più percepita in quanto vi siamo immersi fino al collo. Corollario dell’argomento psicologico è la “reductio ad hitlerum”, l’apocalittica diffusione di stereotipi utili ad accusare il dissenso di ogni nefandezza. La contraddizione è accusare i populisti di cavalcare le paure, quando è il potere a governare con il panico, a fomentarlo ( guerre, pandemia, demonizzazione del dissenso) per screditare ogni pensiero alternativo alla mortifera “stabilità”.

Questa strategia di patologizzazione è fragile e funziona sempre meno. Innanzitutto perché a nessuno piace essere insultato da chi parla ex cathedra circondato da privilegi, lontano dai problemi concreti della quotidianità. Poi perché le persone, nonostante tutto, preferiscono credere ai propri occhi piuttosto che a maestrini autonominati. Se sono incollerite ed angosciate hanno ragione di esserlo. Troppo facile sentenziare dall’alto nascondendo problemi drammatici dietro psicologismi d’accatto. La gente non capisce, è impreparata, ragiona male. Ma chi ci ha diseducato, istupidito, estirpato il pensiero critico, se non gli stessi parrucconi incipriati che odiano il popolo ?

Il secondo argomento è di taglio marxista. Il populismo è un prodotto del capitalismo, una reazione difensiva. A che cosa, di grazia, se tutto va nella direzione voluta dai globalisti ? Stanca riproposizione della rancida interpretazione marxista del fascismo. Un riflesso condizionato sbagliato nel merito, anacronistico, auto assolutorio. Non riescono a intercettare le ansie popolari, quindi le demonizzano. La verità è che l’establishment mondiale è molto più a suo agio con la nuova sinistra che con il populismo. La demonizzazione sbrigativa evita altresì di entrare nel merito dell’ immigrazione di massa e dei problemi di impoverimento, disordine e identità che genera nei popoli. Rifiutano di ammettere che si tratta di questioni reali, non di un’epidemia di xenofobia, evitando l’autocritica per la complicità con le fallimentari politiche multiculturali e globalizzanti del neoliberismo. Non sorprende che i ceti popolari si rivolgano alle forze populiste, se i progressisti, trincerati nei loro bunker dogmatici, si condannano a non capire.

Un’argomentazione più sofisticata è che il populismo sia antipolitico. Sarebbe un modo per eludere le responsabilità scaricandole sui ceti dirigenti, capri espiatori della semplificazione di problemi complessi. Una critica che si inserisce nella definizione di politica cara al liberalismo. I liberali identificano la politica con i processi di deliberazione e discussione pubblica, fini a se stessi. E’ una concezione riduzionista della politica, equiparata a un mero confronto di opinioni, che elimina la nozione di bene comune, che per i liberali non esiste o è impossibile da definire. Preferiscono la nozione relativistica di tolleranza – per Aristotele ultima virtù delle società morenti– ritenendo che il meccanismo più vicino al bene comune sia la negoziazione degli interessi. Chiamano politica  questa infinita contrattazione il cui scopo è raggiungere un consenso inteso come scambio: il modello di mercato applicato alla politica.

Al contrario, i populisti credono che esista un bene comune al di sopra delle questioni particolari, che esista un popolo al di sopra della società civile. Credono nella politica come decisione e confronto di principi, non semplice negoziato tra interessi. Il populismo è intensamente politico e risponde alla diffusa sensazione che le classi dirigenti perseguano politiche intercambiabili, estranee ai valori e ai veri interessi del popolo. La politica del (neo)liberalismo è una post-politica, l’ideale tecnocratico della fine della storia. Il populismo è l’aspirazione a un bene comune oggettivo, il ritorno della passione civile e morale, lo scontro agonistico tra progetti alternativi. Lungi dall’essere la banalizzazione di realtà complesse, reintroduce la dimensione conflittuale che è l’essenza della politica , espulsa dalla vita pubblica dal liberalismo.

Vi è poi l’approccio demonizzante: il populismo sarebbe una minaccia alla democrazia. Si fonderebbe su miti e rappresentazioni fittizie, avrebbe una visione moralistica della politica e promuoverebbe regimi contrari al pluralismo. Sarebbe quindi una forma di totalitarismo legata alla mitologia di un popolo unico, puro, omogeneo e autentico, in contrasto con élite corrotte. Da ciò consegue che i populisti sono antipluralisti perché ritengono di essere gli unici a rappresentare il popolo; se vanno al governo non riconoscono la legittimità dell’opposizione. Davvero, il mondo al contrario: è il sistema a non ammettere più opposizioni autentiche, sostenitrici di alternative reali, non il semplice succedersi di gruppi dirigenti d’accordo sull’essenziale. L’appello al popolo non presuppone purezza o omogeneità, ma che una comunità abbia e mantenga un certo grado di omogeneità e di somiglianza, senza il quale non esiste alcun popolo. La distinzione è importante e implica un giudizio sul multiculturalismo.

Le differenze sono la bellezza del mondo, ma l’omologazione globalista unita alla moltiplicazione frammentata di gruppi etnici, costumi, valori e credenze all’interno dello stesso territorio, finisce per determinare un contesto invivibile. Vanno istituiti limiti alle diversità che possono essere accolte o metabolizzate per mantenere un insieme minimamente coerente con alcuni principi comuni. L’ evocazione moralistica, pedagogica, di principi astratti (pluralismo, diversità) elude la questione. Il problema è che il sistema liberale e quello postmarxista condividono l’avversione per le persone. Per gli uni esistono solo individui, per gli altri masse; la politica diventa per entrambi governance, gestione amministrata dall’alto.

Secondo Habermas, l’ultimo dei francofortesi, popolo può essere pronunciato solo al plurale. I populisti, al contrario, credono nell’esistenza del popolo e dei popoli, che sono molto più della somma dei componenti. “Il populismo è anti-pluralista e rappresenta un pericolo per la democrazia, crede in un popolo ‘autentico’ che pretende di rappresentare in via esclusiva. “ Falso. Nessun populista serio nega la diversità di opinioni, stili di vita e interessi particolari che chiamiamo pluralismo; un fatto evidente che è stupido negare. Ma, come dicevamo, crede in un bene comune al di sopra degli interessi particolari. Per questo motivo la diversità di opinioni dovrebbe essere soppressa e il pluralismo sradicato? Non è questa è la proposta populista. Né è vero che i populisti pretendano di essere gli unici rappresentanti del popolo. Ciò di cui sono convinti è di conoscere ed interpretare coerentemente il bene comune del popolo che amano. Ritengono di essere capaci, attraverso procedure democratiche, di cambiare le opinioni dei dissenzienti. Non è questa l’essenza di quella che chiamiamo democrazia ?

La differenza sta nella coerenza tra il dire e l’agire concreto. Mentre i populisti affermano di difendere un’idea di bene comune, i loro nemici sostengono un pluralismo che, di fatto, distribuisce il potere solo tra chi è ammesso nel salotto buono dei tolleranti. Che si trasformano in intolleranti pronti a modificare le leggi e stravolgere i principi che affermano di sostenere quando si presenta un avversario vero sul mercato del potere. Oggi gli alfieri della tolleranza mostrano crescente intolleranza. Pretendono di rappresentare al meglio gli interessi , ma alimentano la polarizzazione sociale negando legittimità morale agli avversari. I liberali (di sinistra e di destra) sono pluralisti tra loro e anti-pluralisti contro gli altri. Sono il partito unico politicamente corretto della tolleranza intollerante a senso alternato. Quello è il nemico del populismo, non il pluralismo o il metodo democratico. Sono le élite liberali ( di destra, centro e sinistra) a negare il pluralismo formando un cordone sanitario attorno alla sedicente società aperta , sigillata a chi non ne condivide i principi, tacciato ipso facto di fascismo, stalinismo, totalitarismo. La critica al populismo per la sua visione moralizzatrice proviene da un sistema tra i più moralisti e moralizzanti, l’Impero del Bene, come lo ha chiamato Philippe Muray. In nome di una moralità universalista – i valori della società aperta – le oligarchie rivendicano il monopolio della parola legittima, mettono a tacere i dissenzienti e tracciano i confini di ciò che è moralmente accettabile, istituendo impressionanti fattispecie di reato penale di sentimenti, come il “ discorso di odio”. La correttezza politica è autocensura moralistica di fronte a pensieri peccaminosi. In nome della moralità dell’impero del bene, il populismo è condannato, indesiderabile, privato di legittimità etica, oltreché politica. Il fastidio dei Buoni nasce dal fatto che i populisti abbiano una moralità diversa dalla loro. Pensano – orrore – che i liberali abbiano torto. Ad esempio quando affermano che la volontà del popolo è una finzione o un mito. Poiché non credono nell’esistenza di una volontà generale che sgorga dal popolo, accusano i populisti di volerla rappresentare. La domanda appropriata – essenza della ragione populista– è dunque la seguente: esiste la volontà generale? Per il pensiero dominante il quesito è fuorviante e comunque solo pochi illuminati conoscono il fondo dei problemi e hanno quindi il diritto –dovere di imporre le soluzioni. Ecco perché non possono credere che provenga dal popolo una volontà generale, accusando i populisti di essere totalitari perché cercano di incarnarla. La volontà generale non si crea, si scopre. Al di là del pensiero di Jean Jacques Rousseau, il suo massimo teorico, chi scrive la pensa come Alain De Benoist. “La teoria della volontà generale va oltre l’idea della maggioranza espressa nel suffragio universale. Incentrata sulla nozione di interesse comune, essa implica l’esistenza e il mantenimento di un’identità collettiva. “Ossia, non vi è volontà generale senza popolo. Ecco perché l’oligarchia lavora alla sostituzione ed alla eliminazione dei popoli.  L’accusa di populismo esprime il rancore delle oligarchie verso i popoli; l’uso distorto del termine stesso è, per Chantal Delsol, la maschera dietro la quale le democrazie pervertite dissimulano virtuosamente il loro odio per il pluralismo.

2 Comments

  • Primula Nera 20 Maggio 2025

    Ricordo sempre certi sondaggi, quasi identici in ogni parte del globo, secondo i quali i favorevoli all’immigrazione di massa sarebbero(maggiormente) le persone più colte, con livello d’istruzione più alto e lavori più prestigiosi o comunque intellettualmente più complessi ; viceversa, coloro che sono contrari a tale fenomeno(a volte sprezzantemente definiti dai “professionisti dell’informazione” come xenofobi) avrebbero bassa scolarità, svolgerebbero lavori umili, verrebbero da ambienti disagiati, etc. Da qui parte un assunto fondamentale della propaganda progressista di questi ultimi decenni: la gente colta, sensibile e intelligente è favorevole all’immigrazione di massa(ma la questione si estende anche ad altro : è favorevole a Kamala Harris, al green deal, al “remain” contro la “Brexit”,etc) ,in quanto è in grado di cogliere l’accrescimento intellettuale che essa comporta attraverso lo scambio e la conoscenza con l’altro e blah, blah, blah…Chi è contro tale paradiso terrestre multiculturale invece viene presentato come poco più(o poco meno) di un bifolco.
    Eppure è particolarmente lapalissiano che la vera ragione per la quale le classi sociali più deboli siano contrarie(ovviamente non tutti) a tale fenomeno, non sia dovuta alla rozzezza o mancanza d’intelligenza, ma semplicemente al fatto di essere maggiormente danneggiate dall’afflusso di tali masse di persone : nel lavoro trovando concorrenti che contribuiscono anche ad abbassare o tenere bassi i salari(Marx parlava di “esercito industriale di riserva”), lo stesso dicasi nell’assegnazione di case popolari o posti agli asili nido per i propri figli, oppure concentrandosi soprattutto(per ovvie ragioni) nei quartieri più poveri i cui abitanti sono così investiti dall’onere di provare a vincere la “sfida” dell’integrazione (mi pare si esprimano così i parolai della sinistra fucsia…).
    In conclusione i poveri non sono contrari alle migrazioni di massa(o altre fisime dei liberalprogressisti) perchè sono zozzi e non hanno mai letto Virgilio, ma solo per il fatto di essere(almeno per ora…) gli unici danneggiati realmente da determinati fenomeni. Diciamo che la sinistra ne è chiaramente consapevole, ma se ne fotte dei poveri, legata ormai indissolubilmente alla finanza cosmopolita (però “filantropa”…)…

  • Claudio Antonelli (Montréal) 20 Maggio 2025

    La mondializzazione, con la politica inoltre del multiculturalismo di Stato e con la promozione dei tanti comunitarismi transnazionali, tende a far morire il generoso spirito nazionale di cui dovremmo essere i fedeli sostenitori. Il risultato del culto del diverso è che si volgono le spalle a un senso ampio di coesione e di solidarietà nazionale, favorendo inoltre lo sviluppo dei comunitarismi alla Lgbtq e ai cento altri che frantumano la nazione, e disciolgono i fattori storici di coesione che sono alla base dell’identità storica nazionale dei singoli popoli. Si potrebbe addirittura dire che il pensiero oggi dominante miri ad abrogare la nozione stessa di popolo. A lungo andare, infatti, questa ingegneria sociale, attuata attraverso la demonizzazione dei cosiddetti populisti, i quali mirano invece alla normale difesa dello spirito collettivo nazionale o se vogliamo locale, rischia di causare lo scioglimento finale dei fattori coesivi che sono alla base dello spirito dell’identità e solidarietà della Nazione.
    Alla nozione di “Stato-nazione” e di “Nazione” ormai si tendono ad attribuire, in Occidente, tutte le nefandezze di questo mondo. Secondo me, la demonizzazione del nazional socialismo – chiamato sbrigativamente nazismo o anche impropriamente “nazi-fascismo” o addirittura “fascismo” – insieme con la tragedia dell’Olocausto, assurta a dogma religioso che in certi paesi si avvale di una temibilissima Inquisizione, sono alla base delle scelte odierne di valori e spiegano tante condanne apriori e giustificano i dogmi e i tabù oggi trionfanti. Dal dopoguerra a oggi, con il pretesto di allontanare l’umanità il più possibile dal ripetersi dell’Olocausto, assurto a paradigma del male, ci vengono imposti tanti altri mali. È la reazione al proclamato “male assoluto” – con il trionfo fino a ieri dei gulag – a spiegare gran parte dei tanti mali di oggi, dovuti a certe scelte morali, sociali, politiche, considerate imprescindibili. Ecco quindi la condanna, nei paesi occidentali, dei valori della tradizione nazionale, e l’esaltazione di tutto quanto sia connesso alla diversità e al multiculturalismo. Chissà, forse un giorno ci si accorgerà che vi sono stati degli eccessi in questa continua crescente reazione, in una sorta di Bolero di Ravel, a un Nazismo morto e sepolto ormai da quasi un secolo. Con il paradosso seguente: al popolo israeliano, quintessenza di popolo vittima del “male assoluto”, ma in seno al quale prospera un populismo di dimensioni bibliche, che è basato su un nazionalismo a carattere etno-religioso transnazionale, viene permesso oggi d’indulgere in una sorta di soluzione finale nei confronti dei palestinesi. Omnia munda mundis, insomma. A noi che siamo dei modesti populisti nostrani, all’amatriciana, amanti della patria e dei suoi confini, spetta invece la sempiterna accusa di nazifascismo.

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