14 Dicembre 2024
Costituzione

La Costituzione più bella (ed inutile?) del mondo…

SECONDA PARTE

Tra le tante leggende sulla natura salvifica, taumaturgica della Costituzione, c’è anche quella che una serie di diritti fondamentali siano stati riconosciuti per la prima volta a seguito della sua promulgazione. Non è vero: l’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge ed il godimento dei diritti civili e politici fu proclamata già dall’art. 24 dello Statuto del 1848, con l’unica differenza che il legislatore sabaudo definisce regnicoli quelli che noi chiamiamo cittadini.

Albertini sono anche il riconoscimento della libertà individuale, del divieto di arresto fuori dai casi previsti dalla legge, l’inviolabilità del domicilio, la libertà di stampa ed il diritto di adunanza “pacifica e senz’armi”, formula poi copiata dal costituente repubblicano. Lo Statuto va oltre, prevedendo l’inviolabilità della proprietà “salvo giusto indennizzo per interesse pubblico legalmente accertato”: meglio, molto meglio, della formula sovietica dell’art. 42, che permette l’esproprio per non ben precisati motivi “d’interesse generale e salvo indennizzo.”  Qui dobbiamo rilevare la comparsa del termine esproprio, che l’indennizzo non è più “giusto” e che l’interesse generale sostituisce, con un salto logico che richiama le acrobazie di Jean Jacques Rousseau, l’interesse pubblico legalmente accertato.

Chi scrive non ha alcuna nostalgia sabauda, ma, al tempo del debito sovrano, falso ed impagabile, sarebbe bello che la costituzione repubblicana avesse copiato l’articolo 31 dello Statuto, che recita: Il debito pubblico è guarentito (garantito N.d.R.). Ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile.

Presumibilmente, la classe politica sarebbe stata più oculata nel passato, forse non avrebbe rinunciato alla sovranità monetaria, madre legittima del debito, e quella odierna sarebbe costretta a pagare con puntualità i suoi fornitori, che portano i libri in tribunale per crediti non onorati per anni dalle pubbliche amministrazioni.

Per alcuni aspetti, dunque, la nostra Costituzione è un passo indietro rispetto al vituperato Statuto di un secolo prima.  Veniamo al titolo III, intitolato ai rapporti economici, non prima di segnalare una frase a suo modo umoristica, quella dell’articolo 54, che impone di adempiere le funzioni pubbliche con “disciplina ed onore”. Disciplina ed onore ordinate dalla repubblica italiana!   Ogni commento al lettore…

La repubblica afferma di tutelare il lavoro “in tutte le forme ed applicazioni”. Sarà per questo che quattro giovani su dieci sono inoccupati, e molti di loro anno parte dei cosiddetti NEET, ovvero né lavorano, né studiano, né stanno ricevendo formazione professionale, che lo Stato deve impartire o curare in base allo stesso art. 35. Non è facile, poi, conciliare l’idea costituzionale di tutela del lavoro con la sua precarizzazione, che interessa oramai milioni di cittadini e di stranieri, l’esercito di riserva del mondo imprenditoriale. E’ notizia di questi giorni lo sviluppo dell’umiliante pratica del pagamento in “voucher”, con un più 66 per cento nel 2015 rispetto all’anno precedente. Ancora una volta, c’è da chiedersi se la Carta è un libro dei sogni, o se la produzione legislativa dei parlamenti, anzi dei governi, sia profondamente incostituzionale. In questo caso, assai probabile, a che serve la Corte Costituzionale, la pomposa consulta di quindici strapagati parrucconi –  o prestigiosi giuristi, a seconda delle preferenze di chi legge-  chiamati per nove anni ciascuno a vigilare sulle leggi?

A proposito, che bella riforma sarebbe una modifica dell’art. 135 che permettesse di sorteggiare i giudici costituzionali, sottraendoli al gioco della politica, delle “cordate” e delle correnti della magistratura ordinaria. Non vi è giudice costituzionale che non sia espressione di un preciso pezzo di potere, tanto è vero che nei casi in cui la stampa si occupa dei giudizi della Corte, è prassi corrente fare previsioni sulle sentenze in base all’orientamento di ciascuno dei giudici, nonché agli interessi di chi li ha nominati.

No, non è perfetta per niente, la costituzione. Quando predica bene, non offre strumenti per rivendicare concretamente l’applicazione dei principi: una prova è l’art. 36, che afferma con giusta solennità il diritto ad una retribuzione proporzionata al lavoro svolto “e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. In assenza di una legge precisa, vincerà sempre il mercato, che risparmia soprattutto sul lavoro, ed esistono settori dove, nell’anno di grazia 2016, è legale pagare tre euro e mezzo l’ora un povero cristo, probabilmente con voucher. Si parla spesso di “generazione mille euro” per descrivere gli under 40, ma non sono pochi coloro per i quali quella somma è una chimera, per tacere dei pensionati.

Dove vive il numeroso clero degli entusiasti della costituzione, e che cosa fa per assicurarne l’effettività? Domande retoriche, come inutile è chiedersi che fine abbia fatto il successivo articolo 37, nel quale si tutela il ruolo della madre lavoratrice, dal momento che è a conoscenza di tutti che in diverse aziende le donne vengono diffidate dal rimanere incinte, con minacce e talvolta persino con firme estorte sotto clausole di nessun valore giuridico, ma di forte efficacia ricattatoria. La presenza di un gran numero di minori immigrati, poi, rende vana la salvaguardia dei lavoratori più giovani, soggetti a forme di sfruttamento che sembravano retaggio di epoche remote.

Praterie intere di polemiche si aprono dinanzi alla lettura dell’articolo 39, che tratta dei sindacati, cui non può essere posto “altro obbligo se non la loro registrazione”. Mai fatto, la triplice formata da CGIL, CISL ed UIL non la vuole. La registrazione conferisce personalità giuridica: non se ne parla. Trascuriamo il fatto che associazioni non riconosciute trattino con i governi e sottoscrivano contratti: è la forza dei fatti. Ma uno straccio di bilancio dovranno pur presentarlo, farci sapere quanto incassano e da chi, pagare anche le imposte, tanto più che hanno quasi l’esclusiva dei Centri di Assistenza Fiscale e dei patronati, e che, questione non certo piccola, esprimono da decenni la dirigenza dell’INPS, dunque della più grande struttura pubblica del paese, che è anche azionista al 5% della Banca d’Italia, dunque della BCE.

Forse ricorderete quei pali della luce del passato, con il pittogramma del teschio e delle tibie, come i pirati, e la scritta impressa: Chi tocca i fili muore. Chi tocca i sindacati confederali muore, gli altri contano solo quando sono costretti a bloccare servizi importanti per farsi ascoltare. Infatti, sono i sindacati come struttura a contare, non certo i loro iscritti. Il sindacato conta per sé, ben più che per gli interessi che ne hanno determinato la nascita: Vilfredo Pareto la chiamò persistenza degli aggregati. Quanto al diritto di sciopero, previsto nell’ambito di leggi che lo regolino, strettamente legato al ruolo sindacale, siamo passati, come quasi sempre capita in Italia, da un eccesso all’altro.

Per decenni, sindacati e sinistra politica hanno impedito la promulgazione di quelle leggi, poi il clima generale è cambiato, ed oggi lo sciopero, specie nel settore pubblico, è soggetto a sin troppe limitazioni e procedure. Sarebbe stato quindi necessario formulare l’articolo 40 in maniera più chiara, ma non si poteva per le divergenze troppo grandi tra le parti. Dunque, una volta di più, si è preferito enunciare ma non regolare, proclamare e rimandare. Che ci sarà scritto nelle costituzioni brutte, se la più bella ha lacune tanto evidenti.

Dall’articolo 41 al 47 si evidenziano tutte, ma proprio tutte le crepe, le incongruenze, le aporie di un testo che non poteva realizzare nel diritto quella quadratura del cerchio mai riuscita ai matematici. Il presidente dell’Assemblea era Umberto Terracini, un comunista a tutto tondo, coerente sino al carcere, e quattro costituenti su dieci erano socialcomunisti. Non potevano accettare che, art. 41, l’iniziativa economica fosse libera, ed allora l’hanno circoscritta pesantemente, prescrivendo leggi (la solita tecnica, rimandare alle leggi ordinarie, ovvero ai rapporti di forza, ciò che non si riusciva a concordare) che la indirizzassero e coordinassero “a fini sociali”.  Dopo la vittoria schiacciante del capitalismo e l’avanzata privatizzazione del mondo, dobbiamo però ringraziare i costituenti che hanno approntato alcune difese contro il liberismo e l’arroganza dei superpadroni.

Ma la Carta, piaccia o no, è straccia. Francesco Cossiga, all’indomani della fine del comunismo, indirizzò un messaggio di ottanta pagine alle camere per chiedere cambiamenti alla Costituzione, che giudicava obsoleta e frutto di transazioni tra forze politiche scavalcate dalla storia. Ne ricavò di essere posto in stato d’accusa. Non disturbare il manovratore, una volta di più.  Forse il picconatore, secondo le prescrizioni dell’art. 54, non aveva adempiuto alle funzioni pubbliche con onore e disciplina. Ognuno commenti come preferisce, e, eventualmente si avvalga della facoltà di rivolgere petizioni alle Camere per chiedere provvedimenti legislativi o esporre comuni necessità. Lo prevede l’art. 50, il quale naturalmente tace sulla ricezione delle richieste e sull’uso che ne fanno i rappresentanti del popolo. Probabilmente sono impegnati ad ascoltare, riservatamente, lobbies e gruppi di pressione che leggi ed emendamenti chiedono ed impongono senza ritegno.

Torniamo ai rapporti economici, osservando che gli articoli 42 e 43 sono perfetti esempi di proposizioni vaghe e contrastanti, adatte ad essere interpretate secondo orientamento o interesse politico. Si parla di limiti alla proprietà privata per assicurarne la funzione sociale, ma anche di accessibilità a tutti. Come la mettiamo con l’espulsione dal mercato di migliaia di aziende piccole e medie, o con la gestione di risorse idriche ed energetiche? Interessante è anche la locuzione “beni economici”, gentile perifrasi per non parlare dei marxiani mezzi di produzione. L’articolo 43 può essere letto come un distillato di collettivismo datato, giacché si prevede di espropriare con indennizzo (non più “giusto” come nello Statuto) “imprese o categorie di imprese relative a servizi pubblici essenziali o fonti di energia, con carattere di preminente interesse generale”.  Tuttavia, nella realtà economica attuale, benedetti i costituenti che hanno messo nero su bianco un argine alla privatizzazione universale. Oggi abbiamo una nuova categoria culturale, che è il concetto di beni comuni e, per una sorta di astuzia della storia, possiamo almeno brandire l’arma dell’incostituzionalità delle condotte dei legislatori servi del nuovo liberalcapitalismo.

Due parole sull’articolo 45, che esalta il ruolo della cooperazione: ottimo, ma incompatibile con la proprietà di banche, giganti della distribuzione, imprese di costruzioni dall’appalto facile, alle quali è ben difficile riconoscere il carattere di mutualità e l’assenza di fini speculativi richiesta dal testo. Si potrebbero invece scrivere interi tomi sull’assoluta inapplicazione dell’art. 46, che riconosce il diritto di partecipazione e cogestione delle aziende da parte dei lavoratori. In Germania, parte del successo dell’apparato industriale è legato proprio alla mitbestimmung, la partecipazione dei dipendenti all’impresa.

Idea forza di un importante filone della destra politica italiana, della dottrina sociale cattolica e della scuola economica di Friburgo (Erhard, Roepke), in Italia si scontra con un doppio veto, quello degli imprenditori miopi, nostalgici dei padroni delle ferriere, e delle sinistre collettiviste, ancorate ai riti della lotta di classe. In questo caso, ottimi principi, nessuna realizzazione. La costituzione materiale vince largamente su quella scritta, formale. Clamoroso è il caso dell’articolo successivo, ultimo del titolo III, che  ricorda quel gioco di società in cui vince chi riesce sempre a dare la risposta contraria a quella giusta.

Si proclama a pieni polmoni che la repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme. Dunque, la recente legge che permette di espropriare depositi bancari ed obbligazioni in caso di insolvenza degli istituti di credito è incostituzionale, provenga o no dai pensatoi europoidi di Bruxelles. Nel secondo periodo, si raggiungono i vertici del grottesco istituzionale, poiché l’affermazione, solenne come solo una costituzione può essere, è che la Repubblica disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. Sappiamo tutti che il dominus è la Banca d’Italia, la cui proprietà è in mano alle banche private e che, dagli anni 90, altro non è che un pezzetto della Banca Centrale Europea.  Il controllore è proprietà del controllato: splendido, e, almeno per noi poveri non costituzionalisti, illegale. Il secondo paragrafo declama ulteriori provvidenze a favore del risparmio e della piccola proprietà: parole sulla sabbia.

Quanto all’ultima parte, si fa riferimento all’investimento nei grandi complessi produttivi: qui si impongono almeno due riflessioni. La prima, ovvia, riguarda la scelta dei costituenti in qualche modo a favore dei maggiori gruppi, che non tiene conto della radicata vocazione nostra per un’imprenditoria diffusa e di dimensioni medie o piccole. Un’altra va alle improvvide privatizzazioni degli anni novanta, che hanno privilegiato grandi investitori, specie stranieri, e non hanno mai davvero perseguito, al di là di qualche offerta pubblica di vendita, il modello della cosiddetta “public company”, l’azienda ad azionariato diffuso, in cui magari la mano pubblica mantiene una quota o si riserva almeno la “Golden share”, ovvero una quota privilegiata con poteri specifici. Infine, è elemento di grande tristezza la constatazione che l’Italia non possiede quasi più grandi gruppi, con il declino di Fiat e Olivetti, l’implosione dell’industria siderurgica e chimica, ed i ricorrenti assalti, non solo di poteri privati, a Eni e Finmeccanica. Ciò che costruì L’IRI dal 1933, ed una generazione di capitani d’industria comunque benemeriti si sta rapidamente dissolvendo, e porta con sé i saperi e la maestria di milioni di operai e tecnici che hanno espresso ideazione, innovazione, amore per il lavoro.

Quanto scritto non pretende di essere esaustivo, a partire dalla riforma Boschi e dalle tante incongruenze dell’apparato istituzionale disegnato nel 1946/47. Tuttavia, ci porta a due conclusioni che possono diventare un abbozzo di programma politico. La Costituzione italiana è vecchia, arrugginita e tutt’altro che perfetta; però esiste e tra le tante fanfare sulla “legalità”, proprio la richiesta, anzi l’esigenza imperativa che venga applicata per intero deve diventare un programma politico di autodifesa dal mostro liberista e, contemporaneamente, dal cieco burocratismo degli adempimenti multipli e delle mille autorità coinvolte negli stessi procedimenti.

Poi sussiste il problema massimo: dalla sentenza Granital, anno 1984, il diritto comunitario prevale su quello nazionale. Fino a che punto? Può la comunità, o addirittura possono poteri transnazionali non eletti, o potentati privati, imporre norme, principi, comportamenti, politiche che la costituzione nazionale non contempla, o addirittura vieta?

Come sempre, da venticinque anni, dalla caduta del Muro di Berlino al trionfo della globalizzazione, tutti i problemi si riassumono in uno, dai molti risvolti: la questione della sovranità, delle sovranità.  Poteri di fatto, trattati internazionali, la stessa Unione europea e la sua moneta spuria, cupole finanziarie ed industriali hanno smantellato pezzo dopo pezzo la sovranità degli Stati.

Se la rivogliamo, e tremo davanti alla risposta, da italiano che conosce i propri connazionali, dobbiamo smettere di essere pecore matte, riprenderci in mano il destino, a partire dalla Carta del 1948, brutta, vecchia, incoerente, ma almeno vigente, pur se non proprio, come affermano i suoi parrocchiani, di sana e robusta… costituzione.

Se invece non ci interessa più la libertà, l’indipendenza, o almeno la decenza, siamo sulla strada giusta, e Matteo Renzi è il pastore perfetto per portare al macello questo gregge.

ROBERTO PECCHIOLI   

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