8 Ottobre 2025
Storia delle Religioni

La manifestazione di Dio – Marco Calzoli

La parola italiana “manifestazione” deriva dal vocabolo latino manifestus, formato da manus, “mano” + probabilmente un esito del verbo fero, “prendere”, quindi “manifesto” significa “preso per mano”, cioè “colto in fragrante”, “in evidenza”, pertanto “chiaro, palese”.

Il vocabolo greco corrispondente è epifaneia, dalla preposizione epì con valore intensivo + il verbo fainō, “appaio”. Da questo sostantivo greco deriva la festa della Epifania, donde la storpiatura di Befana, che porta i doni ai bambini durante quella notte.

In ebraico biblico abbiamo la radice gala, come in Genesi 35, 7: “Lì Giacobbe costruì un altare e chiamò quel posto El-Betel (Dio di Betel) perché in quel luogo Dio gli si era manifestato (ni-glu) quando egli (Giacobbe) fuggiva lontano da suo fratello”. Questa radice significa etimologicamente “scoprire”, nel senso di togliere un velo.

Pertanto possiamo inferire che in genere una manifestazione sia l’apparire della verità insita in qualche cosa o in qualcuno. Anche Dio sceglie di manifestarsi in qualche maniera agli uomini.

Egli dapprima li crea, poi si rivela a personaggi scelti (i capostipiti delle religioni) e quindi a tutti gli uomini. Tutti gli uomini in qualche modo sentono parlare di Dio e, vuoi o non vuoi, prima o poi si pongono la domanda sulla sua effettiva esistenza.

Secondo una certa visione, ogni religione sarebbe la manifestazione dell’unica Divinità ma calata secondo le categorie storico-culturali di un determinato popolo. Ci sono tanti nomi per indicare l’acqua, in inglese water, in francese eau, in cinese pubu, ma tutte le lingue si riferiscono allo stesso oggetto. Una cosa analoga avviene con Dio: le religioni del mondo parlano in definitiva della stessa Realtà, ma usando concetti a volte diversi o del tutto divergenti. È che Dio non si può definire univocamente tanto è superiore alla mente umana, quindi i vari culti colgono aspetti frammentari di una Realtà superiore, di cui tutti facciamo in qualche modo esperienza in quanto Egli si rivela in continuazione ad ogni uomo.

I teologi cristiani affermano che è possibile che anche le persone che professano altre religioni si possano salvare, a patto che osservino la legge naturale stampata da Dio in ogni cuore umano, di qualsiasi latitudine. Ma la salvezza, cioè la vita eterna nella gioia dei beati, è possibile unicamente per i meriti di Gesù Cristo, l’unico Salvatore del mondo, l’Uomo Dio che ha deciso, quasi duemila anni fa, di incarnarsi in questa dimensione terrena e di morire in croce come sacrificio per il perdono dei peccati, che rendono gli uomini prigionieri del male e quindi della morte. La morte, infatti, non è stata voluta da Dio, bensì è entrata nel mondo per invidia del diavolo. Gli uomini, usando la propria libertà di scegliere tra Dio e il suo Avversario, possono optare anche per Satana; quindi, il male è entrato nel mondo e continua a restarci.

Papa Francesco insiste nel dire che il battesimo, con il quale avviene la ammissione nella chiesa, è la grazia più grande che Dio ci ha donato; pertanto, suggerisce di ricordare il giorno in cui il sacramento è avvenuto. Il battesimo lava il peccato originale (quello commesso da Adamo e Eva) ottenendoci il perdono da parte di Dio per i meriti di Cristo. Ma non cancella le conseguenze del peccato originale, quali la inclinazione al male (concupiscenza), la sofferenza e la morte fisica. Tuttavia, ci apre le porte del paradiso, cioè della vita eterna beata assieme a Dio. Dopo il battesimo possiamo ancora perdere la grazia santificante, per via del peccato personale attuale, che però viene rimesso con la confessione presso un sacerdote, che assolve i peccati in nome di Cristo.

San Paolo scrive che il battesimo è una risurrezione spirituale in Cristo. Si tratta del conferimento di una nuova vita, quella di grazia. “Non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me” (Galati 2, 20). Leonida, il padre di Origine, bacia sul petto il figlio dopo il battesimo convinto di baciare Dio stesso.

Nel Medioevo il battesimo viene conferito agli adulti, i quali ricevono a quel tempo due simboli assai pregnanti. Il primo è la veste candida, da portarsi per una settimana, che allude alla vita nuova in Cristo, senza peccato. Il secondo è la candela, che allude al cero pasquale: nella Pasqua Cristo risorge dai morti vincendo la morte e irradia della sua Luce tutti i credenti nel suo Nome.

Tutte le cose del mondo, viste sub specie temporis, conducono al proprio disfacimento, ma viste sub specie aeternitatis, sono una preparazione all’incontro con Do, quindi a una nuova vita, sotto il segno della grazia. Il mondo non va eliminato, ma è una occasione per fare esperienze che ci conducono alla conversione vera e all’incontro con Dio. Sono le eresie che condannano il mondo, invece la sana dottrina consiglia di usufruirne sottomettendolo però alla legge di Dio, che ha sempre il primo posto nella vita del credente.

Il cristianesimo deriva in qualche maniera dall’ebraismo, con il quale condivide il monoteismo. Mentre gli ebrei del tempo sono assai legati alla loro etnia e poco aperti agli stranieri, nonostante che nell’Antico Testamento vi siano a volte voci dall’afflato universalistico; invece, il cristianesimo apre la via della salvezza a tutte le genti. Gesù dice di battezzare tutti gli uomini. Ma sarà san Paolo a capire fino in fondo il messaggio universalistico di Cristo, estendendolo anche ai gentili.

Nel racconto evangelico della Epifania (Matteo 2, 1-12) leggiamo:

 

“Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: “E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te, infatti, uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”».

Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».

Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese”.

 

I Magi sono sapienti dell’Oriente, molto probabilmente persiani, che scrutando le stelle si accorgono che nasce per il mondo il Salvatore e vengono ad adorarlo fino in Palestina. I Magi sono i primi “stranieri” (non ebrei) ai quali si manifesta Cristo. Anche il re Erode il Grande è uno “straniero” (idumeo) ma non vuole omaggiare Cristo bensì medita di toglierlo di mezzo. Invece i sapienti ebrei, che conoscono i segreti, sanno persino dove nasce, ma lo stesso non si degnano di andare a adorarlo, prima di loro vi si recano gli umili pastori.

In realtà i pastori del tempo sono ricchi e abitano in città, a far la guardia alle pecore di notte nelle campagne vi sono addirittura i servitori dei pastori, forse la categoria più umile, più povera del tempo, che, come le prostitute, non può andare nemmeno al Tempio. Precisamente è a loro che Cristo si manifesta la prima volta, sbaragliando tutte le barriere sociali del tempo. Poi si manifesta a degli stranieri, i Magi, ma che hanno l’umiltà di cercarlo.

In Cristo la Divinità si manifesta nell’uomo stesso. Nell’Antico Testamento vi sono teofanie (manifestazioni di Dio) nelle cose, pensiamo solo al roveto ardente. Nel Nuovo Testamento vi è la teofania in Cristo, cioè Dio si manifesta nella carne di un essere umano. E da quella carne Dio poi irradia la sua luce sui pastori e su tutto il resto del mondo.

Nel capitolo 2 di Luca, dopo aver preso in braccio Cristo, Simeone esclama che la salvezza di Dio, che ha visto in Cristo, è “luce per illuminare le genti”. Si tratta della traduzione della CEI, ma l’originale greco è più pregnante: fōs eis apokalupsin etnōn, “luce per (la) rivelazione/manifestazione (delle) genti”, cioè di tutto il mondo. Il termine greco apokalupsis, “rivelazione”, “manifestazione”, esprime propriamente un “togliere (apo) il velo (kalupsis)”. Su tutto il mondo c’è tenebra, come dice Isaia, e Dio nel suo Cristo la vuole togliere manifestandosi a tutti.

I Magi offrono a Cristo tre doni, spiegati variamente dalla tradizione. L’oro è simbolo di regalità, ma per l’Israele del tempo il vero sovrano del popolo eletto è nientemeno che Dio, per questo il re Salomone riveste il sacrario del Tempio con oro. Leggiamo in 1Re 6, 20-22:

 

“La cella interna era lunga venti cubiti e alta venti. La rivestì d’oro purissimo e vi eresse un altare di cedro. Salomone rivestì l’interno del tempio con oro purissimo e fece passare, davanti alla cella, un velo che scorreva mediante catenelle d’oro e lo ricoprì d’oro. E d’oro fu rivestito tutto l’interno del tempio, e rivestì d’oro anche tutto l’altare che era nella cella”.

 

Invece l’incenso è simbolo di preghiera. Gli ebrei del tempo compiono cinque preghiere nell’arco della giornata e la preghiera è rivolta a Dio, YHWH. Salmo 140, 2:

 

“Come incenso salga a te la mia preghiera, le mie mani alzate come sacrificio della sera”.

 

Per la concezione biblica l’anima è l’intera persona, compreso il corpo. Per tale ragione gli ebrei pregano anche con gesti e posizioni del corpo, per esempio le mani alzate. Il volto deve essere rivolto a Gerusalemme, considerata il centro del mondo. Un retaggio di tale concezione antropologica la si ritrova negli inchini dei musulmani durante la preghiera (salat).

La mirra è simbolo di immortalità, infatti vengono con essa profumati i cadaveri in vista della risurrezione. Ma potrebbe essere anche richiamo della consacrazione, infatti leggiamo in Salmo 44, 8-9:

 

“Ami la giustizia e l`empietà detesti:

Dio, il tuo Dio ti ha consacrato

con olio di letizia, a preferenza dei tuoi eguali.

Le tue vesti son tutte mirra, aloè e cassia,

dai palazzi d`avorio ti allietano le cetre”.

 

Ma gli ebrei del tempo si aspettano perlopiù un Messia trionfante, con la missione di  instaurare un regno terreno con lo scopo di liberare Israele dal dominio romano. Gesù, invece, si manifesta sempre più come il Servo sofferente di Isaia 53.

La regalità di Cristo e la sua divinità, nonché il senso della propria consacrazione come Messia (dall’ebraico “unto”, in greco Cristo), non sta nella esaltazione terrena, bensì nel sacrifico di amore. Marco 10, 45:

 

“Il Figlio dell’uomo, infatti, non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti”.

 

Nella predicazione di Cristo assistiamo a un sovvertimento totale. Si tratta di un Dio umile, che i santi cristiani riferiscono essere “pazzo di amore” per l’umanità, fino a morire in croce per la salvezza di ogni singolo uomo.

Il Dio dell’Antico Testamento esige sacrifici, tra cui quello dello Yom Kippur. In questa festa ebraica del passato, celebrata una volta l’anno, il sommo sacerdote entra nel sacrario del Tempio e, con lo scopo di ottenere il perdono dei peccati, asperge con rami imbevuti di sangue animale il kapporet, cioè la lastra d’oro sorretta da due cherubini d’oro, sotto la quale (nello spazio vuoto) risiede Dio stesso. Ebbene, nella Lettera ai Romani Cristo stesso si definisce to ilasterion, vocabolo greco che traduce il termine ebraico kapporet, che la CEI rende con “strumento di espiazione”. Romani 3, 25-26:

 

“Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza”.

 

Sta qui il segreto del cristianesimo. L’oro non serve più come dono al re, bensì come strumento del sacrificio. A Cristo non interessa il dono dell’oro come esaltazione della propria gloria, ma usa l’oro come segno del suo sacrificio redentivo con il sangue. Come evidenzia il Vangelo di Giovanni, la Gloria (doxa) di Cristo è intrinsecamente unita alla sua Croce (stauros).

Nell’Antico Testamento Dio si manifesta al popolo eletto con molti veli, come da una nube che oscura il sole. Invece Cristo completa la manifestazione, rendendola ancora più evidente, anche se sulla terra gli uomini possono percepire Dio solo come in uno specchio, dice san Paolo in 1Corinzi 13, 12, cioè in maniera imperfetta (gli specchi antichi sono opachi).

Cristo non vuole sacrifici per sé, ma diventa Egli stesso la vittima sacrificale: con il suo sangue, versato a favore di Dio Padre, inaugura la Nuova Alleanza, segnata dal perdono definitivo dei peccati.

Il sacrificio cruento di Cristo sulla croce è avvenuto duemila anni fa. In ogni Messa celebrata nel mondo Cristo rinnova quel sacrificio in maniera non cruenta. Il pane e il vino sui quali il sacerdote invoca la discesa dello Spirito (epiclesi) diventano il corpo e il sangue di Cristo, che continua a immolarsi come sacrificio perfetto a favore di Dio Padre. San Pio da Pietralcina ha riferito di poter vedere durante la Messa Cristo che muore e la Madonna che gli sta accanto nell’ora suprema del Golgota.

Lo stesso Santo di Pietralcina ha detto che Dio Padre continua a far sussistere il mondo, nonostante gli innumerevoli peccati degli uomini, che oggi sono diventati peggiori dei diavoli, proprio grazie al Divin sacrificio dell’Altare, che continua a commuovere il cuore di Dio e lo spinge a concedere grazia e prosperità all’intero genere umano.

La manifestazione definitiva di Dio è quella dell’amore. Dio muore in croce per amore! Per questo nei primi tempi del cristianesimo la Messa è detta agapē, “amore” in greco. Siamo salvi grazie alla morte in croce di Cristo. È dal suo fianco squarciato dalla lancia (Giovanni 19), dal quale effondono sangue e acqua, che scaturiscono i sacramenti, che ravvivano ogni uomo. Per questo san Giustino scrive che tutti noi credenti “siamo usciti dal grembo di Cristo”.

È il misterioso incontro tra la grandezza di Dio e la nostra povertà di creature. Incarnazione, morte e risurrezione di Cristo. Giovanni 3, 16:

 

outōs gar ēgapēsen o theòs ton kosmon, ōste ton uion, ton monogenē, edoken

“Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito”

 

Di solito siamo abituati a considerare Dio e il mondo come due entità separate, ma in questa affermazione scultorea, Dio e mondo sono uniti da un abbraccio inscindibile. La Divinità cristiana non è un dio epicureo che vive nel suo ambiente, ma si cala nella realtà fino a fondersi completamente con essa. Il dettato greco è più pregante della traduzione della CEI. Abbiamo il verbo “ha amato”, ēgapēsen (un aoristo, ma l’aoristo nel greco biblico ha spesso valore di perfetto) che indica quanto tale amore continua a riversarsi ancora sugli uomini. Il verbo inoltre posto in maniera enfatica prima del soggetto, ordine che poi potrebbe rispecchiare anche la sintassi ebraica. L’attributo “unigenito”, monogenē, è posto in maniera espressiva dopo il sostantivo “figlio”, uion. Gli studiosi analizzano altresì il verbo edoken, letteralmente “diede”. In Giovanni il verbo paredōken, “consegnò”, ha a che fare con l’invio del Figlio a morire in croce, invece il verbo edoken riguarda tutta la missione di Cristo: dalla incarnazione alla risurrezione. E questo amore di Dio è veramente impensabile in quanto in Giovanni il “mondo”, kosmos, non è semplicemente la dimora degli uomini, bensì una entità malvagia che si oppone strenuamente a Cristo e ai suoi discepoli. Dio non odia coloro che contrastano Cristo fino alla sua messa a morte bensì li ama di un amore senza limiti, che san Francesco di Assisi chiama “eccessivo”. Dio come fa ad amare così fortemente tutti gli uomini, anche i peccatori? Mediante eventi storici, con i quali Dio entra nel mondo. Al riguardo è significativo che qui Giovanni adopera l’indicativo (edoken), il modo della realtà, che è assai raro nella proposizione consecutiva (outōs … ōste), pensiamo solo che nel Nuovo Testamento ricorre solo in Galati 2, 13.

Secondo la rivelazione privata concessa a santa Faustina Kowalska, Cristo si definisce: Re della Misericordia. Il termine “ostia” deriva dal latino e in questa lingua significa “vittima”. Cristo è la vittima pasquale, che si offre a noi nell’Ostia consacrata. Il simbolismo scelto da Cristo nell’Ultima Cena, nella quale istituisce la Santa Eucaristia, è in linea con le coordinate culturali semitiche. Ancora oggi, infatti, gli arabi non tagliano il pane con il coltello come se non volessero “ucciderlo”, quasi fosse una creatura vivente. In ebraico “pane” si dice leḥem, dalla stessa radice semitica è derivata la parola araba luḥma, “carne”. Ricordiamo altresì che in arabo aish significa “vita”, ma nel dialetto arabo egiziano significa “pane”.

È questo amore che permette la creazione e la continua sussistenza del mondo. “L’amore di Dio infonde e crea la bontà nelle cose” (san Tommaso d’Aquino, Somma teologica, I, 20, 2). Anche per questo dalla Santa Eucaristia promanano tutte le grazie divine che giungono agli uomini. Giovanni Paolo II (Ecclesia de Eucharistia 11):

 

“Quando la Chiesa celebra l’Eucaristia, memoriale della morte e risurrezione del suo Signore, questo evento centrale di salvezza è reso realmente presente e «si effettua l’opera della nostra redenzione» (Lumen Gentium 3). Questo sacrificio è talmente decisivo per la salvezza del genere umano che Gesù Cristo l’ha compiuto ed è tornato al Padre soltanto dopo averci lasciato il mezzo per parteciparvi come se vi fossimo stati presenti. Ogni fedele può così prendervi parte e attingerne i frutti inesauribilmente. Questa è la fede, di cui le generazioni cristiane hanno vissuto lungo i secoli. Questa fede il Magistero della Chiesa ha continuamente ribadito con gioiosa gratitudine per l’inestimabile dono. Desidero ancora una volta richiamare questa verità, ponendomi con voi, miei carissimi fratelli e sorelle, in adorazione davanti a questo Mistero: Mistero grande, Mistero di misericordia. Che cosa Gesù poteva fare di più per noi? Davvero, nell’Eucaristia, ci mostra un amore che va fino «all’estremo» (cfr Giovanni 13,1), un amore che non conosce misura”.

 

Esiste un solo Dio, in tre Persone uguali e distinte: Padre, Figlio (Cristo) e Spirito Santo. Esiste un’unica Divinità ma che in sé è una comunione di amore, una relazione continua di donazione. È un mistero insondabile come sia possibile che Dio sia allo stesso tempo uno e trino e come sia possibile che le tre Persone agiscano sempre intimamente unite pur nella propria individualità personale. Il Padre è il creatore, il Figlio è il redentore, lo Spirito Santo è il rapporto di amore che intercorre all’interno della Trinità.

Dio è in sé amore (1Giovanni 4, 8) e vuole estendere questo amore anche a ogni singolo uomo. Nella incarnazione di Cristo avviene la elevazione della natura umana a dignità divina, mistero perfezionato nella risurrezione di Cristo e nella sua ascensione al Cielo. Tutto questo si rinnova nella Santa Messa: Cristo nasce nel pane e nel vino consacrati, lì muore nell’atto del pane spezzato e del vino versato, quindi risorge e ascende al Cielo. È verità di fede che nella Eucaristia vi è la presenza vera e reale del corpo risorto di Cristo. In che senso?

Ogni battezzato già adesso partecipa in Cristo della risurrezione spirituale, ma dopo la fine del mondo anche il corpo di ogni salvato risorgerà di gloria immortale. Le anime che tuttora sono in paradiso vivono la gioia dei beati ma non sono complete nella beatitudine: aspettano la risurrezione dei corpi per godere definitivamente della vittoria sul male e sulla morte. Il corpo risorto sarà un vero corpo ma con poteri eccezionali, non più soggetto a sofferenza, morte e svincolato dai limiti del tempo e dello spazio. Fino alla fine del mondo, tempo nel quale risorgeranno tutti i salvati a una risurrezione di gloria, sono risorti nel corpo solo Cristo e la Vergine Maria, cioè sua Madre.

Ebbene, nella Eucaristia vi è il corpo e il sangue, l’anima e la divinità di Cristo risorto, che, svincolato da ogni legge di tempo e spazio, può risiedere nella sua interezza in ogni Ostia del mondo. I mistici riferiscono che vi sia il suo Cuore risorto. Il pane e il vino conservano unicamente le apparenze (le specie, gli accidenti), invece nella sostanza sono Cristo stesso.

Lo scopo ultimo della Eucaristia è quello di trasformare il battezzato in Cristo. Dato che Cristo è Dio, ogni battezzato diventerà nientemeno che Dio quando sarà salvato definitivamente nei Cieli. Ma la salvezza riguarda anche il tempo presente (tema della escatologia già realizzata sulla terra). Sono soprattutto le chiese orientali a insistere sul mistero della divinizzazione dell’uomo.

L’unico Figlio di Dio è Cristo, cioè Dio da Dio Luce da Luce, i battezzati sono figli adottivi di Dio, ma per questo come Cristo eredi del regno, quindi destinati ad essere come Dio. 1Giovanni 3, 1-3:

 

“Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che, quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro”.

 

La dottrina cristiana insegna che, alla fine del mondo, anche i dannati risorgeranno con il corpo, ma a una risurrezione di condanna, per patire anche con la carne nell’inferno, preparato sin dall’inizio dei tempi per gli angeli ribelli e chi li segue.

La realtà dell’inferno non nega l’amore di Dio verso ogni uomo in quanto l’uomo è libero di scegliere tra bene e male e la vita sulla terra sta nel perfezionare questa scelta: Dio prende terribilmente sul serio la libertà dell’uomo, il quale può decidere volontariamente di opporsi fino alla fine al progetto di amore di Dio e quindi di meritarsi l’inferno eterno.

La Madonna piange lacrime di sangue per via dei suoi figli che si perdono eternamente. Ma Dio non solo è amore infinito è anche giustizia infinita. Egli non vuole mandare nessuno all’inferno, sono gli uomini che decidono di andarci.

La Beata Speranza di Gesù ha queste parole veramente illuminanti:

 

“Padre è il titolo che conviene a Dio, perché a Lui dobbiamo quanto è in noi nell’ordine della natura e in quello soprannaturale della grazia che ci fa suoi figli adottivi. Vuole che lo chiamiamo Padre perché, come figli, lo amiamo, gli obbediamo e lo onoriamo, e per ravvivare in noi l’amore e la fiducia di ottenere quanto gli domandiamo”.

 

Le divinità indiane sono sempre sia benevole sia terribili, in tutto l’induismo hanno avuto e hanno tuttora questo duplice aspetto, sin dagli inizi. Il dio vedico Rudra è definito sia shiva (buono) sia ghora (terribile).

Invece la rivelazione definitiva di Dio avvenuta nel cristianesimo pone l’accento sulla mia bontà, ma senza cancellarne la giustizia. Luca 6, 35-36:

 

“Ma amate i vostri nemici, fate del bene, prestate senza sperarne nulla, e il vostro premio sarà grande e sarete figli dell’Altissimo; poiché egli è buono verso gli ingrati e i malvagi. Siate misericordiosi come è misericordioso {anche} il Padre vostro”.

 

Ma il peccato dell’uomo è una realtà terrificante. Ci sono uomini che scelgono con tutte le forze di opporsi in ogni maniera al progetto divino di un mondo di amore. I santi dicono che il peccato dell’uomo fa spavento se guardato con occhi limpidi.

Dio concede il perdono ad ogni essere umano che si pente della condotta malvagia. E prima ancora lo va a cercare come il pastore cerca la pecorella smarrita. Il filosofo tedesco Nietzsche scrive: “Anche Dio ha il suo inferno: è il suo amore per gli uomini”.

In Isaia 60, 1-8 è scritto che una tenebra fitta ricopre la terra e la luce vera è la manifestazione che Dio ha concesso a Sion, per poi essere perfezionata dal suo erede, che è il cristianesimo:

 

“Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce,

la gloria del Signore brilla sopra di te.

Poiché, ecco, le tenebre ricoprono la terra,

nebbia fitta avvolge le nazioni;

ma su di te risplende il Signore,

la sua gloria appare su di te.

Cammineranno i popoli alla tua luce,

i re allo splendore del tuo sorgere.

Alza gli occhi intorno e guarda:

tutti costoro si sono radunati, vengono a te.

I tuoi figli vengono da lontano,

le tue figlie sono portate in braccio.

A quella vista sarai raggiante,

palpiterà e si dilaterà il tuo cuore,

perché le ricchezze del mare si riverseranno su di te,

verranno a te i beni dei popoli.

Uno stuolo di cammelli ti invaderà,

dromedari di Madian e di Efa,

tutti verranno da Saba, portando oro e incenso

e proclamando le glorie del Signore.

Tutti i greggi di Kedàr si raduneranno da te,

i montoni dei Nabatei saranno a tuo servizio,

saliranno come offerta gradita sul mio altare;

renderò splendido il tempio della mia gloria.

Chi sono quelle che volano come nubi

e come colombe verso le loro colombaie?”.

 

In questo brano del profeta Isaia la Gloria di Dio “sorge” o “spunta” (in ebraico zaraḥ), cioè, fa come il sole (unica attestazione in tutto l’Antico Testamento), che illumina non solo Gerusalemme ma tutta la terra. Infatti “tutte le genti” verranno in Sion per essere rischiarate. Isaia ha qui un afflato universalistico, ripreso compiutamente dal cristianesimo, che si rivolge a tutti i popoli e non solo agli ebrei.

È il cristianesimo la voce definitiva di Dio, il quale, mediante la sua ultima manifestazione, intende mostrarsi come una tenera madre che ama le sue creature, nei cui confronti nutre “misericordia”, in ebraico rachamim, un plurale che indica letteralmente le “viscere materne”. Anche qui Isaia vede Dio nella sua Gloria che accoglie i figli dispersi come una madre. Ma Dio è anche la sposa di Sion. Infatti, la croce di Cristo è, come dice la liturgia cattolica, “trono, talamo e altare”.

La tradizione cristiana vede in questo passo di Isaia la profezia che riguarda Cristo, che si definisce in Giovanni “luce del mondo”. È Cristo la luce vera che illumina ogni uomo! Compaiono anche i doni materiali, come quando i vassalli orientali portano al sovrano degli omaggi, che richiamano quelli dei Magi offerti a Cristo. L’oro di cui parla qui Isaia serve a quel tempo per preparare i vasi sacri da usare nel culto, mentre l’incenso è adoperato nelle cerimonie templari.

Nelle battute finali, con una immagine molto poetica e ardita, gli animali salgono spontaneamente al Tempio e si offrono volontariamente al sacrifico, esattamente come fa Cristo per amore.

È vero che esiste un solo Dio, che per alcuni si manifesterebbe in tutte le religioni, mentre per altri le religioni non cristiane non sarebbero tali, ma unicamente tentativi umani di approcciarsi al divino. In ogni modo, a Dio sono sottomessi degli angeli, esseri spirituali potentissimi, che a volte nelle varie religioni e nei vari culti sono venerati come la Divinità, fino a confondersi con essa. Sono ciò che l’Antico Testamento chiama Baal cananei, preesistenti alla diffusione dell’ebraismo.

In Esodo 20, 3 il primo comandamento è:

 

lo yihyeh leḵa ‘Elohim ‘aḥerim ‘al panaya, che la CEI traduce così: “Non avrai altri dei di fronte a me”.

 

Questo passo dell’Esodo chiama “dei” (‘Elohim, un plurale maschile) anche altre entità spirituali, ma inferiori all’unico Dio, che è YHWH. La sintassi di tale proposizione ebraica è di per sé indefinita e indica possesso. Il testo originale vuole quindi suggerire che non ci devono essere per il popolo eletto altri dei: “altri” (‘aḥerim) suggerisce che il testo non sta parlando di un Dio rivale rispetto a YHWH, a lui pari, bensì di entità generiche, probabilmente la corte degli angeli.

Il sintagma ebraico ‘al panaya, che la CEI rende “di fronte a me”, va inteso letteralmente “davanti al mio volto” ed è da assumere in senso cultuale. Gli esseri spirituali, tra cui Satana, compaiono “davanti al volto di Dio” nel consiglio divino all’apertura del libro di Giobbe (Giobbe 1, 12). Anche gli uomini nel culto compaiono davanti al volto di Dio, infatti in Isaia 1, 12 Dio dice “quando venite a presentarvi a me (davanti al mio volto) … ”.

Pertanto il brano in questione esprime che ci siano altre entità, angeliche, che desiderano essere adorate al posto di Dio (monoteismo) oppure altre divinità vere e proprie che intendono  essere adorate al posto dell’unico grande Dio, solo al quale deve essere tributato il culto (monolatria).

In ogni modo Dio proibisce categoricamente che il popolo eletto, da Dio scelto “separandolo” dal resto dell’umanità, tributi culto a tutte queste.

Perché? Alla luce della manifestazione avvenuta nel Nuovo Testamento, possiamo dire che solo Cristo è il Salvatore del mondo, quindi è giusto adorare solo quest’ultimo.

Solo Gesù Cristo è l’Agnello immolato, che sta al centro della Gerusalemme celeste dell’Apocalisse, in quanto Egli, il Figlio di Dio, ha dato la vita in riscatto della vita dei suoi.

Cosa è il cristianesimo in sostanza? È un atto di amore. Dio crea per amore gli uomini e ogni altra creatura, per amore muore in croce per la loro salvezza. Pertanto, risponde a giustizia celebrare unicamente un Dio talmente buono.

Santa Caterina da Siena dice che, conoscendo un Dio così misericordioso e tenero, ogni uomo riuscirebbe ad amarlo a sua volta. Sant’Agostino afferma che Dio prima di essere amato deve essere conosciuto.

Gli angeli e i santi non sono “adorati” ma “venerati”, la distinzione è assai antica in seno al cristianesimo, risale a Sant’Ignazio di Antiochia. Anche nella vita civile si venera in qualche modo un superiore offrendo omaggi e manifestando deferenza con dei segni. Nelle cerimonie pubbliche si venerano i caduti ponendo corone di alloro ai piedi del monumento. In maniera analoga, nel piano religioso, si esprime rispetto e si chiede l’aiuto degli angeli, specie dell’angelo custode, nonché dei santi, soprattutto la Santa Madre di Dio Maria, la creatura più perfetta che esista. San Grignion de Montfort (Trattato della vera devozione a Maria, 28) così scrive: Maria “è tutta trasformata in Dio per la grazia e la gloria che trasforma tutti i santi in lui”. Gaudium et Spes 22: “Cristo è morto per tutti e la vocazione ultima dell’uomo è effettivamente una sola, quella divina, dobbiamo perciò ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di essere consociato, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale di Cristo”.

La bolla papale Dominici gregis (1603) di Gregorio VIII prevede nella devozione a Maria il fondamento della Chiesa. Paolo VI ha detto che non si può essere cristiani se non mariani. Questo perché per Maria passano tutte le grazie che Dio concede agli uomini: è invocata come Mediatrice. Maria è Madre sia di Dio sia della Chiesa, che è il corpo mistico di Cristo. Per questo c’è una forte somiglianza tra Maria e la Chiesa. Il Beato Isacco della Stella scrive: “Entrambe sono madri, entrambe sono vergini, entrambe concepiscono non per desiderio carnale ma per opera dello Spirito Santo”. Inoltre Paolo VI (Marialis Cultus 16) ricorda che Maria è:

 

“modello dell’atteggiamento spirituale con cui la Chiesa celebra e vive i divini misteri. L’esemplarità della Beata Vergine in questo campo deriva dal fatto che ella è riconosciuta eccellentissimo modello della Chiesa nell’ordine della fede, della carità e della perfetta unione con Cristo, cioè di quella disposizione interiore con cui la Chiesa, sposa amatissima, strettamente associata al suo Signore, lo invoca e, per mezzo di lui, rende il culto all’eterno Padre”.

 

Lo stesso Paolo VI in questa esortazione apostolica prevede che la devozione a Maria debba condurre alla liturgia della Chiesa, cioè la devozione a Maria deve portare a Cristo, diffuso dalla Chiesa nei sacramenti. Non solo, ma Pio XII (Fulgens Corona II) scrive:

 

“Ma perché la pietà non rimanga vuota parola, né diventi immagine fallace della religione, né sentimento debole e caduco di un istante, ma sia sincera, vera, efficace, essa deve indubbiamente sospingere noi tutti, secondo la condizione di ciascuno, al raggiungimento della virtù. È necessario anzitutto che essa sproni noi tutti a quell’innocenza e integrità di costumi, che rifugge e aborre anche dalla più piccola macchia di peccato”.

 

È inoltre verità di fede che esistono gli angeli. Gli angeli cantano le lodi di Dio, sono i suoi messaggeri, nonché potenti esecutori della sua volontà. Come Gabriele, che annuncia a Maria la nascita di Cristo in lei per opera dello Spirito Santo. San Crisostomo ha avuto una visione: durante la Consacrazione della Messa i Cieli si squarciano e attorno al sacerdote arrivano miriadi di angeli. Ma va “adorato” unicamente Dio: Padre, Figlio e Spirito Santo. È a Dio che deve andare il culto (“adorazione”).

Tutti noi poi abbiamo un angelo custode, donatoci da Dio per le necessità materiali e spirituali, dopo la morte sarà lui ad accompagnarci in Cielo. Salmo 91, 11: “Egli comanderà ai suoi angeli di proteggerti in tutte le tue vie”. La chiesa ortodossa serba questa stupenda preghiera all’angelo custode:

 

“Angelo di Cristo,

mio santo Guardiano e Protettore

della mia anima e del mio cuore,

perdonami

per tutte le mancanze

che ho commesso in questo giorno

e liberami

dalla malizia del Nemico

che si oppone a Dio

affinché io non lo offenda

con nessun peccato.

Prega per me,

peccatore e servo indegno,

per rendermi degno

della misericordia

e della grazia

della Santa Trinità,

della Madre

di Nostro Signore Gesù Cristo

e di tutti i Santi.

Amen”.

 

Dio non gradisce che il suo popolo si rivolga nel culto a entità straniere: è questo il grande peccato di Israele, la sua “infedeltà”. L’idolatria è una piaga che percorre tutta la storia della salvezza. Ma Dio non si dimenticherà mai del suo popolo, verso il quale nutre “amore eterno”, ‘ahabat ‘olam (Geremia 31, 3).

In Isaia 30, 18-26 leggiamo queste parole confortanti:

 

“Eppure il Signore aspetta per farvi grazia, per questo sorge per aver pietà di voi, perché un Dio giusto è il Signore; beati coloro che sperano in lui! Popolo di Sion che abiti in Gerusalemme, tu non dovrai più piangere; a un tuo grido di supplica ti farà grazia; appena udrà, ti darà risposta. Anche se il Signore ti darà il pane dell’afflizione e l’acqua della tribolazione, tuttavia non si terrà più nascosto il tuo maestro; i tuoi occhi vedranno il tuo maestro, i tuoi orecchi sentiranno questa parola dietro di te: «Questa è la strada, percorretela», caso mai andiate a destra o a sinistra. Considererai cose immonde le tue immagini ricoperte d’argento; i tuoi idoli rivestiti d’oro getterai via come un oggetto immondo. «Fuori!» tu dirai loro. Allora egli concederà la pioggia per il seme che avrai seminato nel terreno; il pane, prodotto della terra, sarà abbondante e sostanzioso; in quel giorno il tuo bestiame pascolerà su un vasto prato. I buoi e gli asini che lavorano la terra mangeranno biada saporita, ventilata con la pala e con il vaglio. Su ogni monte e su ogni colle elevato, scorreranno canali e torrenti d’acqua nel giorno della grande strage, quando cadranno le torri. La luce della luna sarà come la luce del sole e la luce del sole sarà sette volte di più, quando il Signore curerà la piaga del suo popolo e guarirà le lividure prodotte dalle sue percosse”.

 

“… Non si terrà più nascosto il tuo maestro”: il termine ebraico che la CEI traduce con “maestro”, secondo il significato dell’ebraico postbiblico, è moreh, per esempio nei testi di Qumran abbiamo l’espressione “maestro di giustizia”. Invece, secondo un senso più genuinamente classico, il termine moreh vuol dire “pioggia autunnale”, l’unico documentato biblicamente (cfr. Gioele 2, 23: “Voi, figli di Sion, gioite, rallegratevi nel Signore, vostro Dio, perché vi dà la pioggia d’autunno in giusta misura, e fa scendere per voi la pioggia, quella d’autunno e quella di primavera, come prima”). Pertanto, nonostante la Vulgata traduca con “il tuo maestro” (praeceptorem tuum), è meglio intendere “… non ti saranno più tolte le piogge e i tuoi occhi le vedranno”.

Se si intende il termine ebraico come “maestro”, probabilmente Isaia sta istituendo un riferimento al Messia. Dio punisce i peccati degli uomini, ma, dato che essi si sono pentiti, non toglierà loro la salvezza, offerta dal Messia che dovrà venire.

Se si intende il termine moreh come “pioggia autunnale”, allora Isaia vuol dire che Dio punisce i peccati, ma Israele si è pentito quindi Dio continuerà a elargire i benefici, anche in sovrabbondanza, come le piogge per i raccolti. Corrobora questa seconda lettura il fatto che nel testo il sostantivo ebraico è al plurale. Se si riferisce al Messia, pare strano un plurale. Ma Isaia potrebbe riferirsi ai “maestri” del popolo di Israele, cioè le sue guide, i profeti, i sacerdoti. In ogni modo, nel testo di Isaia, qualche versetto dopo, compare di nuovo il riferimento alla pioggia.

Isaia potrebbe anche intendere Dio quale “maestro”, del resto il termine moreh condivide la radice con la parola Torah, l’“insegnamento” di Dio per eccellenza, che in greco viene tradotto anche nomos, “legge”, in quanto comprensivo pure di precetti legali. A questo punto il plurale “maestri” sarebbe un intensivo della figura di Dio, così come il plurale ‘Elohim, oltre a indicare “dei”, può riferirsi nella Bibbia anche al Dio unico di Israele. Del resto, Isaia in 2,3 e in 28, 26 descrive l’agire di Dio come un “ammaestrare”. Presso i cananei il titolo di “maestro” è conferito alla divinità che concede oracoli. Tuttavia Dio come “maestro” sarebbe l’unica attestazione nella Bibbia.

Per quanto riguarda l’etimologia di moreh, bisogna essere più precisi. La pioggia autunnale è chiamata nella Bibbia anche joreh (cfr. Deuteronomio 11, 14). Gli studiosi fanno derivare moreh e joreh da una stessa radice ebraica che è jrh, la quale significa in primo luogo “piovere, bagnare” ma in altri contesti può veicolare persino le idee di “gettare” e di “insegnare”. C’è una tradizione giudaica per la quale la pioggia autunnale è detta Maestra, in quanto “insegna” (more) agli uomini a immagazzinare in casa i loro frutti.

 

Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia con formazione accreditata. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe con varie Case Editrici 56 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli. Da anni è collaboratore culturale di riviste cartacee, riviste digitali, importanti siti web.

 

 

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