8 Giugno 2025
Storia delle Religioni

La liberazione – Marco Calzoli

 

Il buddhismo nasce nel VI secolo a.C. nel nord dell’India per via della predicazione del principe induista Gautama, il quale si ritirò dal mondo e iniziò a fare vita ascetica fino a che non ottenne la liberazione (nirvāṇa).

Il termine sanscrito nirvāṇa è formato dal prefisso negativo nir- + vā, “soffiare, respirare” (detto del vento), quindi la parola vuole indicare la cessazione del soffio. In che senso? Nirvāṇa è sinonimo di nirodha, altra parola sanscrita, che significa “estinzione”. Nel buddhismo più antico l’estinzione non è la morte o l’annullamento dopo la morte, come vuole una vulgata occidentale, bensì la cessazione del desiderio. Il desiderio (kama) è la causa della sofferenza presente e ciò che trattiene una persona in questa vita spingendola poi a rinascere.

Lo scopo ultimo del buddhismo è quello di interrompere il ciclo delle vite (samsāra). Per far questo occorre, in questa dimensione, cessare il desiderio. Chi ha estinto il kama, ha ottenuto una visione totale della vita e, quando morirà, non rinascerà mai più, penetrando in una dimensione di superiore eterna beatitudine. Per questo il principe Gautama, quando ottenne il nirvāṇa, continuò ad esistere qui e ad ammaestrare i discepoli. Quando morì, non fece più ritorno sulla terra né ebbe altre vite.

Pertanto, per il buddhismo il Male altro non è che una azione carica di desiderio, di ignoranza e, quindi, di malvagità. Ogni azione è come una goccia che si accumula la quale, alla fine della vita, determinerà il destino futuro. Chi fa azioni malvage profonderà dopo la morte negli inferi oppure di nuovo nell’utero di una donna. Chi compie azioni buone andrà dopo la morte in un paradiso (svarga) trasformandosi in una sorta di divinità oppure otterrà il pari-nirvāṇa, quello “definitivo”, cioè la eterna beatitudine nel “vuoto”, che non è il nulla, il niente, la morte eterna, ma una sorta di potenzialità insita in tutte le cose, una condizione di assoluta felicità.

Per l’autentico insegnamento buddhista anche rinascere in un paradiso non è la cosa migliore in assoluto che possa accadere. Persino le dimensioni superiori si situano a livello della illusione e coloro che vi accedono rinasceranno poi in dimensioni inferiori. Allora lo scopo ultimo di una vita è quello di ottenere il nirvāṇa e non il paradiso.

Per il buddhismo non conta l’atto in sé ma quello dotato di intenzione (cetanā). Una qualsiasi azione in sé non produce il karma, cioè il demerito o il demerito che spinge a rinascere male o bene: è l’intenzione che produce il karma. Ogni azione, anche quelle che a noi sembrano ininfluenti, lascia una traccia karmica, un residuo (vāsāna) che equivale a una energia potenziale. Le azioni buone fanno accumulare karma positivo (che spinge a rinascere bene), le malvage karma negativo (che fa rinascere male). Ma solo se si è intenzione rispettivamente positiva o negativa.

Nondimeno lo scopo del buddhismo non è quello, nell’aldilà, di evitare castighi o ottenere il paradiso, ma quello di liberarsi dal ciclo delle rinascite (nirvāṇa). Le azioni buone aiutano lungo la via della liberazione ma non sono queste il culmine dell’opera. Il culmine dell’asceta è costituito dalla “conoscenza” (prajnā) superiore della via che porta alla liberazione.

Bisogna dire che nel buddhismo ci sono differenti tradizioni, oggi le più diffuse sono Hinayana e Mahayana (poi abbiamo Vajrayana e Zen). Per il buddhismo Mahayana questa conoscenza superiore sta nella meditazione sulla “vacuità” (shūnyatā) di tutto quanto esiste. Tutto sarebbe illusione, ma non “nulla” in senso assoluto, bensì “vuoto”. Ogni forma e ogni aspetto della vita non esistono in sé, ma poggiano su un eterno “vuoto”. Chi medita assiduamente sulla vacuità, ottiene la liberazione. La quale non deriva direttamente dalla meditazione come effetto di una causa: infatti il nirvāṇa è “incondizionato” (asamskṛta), cioè si raggiunge non con una certa pratica, che però aiuta, bensì spontaneamente.

Le buone azioni incoraggiano lungo la via della liberazione ma è sbagliato avere intenzione di fare buone azioni con lo scopo di rinascere in un paradiso o comunque di non cadere negli inferni. Il buddhismo insegna che bisogna trascendere ogni tipo di desiderio, anche quello buono, con lo scopo di interrompere il ciclo delle rinascite.

Per questo nel Dhammapada (412),il testo più noto del buddhismo Hinayana, è scritto:

 

“Il vero brahmana è colui che, in questo mondo, ha trasceso sia i legami buoni che quelli cattivi”.

 

Tuttavia, il buddhismo non ha espresso, nella fase più autentica, una verità relativa per la quale bene e male sono sullo stesso piano, però lo farà in seguito lo Zen. Per lo Zen il nirvāṇa (detto in giapponese satori) non si consegue perché c’è da sempre, quindi qualsiasi cosa si faccia, nel bene e nel male, è allo stesso modo giusta. I “10 Tori” del maestro Zen Kakuan (1100-1200) presentano la Via in 10 tappe successive, quindi nel Decimo Toro, quello finale, Kakuan commenta:

 

“Dentro la mia porta, mille saggi non mi conoscono. La bellezza del mio giardino è invisibile. Perché si dovrebbero cercare le orme dei patriarchi? Io vado al mercato con la mia bottiglia di vino e torno a casa con il mio bastone. Visito la bettola e il mercato, e chiunque io guardi diventa illuminato”.

 

Invece alcuni insegnamenti antichi del buddhismo danno molta importanza alle buone azioni: l’ “azione virtuosa” (sīla) compare nei sei Pāramitā:

 

  • generosità (dāna);
  • moralità (sīla);
  • pazienza (ksānti);
  • impegno entusiastico (vīrya);
  • meditazione (dhyāna);
  • conoscenza superiore (prajnā).

Non c’è per il buddhismo liberazione senza vita morale, ma la vita morale in sé non è sufficiente alla liberazione, al massimo essa ottiene un paradiso dopo la morte.

Nel secondo libro del Milindapañha, la più famosa delle opere paracanoniche del buddhismo, è scritto:

 

“Così come un ingegnere, quando vuole fondare una città, prima libera il luogo in cui verrà costruita, fa asportare i ceppi degli alberi e i cespugli spinosi, livella il suolo e, dopo aver ripartito le strade, gli incroci, le piazze e via dicendo, infine costruisce la città, allo stesso modo chi pratica la via del nirvāṇa, grazie alla moralità e basandosi sulla moralità, consegue le cinque facoltà spirituali: fede, energia, consapevolezza, concentrazione meditativa e saggezza”.

 

        Solo nell’esistenza umana si può raggiungere la liberazione. Andare in un paradiso trasformati in divinità è semplicemente una illusione che frena lungo il sentiero mediante il piacere della beatitudine. Le divinità non possono ottenere la liberazione se non incarnandosi di nuovo in una esistenza umana.

        Inoltre, precisiamo il concetto di inferi. Per il buddhismo nulla è permanente, un grande insegnamento è detto anicca, “impermanenza”. Sono più che altro purgatori, hanno cioè un termine. Secondo il buddhismo Mahayana tutti gli esseri senzienti alla fine raggiungeranno il nirvāṇa.

         Il Buddha storico (principe Gautama) apparteneva alla casta induista dei guerrieri. Secondo una interpretazione, egli fece due critiche capitali all’induismo, considerata la religione più antica dell’umanità:

  • per l’induismo l’anima individuale (ātman) coincide con l’Assoluto (Brahman), quindi la liberazione consiste nel lasciare le illusioni della vita presente e nell’identificarci con il Brahman. Invece il buddhismo si fece portavoce del concetto di anatta (a privativo + ātman), cioè assenza di anima individuale, che non esisterebbe in quanto ogni cosa che pare esserci è in realtà “vuoto”;
  • l’induismo si basa tuttora su quattro caste (brahmani, guerrieri, artigiani, servitori), ma il buddhismo si estraniò dal sistema castale, non considerandolo valido in vista della liberazione. È che il buddhismo iniziò a diffondersi in un periodo storico nel quale in India l’organizzazione sociale stava passando dal villaggio alla città, quindi con un controllo sempre minore degli induisti sulla vita delle persone, cosa che avrebbe allentato il sistema castale.

 

Anche per l’induismo il desiderio porta a rinascere, andando contro lo scopo dell’esistenza, che sarebbe la liberazione (mokṣa, nirvāṇa), ma non come entrata nel “vuoto” bensì come coscienza assoluta e divinizzata nella identificazione nientemeno che con l’Assoluto, che può considerarsi Dio.

Nel Rg-Veda, il più antico dei Veda, i testi sacri dell’induismo, è scritto in metro triṣṭup (10.129.4):

 

kāmas tad agre sam avartatādhi manaso retaḥ prathamaṃ yad āsīt | sato bandhum asati nir avindan hṛdi pratīṣyā kavayo manīṣā ||

 

“In principio c’era il desiderio, che era il primo seme della mente; i saggi che hanno meditato nei loro cuori hanno scoperto con la loro saggezza la connessione dell’esistente con il non esistente”.

          Gli stadi della vita degli appartenenti alle prime tre caste sono quattro nell’induismo. Si tratta di una codificazione della vita dell’uomo come un tentativo brahmanico di controllo.

     Dopo la upanayana (cerimonia di iniziazione), vi è:

 

  • BRAHMACHARIN: studente in servizio presso un guru, rigorosa castità

 

  • GRHASHTA: in seguito capofamiglia

 

  • VANAPRASHTA: dopo anni di matrimonio nella vita civile, abbandona la casa e con la moglie va nella foresta, diventa guru e si dedica alla meditazione sui testi sacri, cioè gli  Āranyaka
  • SANNYASIN: stadio non obbligatorio, esasperazione del precedente, colui che raggiungeva questo stadio viveva come eremita mendicante dedito allo studio dei testi sacri e alle pratiche ascetiche.

 

       L’ultimo stadio è visto come un abbandono quasi assoluto del mondo delle illusioni per avvicinarsi ancora più al Brahman. Precisamente è nelle Upanishad che emerge la concezione induista di identità di anima individuale e Brahman.

       Brahman è un termine sanscrito che significa originariamente preghiera o formula magica, ed è considerato, nella concezione sacerdotale, un principio impersonale capace di intervenire sulla realtà stessa; è quindi un principio creativo, causa di ogni esistenza. Deriva dalla radice sanscrita bṛh, “forza”.

           Così il Ṛg-Veda recita in metro virāṭtrisṭup (1.164.35):

 

iyaṃ vediḥ paro antaḥ pṛthivyā ayaṃ yajño bhuvanasya nābhiḥ | ayaṃ somo vṛṣṇo aśvasya reto brahmāyaṃ vācaḥ paramaṃ vyoma ||

 

“L’altare è l’ultimo limite della terra;

questo sacrificio compiuto da noi è il centro del mondo;

Soma è il seme prolifico, essenza di virilità;

la nostra preghiera è il cielo più alto dove abita la Parola”.

 

        Compare in questo splendido śloka la parola sanscrita brahmāyaṃ: è formata da Brahman + ayam (< idam), letteralmente vuol dire “questo Brahman”. Qui il testo rimanda a Brahman come preghiera o formula magica.

       Invece il termine ātman indica etimologicamente il soffio, il vento, da cui il greco anemos, “vento” e il latino anima. L’ātman è la essenza spirituale dell’individuo, quindi si differenzia da:

 

  • L’io mortale (aham);
  • La mente emozionale (citta);
  • L’uomo nel corpo (prakṛti).

 

        Nelle Upanishad la teorizzazione della l’identità di ātman e Brahman sfocia nella concezione gnostica dell’esistenza del mondo solo in quanto l’individuo ne è cosciente. Ne scaturisce l’esaltazione della conoscenza e il disprezzo del mondo fenomenico.

           Uno dei testi più cari alla tradizione dell’induismo è la Bhagavadgita, la quale usa la parola sanscrita yoga non più per indicare una pratica appannaggio degli asceti (meditazione estrema volta al raggiungimento della liberazione) bensì un patrimonio comune a tutti gli uomini, che consiste nella retta azione. La retta azione è quella senza desiderio, vale a dire senza attaccamento alle cose di questo mondo, e anche quel modo di agire dettato dal dharma, inteso come inclinazione specifica della natura di ognuno. In 18.47 è scritto:

 

śhreyān swa-dharmo viguṇaḥ para-dharmāt sv-anuṣhṭhitāt

svabhāva-niyataṁ karma kurvan nāpnoti kilbiṣham

“Meglio il nostro dharma benché imperfetto, che il dharma altrui ben adempiuto. Colui che compie le opere prescrittegli dalla sua propria natura, non incorre in peccati”.

 

Nella Bhagavadgita (4.13) è scritta in perfetto sanscrito la parola del dio Creatore, Kṛṣṇa:

 

chātur-varṇyaṁ mayā sṛiṣhṭaṁ guṇa-karma-vibhāgaśhaḥ

tasya kartāram api māṁ viddhyakartāram avyayam

“Ho creato le quattro caste della società umana sulla base delle tre influenze della natura materiale e delle attività ad esse collegate; sappi però che sebbene io sia il creatore di questo sistema, non agisco all’interno di esso perché sono immutabile”.

       Dio ci sta avvisando che la società umana, come le altre che vivono in questo mondo, pensiamo alle api o ai lupi, ha dei canoni prestabiliti. È un punto fondamentale: nell’universo c’è un ordine e le persone hanno ruoli in questo ordine per esprimere le loro potenzialità.

         Le coordinate per la vita sociale di un essere umano sono rappresentate da guṇa (influenza della natura materiale) e karma (attività). Guṇa ha molti significati, tra cui qualità, quindi tendenza caratteriale, propensione, qui vuol dire una natura umana che sta alla base di una specifica azione della vita sociale. Pertanto le quattro caste sono sì create da Dio, hanno un archetipo fisso, ma sono influenzate dal carattere delle singole persone e dalla azione, anche passata, dipendente da vite precedenti, che spingono a fare esperienza in questo mondo in maniera assai diversificata. Quindi per l’induismo il sistema sociale ha un aspetto archetipico, voluto dalla volontà divina, ma dipende anche dalla legge del karma: persone che hanno accumulato demeriti nelle vite passate si comporteranno in una maniera specifica, incarnandosi in caste inferiori, al contrario di coloro che hanno prima accumulato meriti.

        Il sistema delle caste serve ad accumulare meriti: gli appartenenti devono comportarsi in maniera virtuosa seguendo la propria inclinazione naturale così da inserirsi nell’ordine universale voluto da Dio. In questa maniera potranno sperare, in una vita futura, in una incarnazione in una casta migliore e via via fino alla liberazione.

        Kartāram, “autore”, “creatore”, dalla radice sanscrita kṛ, “fare, creare”, donde il latino creāre. È Dio l’autore delle caste quindi Dio persegue scopi volti alla nostra realizzazione, cioè a far sì che ci allontaniamo dalla illusione (māyā) e ci reintegriamo in Lui. Il termine sanscrito in questione condivide la radice con karman, “azione”, “attività”, quindi il testo riportato gioca dicendo che Dio è l’autore anche delle azioni passate di un individuo. Dio influenza anche il tempo e il passato e in questo si vede la sua autorità su tutta la creazione. Ma anche l’uomo è responsabile della propria vita, quindi questi deve comportarsi in maniera virtuosa per accumulare karma positivo al fine della liberazione.

        Dio è “immutabile”, quindi non gli è necessario il sistema castale, ma è necessario all’uomo per liberarsi. Allora Dio si adatta a tale necessità umana e aiuta le persone a raggiungere la beatitudine eterna. Agendo in questo sistema divino l’uomo può innalzarsi in un altro mondo, che è uno stato di coscienza superiore, libera cioè dalla zavorra delle illusioni.

         È nota la critica di Hegel alla società induista. Il grande filosofo idealista europeo non poteva accettare l’India senza quelle dinamiche di progresso che caratterizzano la storia europea (vd. Rivoluzione francese); un popolo sostanzialmente statico, “acerbamente primordiale” e introiettato nella propria “embrionalità” mitica, un popolo cioè convinto della sostanzialità della propria fede secondo cui tutto è emanazione della sostanza ultima, Dio, a discapito delle identità singole che anzi tentano di sottomettere o sospendere yogicamente la propria singolarità per autoidentificarsi con il Brahman: non v’è dialettica, nel pensiero indiano secondo Hegel, tra l’uno e i molti, bensì il finito si perde nell’infinito senza “sintesi” e ciò porta al conseguente flusso rampante dei caotici dettagli mitologici e iconografici hindu, una Phantasiereligion.

          È questo il nocciolo, tuttavia, della sistema castale. Le caste sono emanazione del divino, quindi hanno uno scopo ultimo che gli esseri umani non possono cambiare. L’autorità divina non si discute. Nella perdita della propria singolarità in Dio Hegel vedeva qualcosa di negativo, in realtà è questo il genio indiano: tutto è Dio e l’uomo stesso è Dio! la liberazione altro non è, per gli induisti, che scoprirsi Dio dopo vite di illusioni, in cui ci si credeva “duali”.

         La tradizione vedica era legata strettamente alle cerchie sacerdotali brahmaniche che, depositarie della Verità, tale poiché “udita”, occupavano il vertice della gerarchia sociale indiana con l’aiuto della casta dei guerrieri, a loro volta oggetto-soggetto del potere in quanto mantenitori del potere sacerdotale ma da questo autorizzati. In sanscrito “verità” si dice satya, da sat, “ciò che è”, participio presente del verbo essere. La Verità, quindi, è lo status quo, di cui i sacerdoti sono per ordine divino i garanti e i depositari. In questo senso la liberazione non può essere un allontanamento verso terre nuove ma un ritorno alle origini, cioè a Dio che ci ha creati.

 

 

Marco Calzoli è nato a Todi (Pg) il 26.06.1983. Ha conseguito la laurea in Lettere, indirizzo classico, all’Università degli Studi di Perugia nel 2006. Conosce molte lingue antiche e moderne, tra le quali lingue classiche, sanscrito, ittita, lingue semitiche, egiziano antico, cinese. Cultore della psicologia e delle neuroscienze, è esperto in criminologia con formazione accreditata. Ideatore di un interessante approccio psicologico denominato Dimensione Depressiva (sperimentato per opera di un Istituto di psicologia applicata dell’Umbria nel 2011). Ha conseguito il Master in Scienze Integrative Applicate (Edizione 2020) presso Real Way of Life – Association for Integrative Sciences. Ha conseguito il Diploma Superiore biennale di Filosofia Orientale e Interculturale presso la Scuola Superiore di Filosofia Orientale e Comparativa – Istituto di Scienze dell’Uomo nel 2022. Ha dato alle stampe con varie Case Editrici 56 libri di poesie, di filosofia, di psicologia, di scienze umane, di antropologia. Ha pubblicato anche molti articoli. Da anni è collaboratore culturale di riviste cartacee, riviste digitali, importanti siti web.

 

1 Comment

  • […] prospettiva che per il buddhismo “non conta l’atto in sé ma quello dotato di intenzione” (1), tanto nel bene quanto nel male. Dunque l’innocenza, qualsiasi effetto comporti, non ha effetti […]

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *