«Conosciamo, ma siamo sconosciuti»
Bacon, New Atlantis, 1626.
L’idea di una terra che sorge agli antipodi si trova anche nell’opera di Francis Bacon. La Nuova Atlantide baconiana è Bensalem, isola sperduta «al largo del Perù», sulla quale si è realizzata una felice utopia scientifica. Il nome dell’isola, evidentemente, riecheggia quello di Jerusalem. Il progetto di Bacone ha carattere ad un tempo allegorico e narrativo e si presta bene a quell’atmosfera di entusiasmo per il sapere e la sperimentazione fine a se stessi che già per il Cinquecento imperversava tra gli occidentali colti e potenti.
A differenza di Cristoforo Colombo, il filosofo londinese non medita con particolare fervore le promesse escatologiche. La Nuova Atlantide ha sì una sua religiosità, ma questa pone più di un enigma e altrettante perplessità. Nella Casa di Salomone, centro pulsante delle attività tecnologiche di Bensalem, la statua del navigatore genovese ha però un suo posto d’onore tra i grandi scopritori dei secoli passati:
«abbiamo due lunghissime e belle gallerie: in una di queste mettiamo modelli e campioni di tutti i tipi di invenzioni più rare ed eccelse; nell’altra collochiamo le statue di tutti i principali scopritori. Là abbiamo la statua del vostro Colombo, che scoprì le Indie Occidentali».[1]
Accanto al «vostro» Colombo, vengono poi elencate le statue dei vari inventori delle navi, della polvere da sparo, della musica, dell’artiglieria, della stampa e di molti altri ritrovati della neonata scienza moderna.
Bensalem è dunque, con ogni evidenza, dedita all’innovazione scientifica.
La fiducia nell’avanzamento tecnico che irradia dalla Nuova Atlantide, va detto, ha raggiunto inesausta il nostro tempo. Basta già questo a renderla opera di sicuro interesse. A maggior ragione se si pensa che essa manca totalmente delle remore e delle inquietudini da sempre latenti in ogni manipolazione scientifica e che oggi vengono luttuosamente sostanziate dalle lunghe liste di ecatombi perpetrate dalle conseguenze dirette del progresso scientifico e soprattutto dell’orrido mercimonio che, in ambito bellico e sanitario, si fa dei ritrovati tecnologici.
A fronte del suo carattere indubitabilmente moderno, l’Atlantide baconiana si rivela di pagina in pagina del tutto incapace di prospettare e prevedere i funghi atomici, le armi batteriologiche e le aberrazioni genetiche, che hanno negli ultimi secoli mostrato il volto ammorbante e predatorio della ricerca scientifica. Si potrà dirà, e giustamente, che le mostruosità delle contaminazioni radioattive non potevano ancora toccare le trasognate spiagge di Bensalem per ovvi motivi cronologici. Ma La Nuova Atlantide è opera utopica piuttosto bizzarra, nel suo essere tanto predittiva quanto palesemente ingenua nello slancio scientista che la caratterizza. Un’ingenuità che, come si vedrà, non dipende solo dalla natura utopica dell’opera, ma anche da messaggio che intende veicolare ad ampio e durevole raggio.
In un passo memorabile, vi si legge:
«II fine della nostra fondazione è la conoscenza delle cause e dei segreti moti delle cose, e l’ampliamento dei confini dell’impero umano per l’effettuazione di tutte le cose possibili»[2].
Queste parole vengono pronunciate dalla venerabile figura di uno dei cosiddetti padri della Casa di Salomone, che sono le massime autorità del tempio delle scienze dell’Atlantide baconiana, nel quale vengono coltivati appunto tutti i tipi di ricerca.
Tanto l’isola di Bensalem quanto la Casa di Salomone esistono da tempo immemorabile.
Bacone lascia le origini dell’insediamento umano sull’isola in buona parte avvolte nel mistero, ma rievoca in maniera piuttosto dettagliata la consacrazione dell’isolotto alla fede cristiana.
«Vent’anni dopo l’ascensione del nostro Salvatore», narra lo scrittore londinese, gli abitanti di Renfusa, città sulla costa orientale di Bensalem, videro «un gran pilastro di luce (…) sorgere dal mare molto in alto verso il cielo; e sulla cima una grande croce di luce, più luminosa e più splendente del corpo della colonna». Salpati a bordo di piccole imbarcazioni per avvicinarsi all’oggetto della visione, gli abitanti di Renfusa vennero però bloccati da una forza inesplicabile «a circa sessanta iarde» dalla stessa visione, «del tutto incapaci di andare più oltre».
Si diede però il caso che, su una delle barche lì sopraggiunte, viaggiasse uno dei saggi della Casa di Salomone, il quale, pronunciando una preghiera con le mani levate al cielo, ringraziò il
«Signore Iddio del Cielo e della terra, per aver concesso per Tua grazia a quelli del nostro ordine di conoscere le tue opere della creazione e i loro segreti, e di distinguere (per quanto si conviene alla specie umana) fra i miracoli divini, le opere della natura, le opere dell’arte e le imposture e le illusioni di ogni sorta».[3]
Proprio in virtù di tale preghiera, la barchetta del saggio, unica tra quelle presenti, poté riprendere la navigazione e giungere nei pressi della colonna luminosa sormontata da una croce di luce. Lì, «prima ch’egli vi si avvicinasse, il pilastro e la croce di luce s’infransero e si dispersero quasi in un firmamento di molte stelle, le quali ben presto svanirono anch’esse e non rimase nient’altro da vedere se non una piccola arca o baule di cedro, asciutta e per niente bagnata, sebbene galleggiasse»[4].
A questo punto avvenne il vero e proprio prodigio.
Il saggio della Casa di Salomone si accorse infatti che dalla piccola arca fuoriusciva un rametto di palma e, non appena lo raccolse, vide «l’arca aprirsi da sé e in essa (…) un libro e una lettera, entrambi scritti su fine pergamena e avvolti in sindoni di lino»[5].
Il libro rivelò da lì a poco il suo contenuto: tutti i testi dell’Antico e del Nuovo Testamento, compresa l’Apocalisse e altri testi che, per quel tempo, «non erano ancora stati composti». Quanto alla lettera, si trattava invece di uno scritto di San Bartolomeo, il quale rivolgeva al destinatario dell’arca, evidentemente lo stesso saggio della Casa di Salomone, ogni benedizione celeste.
Questo episodio, circondato com’è da uno spesso alone leggendario, sta lì a confermare la fede cristiana della nazione insulare di Bensalem. Come si legge alla fine dell’episodio miracoloso avvenuto al largo di Renfusa, infatti, «così questa terra fu salvata dall’infedeltà (come i resti del mondo antico dalle acque) da un’arca, per mezzo dell’Evangelo apostolico e miracoloso di San Bartolomeo»[6].
Eppure, tra questa sua antica devozione cristiana e la natura della missione e dell’aspirazione dei saggi dell’isola di Bensalem c’è come uno iato, qualcosa di cui è difficile carpire l’intima coerenza.
Proprio come nell’interesse escatologico di Colombo anche nella presunta vocazione cristiana dell’isola «al largo del Perù», si annida qualcosa di sospetto, per non dire di posticcio. Dove Colombo scambia i nuovi cieli e le nuove terre apocalittici per le terre conquistate alla Corona di Spagna, Bacone pone le promesse della più sfrenata sperimentazione scientifica sul carisma di una rivelazione neotestamentaria. Il saggio della Casa di Salomone che sfida le onde al largo di Renfusa riceve persino una copia dell’Apocalisse prima che questa sia stata scritta!
Vi è in entrambe le retoriche, quella colombina e quella baconiana, una nota sensazionalistica che sembra più voler giustificare e decorare propositi e atti narrati che non spiegarne l’intima natura.
Come detto, l’ingenuità dell’entusiasmo di Francis Bacon per l’avanzamento scientifico è uno degli aspetti più appariscenti della Nuova Atlantide.
Nelle sue numerose «case di ottica» vengono riprodotte «ogni sorta di luci e di radiazioni, e ogni sorta di colori; e con oggetti privi di colore e trasparenti», con i quali vengono rappresentati «tutti i diversi colori, non a iride (come nelle gemme e nei prismi), ma singolarmente». In tali «case di ottica» si ottiene inoltre «ogni forma di moltiplicazione della luce», che viene portata «a un punto tale e a una tale acutezza, da distinguere piccoli punti e linee»; e «ancora, tutte le sfumature della luce; tutte le illusioni e gli inganni della vista, sia nella forma, sia nella grandezza, sia nei movimenti, sia nei colori; qualsiasi riproduzione di ombre».
Nelle stesse «case di ottica», gli sperimentatori hanno poi «trovato» anche «vari modi a voi ancora sconosciuti di produrre la luce direttamente da corpi diversi» e, ancora, «mezzi per vedere oggetti lontani, come quelli in cielo o in luoghi remoti» nonché «gli oggetti vicini sembrino lontani, e gli oggetti lontani vicini, creando distanze apparenti»[7].
Ora, come ben sapeva qualsiasi alchimista medievale, nel maneggiare ogni sorta di luci e di radiazioni come nel moltiplicare la luce, bisognava tenere in dovuta considerazione l’azione disintegrante di quello che la trattatistica medico-alchemica, ancora nel Trecento, chiamava il Basilisco. Entità nota all’alchimia medievale, sulla quale ci sarà modo di tornare più avanti nel corso di questo libro.
Non è qui il caso di indagare se in questa ossessione per le luci moltiplicate e le distanze apparenti sia già insito una qualche forma di culto luciferino, il che non è affatto improbabile; ciò che qui va rivelato è che l’utopia di Bensalem mira espressamente a rimuovere ogni cautela dalla strada della sperimentazione scientifica.
L’ingenuità utopica che prima vi si sospettava potrebbe pertanto essere tanto ingannevole quanto le rifrazioni fotografiche che vi si praticano.
Certo, tale intensa attività sperimentale dell’isola è in parte preannunciata nell’antica preghiera del saggio della Casa di Salomone riportata in precedenza, che nel testo originale di Bacone recita:
«Lord God of heaven and earth, thou hast vouchsafed of thy grace, to those of our order, to know thy works of creation, and the secrets of them; and to discern (as far as appertaineth to the generations of men) between divine miracles, works of natures, works of art, and impostures and illusions of all sorts[8]».
Pur volendo meditare con buona volontà e senza sospetti queste parole, rimane comunque difficile stabilire se il lavorio scientifico e sperimentale che assorbe i cittadini di Bensalem rientri nell’ambito dei «miracoli divini», delle «opere della natura», delle «opere dell’arte» oppure – com’è più probabile – in quello delle «imposture e illusioni di ogni sorta».
Bacone ad ogni modo non sembra volere dare chiarimenti sui principi ultimi che reggono la civiltà della sua Atlantide. I riferimenti all’«ampliamento dell’impero umano» e alla «effettuazione di tutte le cose possibili» intendono essere programmatici e chiariscono oltre ogni dubbio quali siano le mire perseguite dalla casta dei saggi e dei padri della Casa di Salomone[9].
La loro azione di governo sull’isola sembra già parlare del delirio dell’età contemporanea. La ricerca compulsiva, sulla scia incerta della «creazione di distanze apparenti», sembra preannunciare nella maniera più scandita e indubitabile la manìa fotometrica che si è oggi impadronita di ogni angolo dell’universo umano, fino al punto di renderlo tanto sconfinato quanto angusto e irrespirabile.
Gli abitanti della Nuova Atlantide hanno inoltre una dote assolutamente eccezionale nel panorama umano; dote che già li imparenta strettamente con coloro che oggi utilizzano la scienza come mezzo di controllo delle masse. Hanno ovvero la capacità di rimanere ignoti a tutti coloro che non vivono sull’isola. D’altronde, sia detto qui di passaggio, di molti degli sconvolgimenti scientifici degli ultimi anni, siano essi di applicazione bellica o sanitaria, il mondo conosce spesso i passacarte, al massimo gli esecutori, ma molto raramente, se non mai, i mandanti.
Infatti, i curiosi abitanti dell’isola di Francis Bacon fanno presente ai visitatori – gli stranieri – giunti sulle loro coste che
«noi dell’isola di Bensalem abbiamo questo privilegio: che a causa della nostra ubicazione isolata e delle leggi sulla segretezza che abbiamo per i nostri viaggiatori, e della rara ammissione di forestieri, conosciamo assai bene la maggior parte del mondo abitabile, mentre noi stessi siamo sconosciuti. Perciò, siccome si conviene che chi meno sa faccia domande, è più giusto che, per passare il tempo, voi facciate domande a me e non io a voi».[10]
Ecco qui apparecchiata tutta l’esclusività del sapere tecnico, delle cerchie scientifiche che dall’infido Seicento fecero di tale esclusività una sorta di dovere. Tali élite sapevano infatti molto bene che le conoscenze vanno instillate nelle masse inconsapevoli ‒ come agli stranieri in visita a Bensalem ‒ con avveduta parzialità e gradualità. «Conosciamo, ma noi stessi siamo sconosciuti». Dietro la metafora geografica della località remota e inaccessibile ai più, si cela l’atteggiamento mentale di chi ha offerto al mondo i benefici delle proprie scoperte, ma trattiene la prerogativa e il privilegio del dominio sulle modalità di divulgazione e sulle reali finalità di ogni scoperta.
Già ai tempi di Bacone, i settori dominanti europei avevano dunque compreso che bisognava creare una casta che avesse l’esclusiva sui ritrovati scientifici: casta destinata a scandire il passo dell’evo moderno.
In questo senso, l’utopia della Nuova Atlantide ha già i caratteri dell’opera propagandistica, o se si preferisce, proto-propagandistica. Un uomo del genio di Bacone non poteva essere ignaro dei pericoli insiti nella sperimentazione scientifica. Non poteva non sapere che la sua utopia era in realtà la dissimulata premessa di qualsiasi distopia. Eppure, la sua “effettuazione di tutte le cose impossibili”, sulla pagina scritta, riecheggia ancora oggi serena e inalterata. Qualsiasi sospetto, qualsiasi timore appare come del tutto incompatibile al passo lieto e fiducioso del pellegrinaggio di Bacone verso la sua Atlantide scientista.
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L’ampliamento dell’impero umano, auspicato dall’utopista inglese, ha forse raggiunto oggi il suo massimo splendore? Oppure, la sperimentazione scientifica si è ormai incamminata, irrevocabilmente, verso l’instaurazione del più violento dei terrori?
Speranze materiali e sperimentali troppo elevate conducono sempre e fatalmente alla sciagura. La scienza non ha infatti granché da opporre ai terrori che essa stessa suscita.
Secoli dopo Bacone, Leó Szilárd lo avrebbe detto a chiare lettere: la scienza non ha più contrappesi da opporre alle potenze devastatrici che è capace di suscitare.[11]
Non più Ordo ab Caos, ma Caos ab Caos, dunque, perché più ci si avvicina ai limiti dell’osservabile, più si fa difficile prevedere le conseguenze delle proprie azioni.
NOTE
[1] F. Bacone, Saggi. Del Progredire della Scienza. Nuova Atlantide, cura e traduzione di C. Ascari, Istituto Geografico De Agostino, Novara, 1966, p. 525.
[2] Ibidem, p. 516.
[3] Ibidem, p. 497, ecco l’intera preghiera: «Signore Iddio del Cielo e della terra: tu hai concesso per Tua grazia a quelli del nostro ordine di conoscere le tue opere della creazione e i loro segreti, e di distinguere (per quanto si conviene alla specie umana) fra i miracoli divini, le opere della natura, le opere dell’arte e le imposture e le illusioni di ogni sorta. Dichiaro qui e testimonio davanti a questo popolo che ciò che ora vediamo dinanzi ai nostri occhi è il Tuo dito e miracolo vero. E poiché apprendiamo dai nostri libri che Tu non operi mai miracoli se non per un fine divino e superiore (perché le leggi della natura sono le tue stesse leggi, e Tu non le oltrepassi se non per un grande motivo), noi ti imploriamo molto umilmente di perfezionare questo grande segno e darcene per misericordia il significato e il fine; il che già tacitamente prometti inviandolo a noi».
[4] Ivi.
[5] Ivi.
[6] L’intero episodio della colonna e croce di luce, si trova ibidem, pp. 496-498.
[7] Ibidem, pp. 521-522.
[8] F. Bacon, Essays and New Atlantis, Walter J. Black Publisher, New York, US, 1942, pp. 258-259.
[9] Nel suo saggio, Il mito dell’alchimia, Mircea Eliade inquadra l’opera di Bacone nel contesto del nascente Rosacrocianesimo d’inizio Seicento. Rimane però difficile stabilire come l’enfasi sulla ricerca tecnica possa associarsi alle esigenze di rinnovamento spirituale che, almeno teoricamente, dovrebbero essere al centro del movimento rosacruciano seicentesco. Lo studioso rumeno offre possibili soluzioni in tal senso, considerando la scienza e la tecnica moderna come un’estremizzazione prometeica del «mito del perfezionamento e della redenzione della natura» che, a suo dire, era già stato degli alchimisti. Come ci sarà modo di vedere più avanti, Eliade cade come altri nella suggestione di vedere tra le finalità degli alchimisti un vago «sogno» da realizzare. Di tale «sogno» però, a dire il vero, si fatica a trovare traccia nei trattati alchemici. Cfr. M. Eliade, Il Mito dell’alchimia seguito da L’alchimia asiatica, Bollati Boringhieri, Torino, 2001/2014, p. 29-40 [Ed. or. in rumeno, 1933/1935; in francese, 1990/1992].
[10] F. Bacone, Saggi ‒ Del Progredire della Scienza ‒ Nuova Atlantide, cit., p. 495.
[11] Cfr. M. Grodzins, E. Rabinowitch, L’età atomica, Il Saggiatore, Milano, 1968, p. 38.
In copertina: Francis Bacon, The New Atlantis, Illustrazione all’edizione del 1627, particolare.
La Nuova Atlandide è uno dei saggi contenuti in Geografia medievale e smarrimento contemporaneo.
L’opera integrale è gratuitamente disponibile al seguente link:
https://www.academia.edu/126814164/geografia_medievale_e_smarrimento_contemporaneo
oppure
https://ignotascintilla.wordpress.com/2025/01/05/geografia-medievale-e-smarrimento-contemporaneo/
