Nel dicembre del 1823, con la dottrina “Monroe” gli Stati Uniti dichiararono ufficialmente la loro opposizione a un eventuale intervento europeo negli affari interni ai Paesi del continente americano e che eventuali ingerenze sarebbero state considerate dagli USA come una minaccia alla loro sicurezza e alla pace.
Da allora a quella dottrina venne data un’interpretazione sempre più estensiva e, grazie al cosiddetto corollario Roosevelt (1904), la dottrina di Monroe si trasformò, da diffida rivolta alle potenze europee, in teorizzazione dell’intervento statunitense nell’emisfero occidentale, giustificandone così la politica imperialistica.
Alla conferenza di pace di Parigi dopo la fine della prima guerra mondiale, il presidente Wilson portò con sé una nuova concezione dei rapporti internazionali, riassunta in 14 punti e tra questi un punto cardine del programma wilsoniano era l’affermazione dei principi di “nazionalità e di autodeterminazione dei popoli”, ovvero il diritto che i popoli hanno nello stabilire le loro nuove frontiere, secondo le linee di demarcazione chiaramente riconoscibili tra le nazionalità.
Su tale base, il presidente statunitense si oppose risolutamente alla completa realizzazione delle rivendicazioni territoriali italiane basate sul Patto di Londra dando, invece, la precedenza alle tesi croate e slovene del nuovo Regno dei serbi, croati e sloveni, per impedire l’espansione italiana nell’Adriatico.
Come è evidente, già allora la Potenza atlantica impose la propria volontà nel quadro strategico europeo, a regola estraneo alla sua influenza, determinando nel nostro Paese la crisi politica collegata all’immagine e alla sostanza della “vittoria mutilata”, perché infrangeva un patto internazionale sottoscritto e le nostre legittime aspirazioni.
La tendenza a considerare ogni parte del globo come possibile teatro di intervento è divenuta nel tempo la direttrice della politica estera americana, di volta in volta giustificata con ragioni umanitarie o di esportazione della democrazia o di difesa della libertà dei popoli contro i regimi autocratici o dittatoriali.
Ultimamente Biden, come tutte le precedenti amministrazioni democratiche, ha riesumato questa dottrina nello scontro tra mondo liberale e regimi autoritari, visto come il vero pericolo di questa fase storica, che impone di rilanciare le democrazie di tutto il mondo e frenare gli interessi di Russia e Cina.
Già nel 2019 la società di consulenza Rand Corporation spiegava che, per contrastare l’economia russa, fosse necessario fornire aiuti letali all’Ucraina.
Per sfruttare il punto di maggiore vulnerabilità esterno della Russia, occorreva schierare un gran numero di forze NATO ai confini con la Russia, aumentare la capacità dell’Europa di importare gas da fornitori diversi dalla Russia e incoraggiare l’emigrazione dalla Russia di manodopera qualificata e giovani ben istruiti.
Lo studio dal titolo “Over extending and Un-balancing Russia” esponeva le modalità con le quali gli Stati Uniti e i loro alleati avrebbero potuto perseguire politiche economiche e militari per sbilanciare l’economia e le forze armate russe.
Era evidenziato che la più grande vulnerabilità della Russia, in qualsiasi competizione con gli Stati Uniti, era la sua economia, che era relativamente piccola e fortemente dipendente dalle esportazioni di energia.
Quindi colpendo l’energia in modo strategico, indirizzando l’Europa a comprare altrove, si sarebbe rapidamente indebolita la Russia.
L’analisi permette di capire come partendo dalle condizioni della Russia si possa metterla all’angolo, puntando sui punti deboli del Paese guidato da Vladimir Putin.
Nonostante queste vulnerabilità, la Russia rimaneva però un Paese potente che riusciva ancora a essere un concorrente alla pari degli Stati Uniti in alcuni domini chiave.
E allora, bisognava cercare di attrarre a sé parte della popolazione giovane russa, di pari passo con l’indebolimento economico del Paese fatto con altre strategie come quella militare, considerata una fra le tante opzioni possibili.
Un aumento generale delle capacità delle forze di terra della NATO in Europa, spiegavano gli analisti di Rand Corp., insieme all’aumento del numero di forze statunitensi su larga scala ai confini della Russia avrebbero aumentato il rischio di conflitto con la Russia, in particolare se percepiti come una sfida alla posizione della Russia nell’Ucraina orientale, in Bielorussia o nel Caucaso.
Ecco allora che oggi un conflitto locale, di limitate dimensioni, condotto per interposta nazione, ma direttamente alimentato dalle forze occidentali, può a un tempo indebolire la Russia e sfibrare gli stati europei, minare due economie ugualmente concorrenti con quella americana, sparigliare ogni progetto di coinvolgimento della Russia in un quadro di integrazione euroasiatico, rilanciare le esportazioni statunitensi e l’egemonia politico militare degli USA sull’Europa.
A questo punto, è interesse degli americani che la guerra continui e l’invio di armi sempre più sofisticate e tank all’Ucraina, anche da parte di Inghilterra e Australia, non risponde a un afflato umanitario né a uno slancio solidaristico, ma a un preciso e cinico interesse strategico. Del resto l’Ucraina era stata da tempo attrezzata e istruita militarmente, in vista di una guerra su scala regionale.
Per quanto valorosi e patriottici, gli ucraini non avrebbero potuto resistere, come invece fanno, all’esercito russo se non avessero avuto già in dotazione arsenali moderni e addestratori sul campo, né si conduce una forsennata guerra massmediatica, come quella intrapresa da Zelensky, se non si ha una copertura totale e puntuale dello spazio comunicativo e propagandistico informatico.
Non esistono guerre umanitarie e questa in Ucraina non fa eccezioni.
L’intransigenza americana nell’isolare la Russia e nel non perseguire ipotesi di mediazione non risponde a motivazioni etiche, ma oggi punta sull’Ucraina per ottenere un cambio di regime in Russia, costi quello che costi.
Ciò è reso tanto più evidente dalle reazioni dei leader europei, di fronte alla totale divaricazione degli interessi tra le due sponde atlantiche, allorché alle aperture al dialogo dell’europeo Macron si contrappongono le rigidità belliciste dell’ex banchiere di Goldman Sachs di osservanza atlantista.
In questo scenario, il grossolano ed emozionale entusiasmo per la vittoria di Biden manifestato all’epoca dai vertici della politica e dei mass-media liberal e laicisti europei si è dimostrato una chiave di lettura quanto mai distorta e puerile, in quanto ha ignorato del tutto i gravi conflitti strategici e ideologici che l’Europa avrebbe dovuto affrontare per inseguire, ancora una volta, le ambizioni geopolitiche della nuova amministrazione democratica.
Il ruolo coercitivo della NATO a guida USA ritorna a essere preponderante, come vero e proprio obbligo di partecipazione armata in una potenziale “guerra giusta” fomentata in difesa dei “valori occidentali”.
Le èlites europee si sono dimostrate incapaci di sottrarsi a questa pressione, adeguandosi alle scelte americane invece di assumere immediatamente un ruolo di interposizione tra le parti, più conforme ai loro interessi e meno succube alle direttive di Washington.
In Italia, fa una sgradevole impressione vedere allineate sullo stesso fronte tutte le forze politiche di maggioranza e opposizione, senza una apparente distinzione tra le posizioni del Partito Democratico appiattito da anni sulle logiche atlantiste e quelle dei sedicenti patrioti, sovranisti e neo conservatori, incapaci di formulare una analisi critica della situazione e di esprimere politiche alternative al coinvolgimento del Paese in dinamiche strategiche contrarie ai nostri interessi.
Purtroppo, se gli europei non troveranno la coesione e il coraggio per dissociarsi da questo spregiudicato disegno americano, sostenuto dal governo britannico, che punta a trasformare l’Ucraina in un Afghanistan europeo ai danni della Russia, dovremo abituarci a considerare come possibili tutte le opzioni militari e tutti gli scenari di guerra e non immaginare di poterci limitare a sventolare bandiere arcobaleno o a impegnarci solo nell’usuale ruolo pietistico caritatevole dell’accoglienza.