4 Dicembre 2024
Irredentismo

Italia dei diciotti carati – Claudio Antonelli (Montreal)

Avvenuta la sconfitta dell’Italia nella seconda guerra mondiale, Giacomo Scotti “raggiunse l’Istria a 18 anni, convinto di contribuire alla costruzione del nuovo socialismo jugoslavo.” Un altro diciottenne, Giusto Vittorini, dal padre molto celebre, Elio, raggiunse avventurosamente la patria del socialismo ideale, trovando lavoro a Fiume nella redazione della Voce del Popolo.

Vale senz’altro la pena ricordare, ma io lo faccio con amarezza e un certo disgusto, l’abbaglio, contenente una fortissima dose di opportunismo, che spinse uomini come Elio Vittorini, suo fratello Ugo, e il suo virgulto Giusto a tradire l’Italia. Perché in fondo vi fu tradimento.

Questo mio assunto apparirà più evidente leggendo il testo che segue, il quale mostra il radicale cambiamento di idee e di sentimenti operatosi in Elio Vittorini nei confronti della sua Italia “dei diciotto carati”, trasformatasi in un’appendice della plumbea Jugoslavia titoista.

Il nostro vigoroso Paese confinante, costruito in laboratorio come un frankenstein, ma insaziabile nostro partner molto attivo negli acclamati “rapporti di buon vicinato”, fu omaggiato per anni dai tanti intellettuali antitaliani della penisola, passati disinvoltamente da una finta adesione al patriottismo italiano d’anteguerra, all’esaltazione  dei patriottismi altrui. Cosa volete, erano affascinati dal nazional socialismo jugoslavo, che garantiva il superamento dei borghesi odi etnici e si presentava quale guida di equidistanza e autogestione, come dimostra anche il glorioso curriculum di Giacomo Scotti, strumento della propaganda titoista per anni, e quindi compensato ampiamento, per i suoi comprensibili disagi jugoslavi, dalla nostra Italia, incomparabile esaltatrice della sconfitta e della perdita delle terre adriatiche.

L’entusiasmo di Vittorini per i luoghi geografici evolveva con grande facilità. Sia la località istriana di Lussinpiccolo sia la propinqua Cigàle, luoghi dove si reca per anni di seguito in villeggiatura, gli appaiono “il più bel posto del mondo”, tanto da dar origine ai suoi unici tentativi di poesia. Tale attaccamento traspare anche da una lettera a Silvio Guarnieri, nella quale Vittorini manifesta un altrettanto grande entusiasmo per Feltre, dove l’amico lo ha appena ospitato. Nella lettera si legge: “Cigàle l’ho in pugno come tu hai in pugno Feltre – E sai? Credo che scriverò di Feltre come feci di Cigàle.”

In una corrispondenza da Cigàle, dal titolo “Italia fuori mano”, pubblicata nel Bargello dell’8 ottobre del 1933, Vittorini esalta con accenti patriottici quella minuscola isola (Lussino) e le terre tutte dell’Istria e della Dalmazia che definisce liricamente “Italia dei diciotto carati, Italia preziosa”.

Il pezzo inizia così:

“Cherso, Lussino, Zara e più giù Lagosta, questa è l’Italia fuori del grande apparato circolatorio. La pulsazione che scuote tutta la penisola non arriva fin qui: si spegne a Fiume. Eppure di più che nell’alto Isonzo e nell’alto Adige qui è l’Italia dei diciotto carati, Italia preziosa. Di proprio vive come sa, ed è il modo appreso da Venezia; parla veneto, e abita sui lungomari case da quadro di Carpaccio; prendete per esempio Ossero all’istmo tra isola di Lussino e isola di Cherso, è un paese di post-civiltà che  fa impressione, bellissimo, immerso in un pomeriggio di civiltà ritornata tanto primitiva da far pensare ai veneziani come a degli Achei. Non diversamente era italiana e viveva sotto l’Austria. Fosse ritornata a noi con tutta la Dalmazia avrebbe forze da rifluire essa nella penisola; così tagliata: Zara senza contatto neanche verso  mare con altra terra italiana, Lagosta ridotta a pontile d’aerei, e Cherso e Lussino allungate con Veglia, Arbe e Pago jugoslave nello stesso letto di mare – avrebbe bisogno che si muovesse la penisola a rifluire qui. Così questa è l’Italia trascurata; coraggiosa, si regge  nei suoi pezzettini come in un medioevo, in un’aria da nostre repubbliche marinare.

Sembra Italia autonoma, ma in sé si sente esclusa. Si capisce. Non ha campi, non ha industrie e tutta la sua ricchezza è d’essere bella. E la bellezza è di farsi vedere.

Una volta queste isole erano paradiso degli austroungarici.

Vinta la guerra gli italiani ci hanno mandato il tricolore ma neanche sanno, e anni e anni son passati, quanta bellezza di più è ora del tricolore. E queste isole hanno bisogno d’essere sapute.

Infinitamente più belle della Riviera Ligure bisogna che comincino a vivere almeno dello stesso pullolio di cui vive la Riviera. Bisogna che il movimento fisico della penisola penetri qui. C’è anche una ragione di vigoria nazionale.

Dinanzi alla Jugoslavia viva di gente, e che a Arbe e a Veglia, nidi una volta di vipere, fa sorgere alberghi su alberghi, e inventa spiagge lungo un litorale che mai vide bagnanti, Cherso è un altipiano celeste di salvie, Lussino ha mare dentro i boschi. Più belle deserte, senza dubbio, con le lepri che scappano di notte, anche per le vie dei paesi, dinanzi alle automobili. Ma in mezzo agli jugoslavi, come sono questi posti, bisogna che siano posti forti, ossia luoghi tesi, gonfi di gente italiana che ci passi continuamente; che, in altri termini, diventino muscoli attivi il cui sangue scorra con la stessa regolarità di ricambio che a Milano o a Firenze.

Non c’è che il turismo che possa renderli tali; e che si aspetta a consacrarle Mecche del turismo italiano? Quindici anni sono passati e ancora pochi italiani che hanno appreso che cosa sia un’estate in queste isole incantevoli. Lo Stato ha fatto; per esempio: ha istituito una linea aerea giornaliera da Trieste a Zara che tocca Lussino, ma occorre di più e soprattutto far sapere, rendere popolare, mettere sulla bocca di tutti quello che c’è. Pola, da cui Lussino e Cherso dipendono dovrebbe far molto, invece se ne sta zitta forse perché troppo dominata dagli interessi pratici che ha a Brioni, come Fiume che li ha ad Abbazia. E Cherso e Lussino, unite da un ponte attraverso un canale di otto metri, potrebbero essere percorse su e giù da tutte le automobili del continente che lo volessero, invece non lo sono ancora e magari non lo saranno mai perché non si pensa a mettere in moto dei ferry-boats tra Moschiena d’Istria e la Faresina di Cherso e non si dà compimento alla più bella strada del mondo che dalla punta estrema di Lussino ora giunge sulla montagna tra due mari fermandosi a sei chilometri dalla Faresina. Dicono che non vale continuarla perché contrapposta ad Arbe.

Ciò che è ragionare da disfattisti. Come se, Arbe, Veglia e il resto, anche se jugoslava [sic], non fossero parte di quest’Italia preziosa.”

A proposito del tono d’italianità lirico e vibrante, e in particolare dell’appello: “Ma in mezzo agli jugoslavi, come sono questi posti bisogna che siano posti forti, ossia luoghi tesi, gonfi di gente italiana che ci passi continuamente”, merita aprire una parentesi. Bilenchi riferirà che Vittorini e lui, nel 1934 (quindi appena qualche mese dopo questa accesa dichiarazione di italianità di Vittorini nei confronti non solo delle terre adriatiche già “redente”, ma anche di quelle che la sua profonda italianità del momento gli faceva considerare ancora da redimere) ebbero delle noie con le autorità per certi loro discorsi antifascisti, in cui avrebbero affermato, tra l’altro, che “Fiume era jugoslava”.

Non stupisce che Vittorini, sempre molto sensibile allo spirito dei tempi, in una certa fase della sua vita provasse simpatia per le popolazioni della Venezia Giulia; una simpatia profondamente sentita se si dovesse credere alle numerose esternazioni patriottiche da lui espresse in quel periodo. Ma noi sappiamo che per Vittorini le esternazioni di amor patrio hanno un carattere politico, esteriore, non di istinto, di passione; e di conseguenza, se fatte da lui direttamente o attraverso i suoi personaggi, lungi dall’essere sentite esprimono semplicemente i canoni e la sensibilità del particolare tempo in cui furono fatte.

L’impareggiabile biografia di Raffaele Crovi – ricca di fatti, date, verità su Elio Vittorini – mi ha rischiarato sull’entusiasmo del nostro intellettuale per quelle terre del confine nord-orientale. Da principio avevo pensato che la sua passione per quei luoghi fosse da attribuire all’amor patrio dell’epoca, riflesso a mo’ di specchio da un Vittorini sempre contemporaneo; e inoltre al suo forte amore per Gorizia, sua città natale “elettiva”, oltre che alla sua nota inclinazione ad adottare come suoi i luoghi in cui si trovava bene. Ebbene, la passione di Vittorini per Cigale e le coste e le isole del Quarnaro ebbe una concausa in una passione più diretta e personale che nacque in quei luoghi: l’amore, contraccambiato, per Ginetta Varisco.

Raffaele Crovi ci racconta: “Vittorini e la moglie passarono le vacanze estive del ’33 a Cigale di Lussinpiccolo, nell’isola di Lussino, nel golfo del Quarnaro. Fu una lunga vacanza, dai primi d’agosto alla fine di settembre […] trascorsa in compagnia di Ferrata e della sua donna e, durante la vacanza, Ginetta e Elio si innamorarono.”

I segni della simpatia di Vittorini per l’“Italia dei diciotto carati, Italia preziosa” non mancano nelle sue opere. Nel “Garofano rosso” di Solaria c’è un personaggio che scompare nel Garofano successivo: “Fu quello sgobbone di Francovich, un ragazzo di Trieste lentigginoso e biondo, per il quale, malgrado tutto, e solo perché era di Trieste avevo della simpatia.” Ritroviamo un Francovich lentigginoso, anzi un “Francovic” ne “La mia guerra” in Piccola borghesia. Anche nell’“Educazione di Adolfo” c’è un personaggio “rosso lentigginoso” proveniente “dalle terre liberate”. Da notare l’espressione di Vittorini: “terre liberate”; liberatori questa volta sono gli italiani; successivamente, per Vittorini e figli, liberatori saranno gli jugoslavi.

Raffaella Rodondi commenta: l’introduzione di questi personaggi della Venezia Giulia negli scritti di Vittorini valgono “a evidenziare, programmaticamente, il versante nazionalistico e combattentistico del fascismo e a saldare alle origini del movimento la milizia ‘rivoluzionaria’ del protagonista”. Anche noi conveniamo che l’adesione di Vittorini a questi sentimenti patriottici, in sintonia col momento storico italiano, fu soprattutto un’adesione calcolata, strumentale, ossia dettata da un certo calcolo opportunistico forse anche inconsapevole. Ma il linguaggio particolare usato dalla Rodondi nel suo commento – “il versante nazionalistico e combattentistico del fascismo” – mostra anche quanto refrattari siano i nostri intellettuali, critici inclusi, a un sano, normale, istintivo sentimento patrio, da loro inteso invece come una patologia di carattere politico.

La passione vittoriniana per le popolazioni della Venezia Giulia non resisterà un attimo al mutato vento della storia, ossia alla nuova aria dei tempi di cui il Nostro s’inebrierà. Le sue simpatie seguiranno l’evoluzione degli avvenimenti: con il progressivo disfacimento militare italiano, con la dissoluzione dello Stato, e con la sconfitta finale dell’Italia nella seconda guerra mondiale; in conseguenza della quale le terre del confine orientale saranno assegnate, con il trattato di pace, dalle potenze vincitrici alla Jugoslavia. E nascerà allora in Vittorini, beninteso, un manifesto interesse per la controparte, la Jugoslavia, dinamico e vibrante – ai suoi occhi – laboratorio di socialismo; verso cui del resto non solo lui ma tanti “progressisti” italiani rivolgeranno per lungo tempo uno sguardo ammirato e voglioso. In ciò Vittorini si allineò sulle verità di Togliatti e del PCI, i quali appoggiarono, sia durante gli eventi bellici, sia subito dopo, le azioni e rivendicazioni jugoslave dirette a far acquisire alla Jugoslavia una sostanziosa fetta d’Italia, includente persino Trieste e Gorizia. Ha scritto Galli della Loggia: “Almeno fino al termine della guerra di liberazione, dal partito comunista non vennero altro, a proposito del confine orientale, che indicazioni pubbliche e prese di posizione di inequivocabile contenuto ‘antitaliano’.”

L’antinazionalismo italiano dei seguaci di Togliatti non comportava un sentimento di contrarietà e di opposizione al nazionalismo della Jugoslavia, da molti di loro vista come patria preferibile all’Italia. Del resto, il fratello di Elio, Ugo, che durante l’ultima guerra era di leva nell’esercito italiano, si unì dopo l’8 settembre ai partigiani di Tito, combattendo a loro fianco per l’annessione dell’Istria alla Jugoslavia.

“Ebbe le idee chiare subito”, commenta dalla Svizzera dove oggi risiede, Demetrio Vittorini (figlio di Elio), dalle idee altrettanto chiare. Ed è il caso di dire che “buon sangue non mente”, visto che, oltre al fratello Ugo, anche il figlio Giusto, fece la “giusta scelta”. Infatti, nel 1946 – avrà avuto sì e no 18 anni – “passò il confine clandestinamente e andò a Rijeka (Fiume) a lavorare in un giornale italiano [La Voce del Popolo].” Occorre precisare: giornale di lingua italiana, comunista e nazionalista jugoslavo al servizio di Tito.

Nel 1948, dopo che avvenne la svolta di Tito nei confronti dell’Unione Sovietica, ci racconta sempre Demetrio, “Giusto fu arrestato e inviato in Italia dopo interrogatori e un periodo passato in prigione. Tornò impenitente. I paesi del socialismo reale non sono regimi di polizia, diceva ancora, malgrado la brutta esperienza.” Giusto fu molto fortunato, perché altri comunisti italiani filojugoslavi, emigrati (un sostanzioso numero di loro partì da Monfalcone) nel laboratorio titino, pagarono in taluni casi anche con la tortura e la morte il loro idealismo filojugoslavo, antitaliano, stalinista. Ciò avvenne quando, nel 1948, Tito operò lo scisma nei confronti di Mosca, punendo senza pietà chiunque fosse sospettato, nel Paese, di opporsi alla via jugoslava al comunismo. E Giacomo Scotti ci attesta che “Secondo documenti della polizia […] la maggioranza dei giornalisti de La Voce del Popolo si dichiarò per la Risoluzione del Cominform.”

In una lettera spedita il 13 novembre 1945 da Milano al fratello Ugo che vive a Barletta, e che si è detto pronto ad inviargli degli articoli sulla Jugoslavia per il Politecnico, Vittorini risponde prontamente di sì: “Sono d’accordo con te per quanto mi proponi sulla Jugoslavia. Potremmo farti anche una lettera d’incarico da parte del giornale, ma bisogna che mi dica tu quale anticipo occorrerebbe.” Il laboratorio del socialismo trionfante jugoslavo, attuato anche sulla pelle degli italiani dei territori annessi – l’ex Italia vittoriniana dei diciotto carati – attrarrà per un bel po’ l’interesse di Vittorini, che vi si recherà in un paio d’occasioni, dimentico delle proprie squillanti dichiarazioni d’italianità espresse non molti anni prima.

Il 6 giugno del 1948 scrive a Michele Rago: “Io dovrei andare in Cecoslovacchia, ai primi di luglio; ma appunto per Ginetta non so se posso. Dovrei inoltre andare in Jugoslavia verso metà di agosto.”

Vittorini non accennerà mai più alla sua bruciante passione di un tempo per quelle terre che aveva considerato italianissime: “Italia dei diciotto carati, Italia preziosa.” E l’amico e compagno Romano Bilenchi, solidale nei silenzi, gli farà, compiacente, da spalla.

Quest’ultimo – vi abbiamo già accennato – ha apportato una testimonianza particolareggiata, diretta a mostrare che entrambi, immuni dalla nefasta tabe della solidarietà nazionale e dell’amor patrio, fecero addirittura il tifo, durante il fascismo, per “Fiume jugoslava”. Evidentemente Bilenchi, ex fascista divenuto maestro di antifascismo, con questa confessione post-resistenziale mirava ad acquisire crediti morali presso le forze progressiste “italiane”.

Bilenchi:

“Un pomeriggio Elio ed io fummo convocati in questura. Un commissario siciliano, uomo basso e robusto, molto cortese, ci fece prima un discorsetto sul modo di comportarsi del buon cittadino, poi, fra i sospiri, ci contestò che eravamo stati uditi pronunciare questi discorsi: Fiume era jugoslava; il generale Franco era un sovversivo, un volgare macellaio forse peggio di Hitler; Picasso era il più grande pittore del mondo; Croce un insigne maestro, l’uomo più importante d’Italia. Avevamo davvero pronunciato quelle frasi Elio ed io, soli, una mattina di domenica che eccezionalmente ci eravamo trovati al caffè. A riferirlo alla polizia doveva essere stato un confidente, un cameriere che noi sospettavamo da tempo. Elio confermò al commissario di aver espresso quei giudizi e firmò anche il verbale.”

Vittorini ebbe sempre un rapporto molto intenso con i luoghi – Istria inclusa come abbiamo visto – sicché non deve stupire se finì anche col considerarsi milanese. Anche la scelta dei nomi, in Vittorini, riflette la sua passione del presente e il suo continuo ricominciare. La moglie Rosina, una volta lasciata la Sicilia per Gorizia, fu da lui ribattezzata “Delfina”, e da allora fu Delfina per tutti. E mentre ignoriamo la motivazione di questa scelta, chiara appare invece la ragione di altre scelte. Al figlio Giusto, nato a Gorizia, Elio diede questo nome, ci spiega Demetrio Vittorini, perché “Giusto era il protettore degli italiani di Trieste”. (Ma Giusto Vittorini, come abbiamo visto, non protesse gli italiani di Trieste, né quelli dell’Istria…). Il secondo nome di battesimo di Giusto fu  Curzio. Questo nome fu scelto in onore di Malaparte, personaggio di potere nel mondo delle lettere, sotto la cui tutela Elio desiderava  tanto porsi. Per il secondogenito, nato anch’egli a Gorizia, fu scelto il nome Demetrio, perché “Demetrio di Salonicco era il protettore degli ortodossi e degli slavi in genere”.

Nell’amore e disamore di Vittorini per i luoghi è percepibile sempre una componente strumentale, utilitaria. E alle simpatie, in lui, si contrappongono le forti antipatie: Vittorini è umorale. “A me Roma è sempre piaciuta moltissimo – scrive il figlio – ma Elio per giustificare la sua preferenza per Milano, aveva bisogno di denigrarla: ‘… una città da teatro barocco, dove tutto è in esposizione, dove non c’è niente da scoprire…’”

Straordinariamente intenso era stato in precedenza il suo rapporto con Gorizia, la città giuliana nella quale si era trasferito il 20 settembre del 1927 con Rosa Quasimodo “la moglie siciliana sposata troppo presto”, e dove rimase, saltuariamente, fino a metà dicembre 1929.

L’arrivo a Gorizia avvenne subito dopo il matrimonio riparatore (10 settembre 1927) che seguì la “fuitina” di un Elio appena diciannovenne con la quasi ventiduenne Rosa (sorella di Salvatore Quasimodo) sua vicina di casa. Gli sposini, spinti dai genitori di lei sopraffatti dall’onta, dovettero lasciare la Sicilia per cercare di attenuare gli effetti dello scandalo. “Mio padre ci spedì a Gorizia da mio fratello Vincenzo”, racconta Rosa.

Vincenzo Quasimodo, che come “ingegnere capo del genio  civile di tutta la regione Venezia Giulia”, “costruiva strade e ponti  in Istria”, prese sotto la sua ala protettrice i due piccioncini, trovando subito qualche lavoretto retribuito per Elio. Rosa ricorda:

“Mio fratello, ingegnere, che dirigeva con serietà e intelligenza i lavori di ponti e strade portava Elio con sé sui lavori, per cercare di capire che cosa gli piacesse fare.” Vincenzo “trovò un lavoro per Elio al genio civile: addetto alle paghe e contributi degli operai.

Quando lavorava in Istria se lo portava appresso ogni tanto per fargli guadagnare la trasferta.”

Ma Elio Vittorini non rimase a lungo a Gorizia. Nel 1929 si trasferì a Firenze, seguito solo in seguito dalla moglie, ma non tagliando i ponti con il Friuli e la Venezia Giulia, dove ritornò a diverse riprese e dove gli si prospettò addirittura una carriera  politica, come ci rende noto il figlio Demetrio: “Si voleva metterlo in orbace e farlo podestà di un paese di montagna nel Cadore o nell’alto Friuli.”

Le vicende de “La mia guerra”, un suo racconto giovanile di stile autobiografico, si svolgono a Gorizia durante la prima guerra mondiale. Ora è significativo che Vittorini, che quando aveva l’età del protagonista viveva nella Sicilia natale, nel racconto assuma un’identità goriziana tratteggiando in maniera mitica e fiabesca una sua sognata infanzia nella città giuliana. “A Gorizia resta legata la metà più buona della mia infanzia”, dice il protagonista de “La mia guerra”, al quale, invece, l’altra infanzia, quella siracusana, suscita uno strano incubo, scatenato dalle esplosioni della guerra: “E mi pareva dovesse balzarne fuori un cavallo, dopo lo scoppio, un cavallo nero e senza testa come quello dell’altra mia infanzia di Siracusa, che sortiva dai rintocchi di mezzanotte e galoppava, galoppava, sul selciato della città con uno spettro altissimo in groppa.”

Persino nel racconto “Il mio ottobre fascista”, anch’esso di tipo autobiografico, Vittorini simula un’origine goriziana. Vi si legge: “Allora io raccontai della mia infanzia di Gorizia.”

Nel diario di viaggio La Sardegna come infanzia, l’appropriazione di questa inventata e mitica infanzia goriziana si fa ancora più evidente. L’isola tirrenica non gli fa venire in mente l’altra isola – la Sicilia – bensì Gorizia. “In fila indiana, serrate in scialli neri, con le lunghe gonne nere”, le donne sarde gli sembrano apparizioni funebri e gli ricordano “le donne della mia infanzia di guerra a Gorizia.” Alla fine del viaggio, lo scrittore dice che quest’avventura isolana “della mia infanzia fa parte ormai, di quel nulla, di quella favola… Mi ricordo di quell’albergo di Macomer come del terzo piano di Gorizia tintinnante di vetri ad ogni colpo di cannone.” Il Vittorini del diario di viaggio “La Sardegna come infanzia” pensa non alla Sicilia, ma a Gorizia nella quale si è costruito con la fantasia un’infanzia: un’inventata infanzia di guerra al tempo del primo conflitto mondiale.

Dopo la seconda guerra mondiale, però, egli non accennerà più né a Cigàle né a Gorizia né a Nova Gorica, la “nuova Gorizia” jugoslava. Non spenderà una sola parola sulla sorte tragica di tanti italiani delle terre del confine orientale, investite dalla ferocia dei partigiani titini.

Demetrio Vittorini ci racconta così l’episodio che convinse i suoi nonni, Clotilde e Gaetano Quasimodo (che vi si erano trasferiti dalla Sicilia per sfuggire alla vergogna della fuga e del matrimonio riparatore della figlia con Elio), ad abbandonare in tutta fretta Gorizia – tanto amata da Elio – agli inizi del 1943:

“Nonna Clotilde stava alla finestra del primo piano del suo villino. Guardava la strada e le donne che passavano. Queste la notarono, lei per loro era un’italiana, un’occupante, una degli oppressori. Una cominciò, e poi tutte le altre, le fecero il segno di passare la mano sotto la gola. Il segno di una morte violenta. La nonna restò terrorizzata. ‘Nuzzo’, disse al marito, ‘gli slavi dopo la guerra ci taglieranno la testa’. Non ci volle molto per convincere il nonno. Nel giro di pochi mesi il negozio e la villa furono venduti per pochi soldi e i nonni corsero a rifugiarsi a Firenze.”

“Le clausole territoriali del trattato di pace sono ripugnanti ad ogni senso di giustizia”, scrisse Gaetano Salvemini. Ma alla Jugoslavia non bastava: “Trst je nas”, “Trieste è nostra”, era il grido di rivendicazione dei nostri vicini dell’Est.

Nel dopoguerra, Il Politecnico, la rivista da lui diretta, solo una volta avrà un raro soprassalto di dignità nazionale, prendendo posizione a favore dell’italianità di Trieste che rischiava di essere jugoslavizzata. Nel Politecnico del primo maggio 1946, sotto il titolo “Trieste e i comunisti”, appare un brevissimo articoletto redatto in un linguaggio in verità non troppo chiaro e di stile quasi burocratico,  che invita i compagni del Partito Comunista Francese, che si è pronunciato contro l’Italia in merito alla questione di Trieste, a prendere contatto con i comunisti italiani. L’ultima frase dell’articolo è finalmente chiara: “Difendendo l’italianità di Trieste i comunisti italiani imprimono un nuovo slancio di sviluppo al marxismo- leninismo che è la più feconda istanza per una civiltà universale.”

E a proposito di queste terre di frontiera, va sottolineata la stranissima confusione, che in Italia molti intellettuali, iperpoliticizzati a senso unico, hanno fatto per anni e continueranno a fare tra un legittimo sentimento patrio, sentito indistintamente da  tutte le popolazioni del globo terrestre anche dalle più pacifiche, e un nazionalismo razzista, revanscista e guerrafondaio. Questa  confusione è espressa dall’incredibile commento di Giorgio Bàrberi Squarotti che, reagendo appunto a questo breve, moderato, spassionato, quasi burocratico intervento del Politecnico a favore dell’italianità di Trieste (sì, dell’italianità di Trieste, non di Zagabria o di Belgrado) scrive:

“Ma il ‘Politecnico’ è pure il luogo delle contraddizioni: così, accanto a tanta apertura, troviamo, ad esempio […] la presa di posizione nazionalista per il problema di Trieste, preludio a tutti i compromessi col nazionalismo che la sinistra italiana, per opportunismo interno o internazionale, ha accettato dal 1945 ad oggi.”

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