Una delle libertà concesse all’essere umano: costruire un mondo stabile, assodato, una geografia inscalfibile.
Egli ha accolto questa libertà come una rassicurazione, ma senza alcuna gratitudine. Nel suo nuovo mondo, un mondo freddo e incontestabile, si è dedicato soprattutto alla produzione e al guadagno. Lungimirante e consapevole, come una talpa in cerca di radici tossiche.
Questa sete di guadagni sproporzionati, ormai innestata nell’uomo come una sorta di organo supplementare, necessitava, pretendeva prima di ogni altra cosa mappature definitive, planisferi immutabili. Ed è proprio ciò che si è andato consolidando dopo la scoperta dell’America.
Dal momento stesso in cui vede profilarsi il litorale dell’Estremo Occidente e approda sul biancore sognante delle spiagge caraibiche, l’uomo prenderà a scandagliare ogni costa e fondale, alla ricerca di un profilo certo, di una mappatura data una volta per sempre, come immutabile; e tutto ciò nella pretesa di poter abbracciare con un solo sguardo il globo intero, per invischiarsi e infine seppellirsi in quella proiezione dei continenti che da lì a breve prenderà il nome di planisfero.
Per gli antichi, e ancora nel Medioevo, attribuire contorni e fisionomie fisse a terre circondate da acque poteva, al massimo, rappresentare una necessità pratica. La cartografia aveva sì un suo posto tra le scienze, ma non si trattava di un posto d’onore. Si trattava pur sempre di fissare su pergamena terre circondate da mari e oceani; isole che travolte dal reflusso delle maree appaiono e scompaiono; ghiacci impastati di fanghiglie nerastre che si disperdono e ricompongono; scheletri di pesci che, per sedimenti, innalzano gracili coralli.
Che di fronte a quelle europee e africane vi fossero altre coste continentali, lo aveva già intuito Raimondo Lullo in pieno XIII secolo sostenendo che le maree atlantiche non sarebbero state possibili senza due estremità contrapposte. In realtà, la concezione del maiorchino si rifiutava di vedere le cose su un piano esclusivamente orizzontale, poiché tutto doveva trovare una spiegazione nell’equilibrio universale; e ciò perché «il Sole è dispersivo e la Luna è aggregativa, al contempo il Sole segue la natura del Fuoco, mentre la Luna segue la natura dell’acqua»[1].
“Aggregare” vuol dire conciliare gli opposti: riconoscere il centro che, con misura, oscilla da un estremo all’altro.
Lullo riconosce, nel flusso e nel riflusso delle acque oceaniche, il risultato di due forze contrapposte: una che le induce a rimanere nello stesso spazio concavo a loro destinato («aqua maris facit arcum») e un’altra che, di contro, le induce verso l’espansione; pur senza mai sommergere le terre emerse[2].
E in fondo, perché mai dare uno status particolare alla terra che sorge dall’altra parte dell’Atlantico?
Perché mai farne oggetto di scoperta?
Terra, Mare, Cielo, Sole, Luna non dipendono forse da principi ben precisi? Terra, Mare, Cielo, Sole, Luna, non hanno vita propria se slegati dai loro principi, dalla loro natura: «Sol est dispersus, Luna est aggregativa, cum Sol sequatur naturam Igniis, Luna naturam Aque».
Così almeno si diceva un tempo, quando Terra, Mare, Cielo, Sole, Luna venivano ancora rappresentati con esagrammi e trigrammi di rette orizzontali nel Taoismo cinese; oppure, ripartiti all’interno di ben distinte sfere concentriche nella geografia e nell’iconografia medievale europea[3].
Ma gli europei moderni, con la loro morbosa devozione per le apparenze, ne hanno fatto sostanze e spazi misurabili, ancorati alle clessidre, fino al punto di riversare la prospettiva lineare sull’intero universo, nel delirio ormai compiuto di uno spazio attraversabile in anni luce.
Come se la luce, nelle sue irradiazioni, ricoprisse le distanze così come le percepiscono gli uomini….
Per queste, e per altre innumerevoli ragioni, la scoperta dell’America ha tutta l’aria di una copertura.
Che tale copertura sia stata programmata da qualcuno o che l’intera vicenda di Colombo si sia semplicemente data, così per come la si può conoscere attraverso i libri, in fin dei conti non fa molta differenza.
Prima del navigatore delle tre caravelle, viaggiare per mare voleva dire viaggiare attraverso diverse concezioni del mondo. Non esistevano luoghi neutri. Ogni cosa era ritenuta più o meno lontana dal suo modello primigenio, dal suo principio. Di questo può essere certo chiunque abbia letto e inteso nella dovuta maniera la prima terzina del Paradiso dantesco:
La gloria di colui che tutto move
per l’universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.
Nel Medioevo, infatti, non vi era nulla di simile ad uno spazio-tempo neutro e costante. Le terre potevano dirsi sacre o maledette, consacrate o da consacrare.
L’ammiraglio, fedele alla Chiesa e alla Corona di Spagna, spinto da alberi e vele dalla numerologia triadica, salpò invece verso una terra incerta, le generiche Indie, con il fine se possibile di consacrarla, di impartirle la benedizione della fede che aveva appreso dalle Sacre Scritture[4].
Ciò suona rassicurante e sembra spiegare tutto.
Ma in realtà, poche cose sono meno rassicuranti dell’operazione delle tre caravelle.
Essa ha dato inizio al dominio dell’Occidente sul mondo; un avvento terribile e nefasto, che ben poco serba di rassicurante.
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Colombo attraversò un abisso, non solo spaziale. Il suo viaggio condusse infatti dal mondo antico, con le sue concezioni puntate verso la trascendenza, a quell’inversione di ogni valore e di ogni autentica giustizia che segna indelebilmente la modernità dominata dall’Estremo Occidente: il luogo stesso in cui evoluzione tecnica e contraffazione della spiritualità hanno marciato di pari passo, fino a quest’oggi.
Tale evoluzione e tale contraffazione – raramente viene ricordato – hanno riguardato, in senso proiettivo e prima d’ogni altra cosa, proprio la cartografia e la geografia.
Il pianeta terra, a partire da quel 1492, ha assunto sempre più le forme e i connotati di un reticolo «a uso e consumo dei naviganti», in cerca di terre e materie ambite. Si è trasformato ovvero in un modello, in una proiezione geometrica. Ogni centro sacro, la meta di ogni pellegrinaggio, l’epicentro di qualsiasi enigma trascendente è stato via via bandito, fino a essere marchiato dall’infamia implacabile che la modernità ha inflitto a ogni “superstizione”. Nella sapienza medievale, si è finiti per vedere e udire solo la prolungata declamazione di un avido ciarlatano e di un credulo imbroglione.
Fin da allora, il globo è stato dunque sempre più irretito, addomesticato, accomodato alle rotte dei naviganti e dei mercanti.
Le terre emerse e le infide acque che le circondano sono state proiettate, in maniera sempre più meticolosa, su un piano comune e incontestabile; unica proiezione possibile, privata di quell’irradiazione eterica che, come ogni irradiazione, è implicita e potenziale nella forma stessa della sfera, e lo è secondo una legge che consente di tramutarla in scala e in ascesa; la percezione non solo della terra, ma dell’universo intero, nel giro di tre o quattro secoli, è venuta così a collassare nell’allucinazione di uno spazio ridotto a rapporti di distanza: un campo neutro in cui tutto si presta al calcolo.
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Nel Cinquecento, si diffonde l’arcinota proiezione cilindrica di Mercatore. È l’immagine di un mondo che si promette nuovo e fino ad allora inaudito. Il titolo stesso è esplicito e chiaro quanto ai fini della stessa mappa:
Nova et aucta orbis terrae descriptio ad usum navigantium.
Non un planisfero dalle proporzioni credibili, dunque, né rispettoso delle reali estensioni dei continenti, ma una carta emendata e accomodata ad usum navigantium. Ossia linee di contorno che, prima ancora di ridurre a modelli stabili le terre emerse, si preoccupano di dare coordinate fisse ai naviganti, punti di riferimento stabili, tra zone navigabili e destinazioni di approdo.
Eppure, già a un primo sguardo, c’è qualcosa in questa mappa che dovrebbe indurre i più accorti a farsi sospettosi.
Sì, perché in essa, man mano che si procede verso i due poli, i continenti si vanno enfiando a dismisura, mentre tutto ciò che si estende lungo l’equatore appare come schiacciato e rimpicciolito. È questo l’effetto prodotto dal cilindro che ha strappato via le armoniose proporzioni che solo una superficie sferica può preservare e garantire. Mentre il cilindro, prima, e il piano, dopo, impongono sull’intera proiezione quel reticolo di parallele, destinate a confluire fuori dalla rappresentazione, dimentiche dei poli.
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Mercatore significa Mercante.
Gerhard Kremer, nome in basso-tedesco del noto cartografo, significava in realtà qualcosa di simile a Gerardo il Rigattiere; ma tale nome, all’epoca, doveva sembrare più adatto agli schiamazzi dei pontili che non alle maniere affettate delle accademie; e per questo venne latinizzato in Gerardus Mercator ovvero Gerardo il Mercante.
Nei tempi antichi e medievali, l’idea di universalizzare la visione geografica di un mercante a uso di altri mercanti sarebbe apparsa probabilmente del tutto assurda e scriteriata. Il Medioevo non sconosceva l’idea di terra sferica. Essa gli era anzi nota e familiare, come dimostrano le prime pagine del Libro di Ruggero di al-Idrīsī («La terre est ronde comme une sphère»)[5]; come precisa lo stesso Raimondo Lullo («terra facit arcum in suo situ»)[6]; e per non dire dell’iconografia sacra, con il Cristo benedicente reggitore del globo, sulla mano sinistra.
Il planisfero di Mercatore, con la sua capillare diffusione, non viene dunque ad imporre una proiezione veritiera della terra, dopo secoli di falsità, bensì un’immagine comoda della terra: un quadro d’insieme adattabile alle necessità orizzontali del nuovo uomo risoluto a evadere una volta e per sempre dai raccoglimenti del tempo medievale.
in copertina:
Gerard Mercator [Cremer]. Line engraving by H. Goltzius, 157
Credit: Wellcome Library, London. Wellcome Images
images@wellcome.ac.uk
http://wellcomeimages.org
Gerard Mercator [Cremer]. Line engraving by H. Goltzius, 1574.
Published: –
Copyrighted work available under Creative Commons Attribution only licence CC BY 4.0 http://creativecommons.org/licenses/by/4.0/
NOTE

[2] Ibidem, art. 2.
[3] Si veda globo presente nel manoscritto di John Gower (1330-1408), in Vox Clamantis, 1400 ca, Glasgow University Library:
[4] Interessanti a questo proposito le riflessioni di Mircea Eliade contenute in The Sacred and the Profane: The Nature of Religion, Harcourt, San Diego, CA, 1987, p. 32.
[5] Géographie d’Édrisi, Tomo I, Prolegomènes, traduzione P. A. Jaubert, Imprimerie Royale, Parigi, 1836, Prolégomènes, p. 1 e ibidem, p. 3: «La terre est essentiellement ronde, mais non point d’une rotondité parfaite, puisqu’il y a des élévations et des bas-fonds, et que les eaux coulent des unes aux autres» (“La terra è essenzialmente rotonda, ma non di una rotondità perfetta, poiché essa ha dei rilievi e delle depressioni e le acque scorrono dagli uni alle altre”, TdA).
[6] Raimondo Lullo, Quaestiones solubiles, cit., q. 154, art. 2.
In copertina: H. Goltzius, Gerard Mercator, Incisione, 1574.
La mappatura dell’Estremo Occidente è tratto da Geografia medievale e smarrimento contemporaneo.
L’opera integrale è gratuitamente disponibile ai seguenti link:
https://www.academia.edu/126814164/Geografia_medievale_e_smarrimento_contemporaneo