Io proseguirò in questo articolo la rilettura critica dei testi della mia libreria, in ordine alle implicazioni politiche che se ne possono trarre, ma accingendomi a riprendere in mano questo lavoro, mi sono accorto di una cosa: più si prosegue in quello che si potrebbe chiamare un lavoro di scavo, più il discorso si amplia e i testi a cui devo fare riferimento diventano disparati e distanti fra loro, e l’ordine in cui procedere diventa ancora più sparso, siete quindi avvertiti.
Oltre a ciò, c’è una questione della quale vorrei parlarvi in via preliminare, e che si collega al discorso sulla mentalità americana affrontato la volta scorsa, e che la nostra politica di stati europei finti autonomi, ma di fatto vassalli, segue pecorescamente. Come certamente sapete, le aree di maggiore crisi internazionale, oggi sono due, la situazione in Medio Oriente (a ben guardare, lo è dal 1948, ma mai come oggi la politica di oppressione di Israele contro i Palestinesi ha raggiunto una tale intensità genocida) e la guerra in Ucraina. Della prima questione, sulla base dei testi che avevo sottomano, mi sono ampiamente occupato nell’articolo precedente. Adesso vorrei dirvi qualcosa a proposito della seconda.
In realtà, a tal proposito non ci sarebbe da dire moltissimo. Secondo gli accordi, già violati con l’entrata nella NATO delle tre repubbliche baltiche, a suo tempo intercorsi fra l’amministrazione americana e l’allora presidente russo Eltsin, in cambio dello scioglimento dell’URSS, gli Stati Uniti si impegnavano a non estendere il Patto Atlantico agli stati che avevano fatto parte dell’Unione Sovietica. Inoltre, l’ “operazione speciale” intrapresa dalla Russia è arrivata al culmine di otto anni di persecuzioni ucraine contro la minoranza russa del Donbass.
Tutti i discorsi che abbiamo sentito e continuiamo a sentire sull’Ucraina che difende “i valori dell’Occidente” non sono altro che vuota retorica al servizio del potere mondialista.
Semmai, una cosa riguardo alla quale occorrerebbe aggiungere ancora qualche parola, è il fatto che alcuni, da sempre su posizioni “nostre” si siano accodati all’indecente moda anti-russa che oggi disgraziatamente va per la maggiore.
E’ certamente un riflesso condizionato da vecchi anticomunisti che non si rendono conto, o non vogliono rendersi conto che la Russia di oggi non è più l’Unione Sovietica.
Non c’è da meravigliarsene. La psicologia sociale ha da tempo messo in luce il fenomeno del ritardo culturale. Detto in soldoni, le persone tendono a pensare e ad agire non in base tanto a principi e concetti funzionali all’epoca in cui effettivamente vivono, ma a quella in cui la loro mentalità si è formata. E’ un fenomeno con cui dobbiamo fare i conti, ma non abbiamo motivo di vergognarcene. Pensiamo a quello che accade a sinistra, dove una sinistra che si è rimodellata a imitazione dei dem americani, ha del tutto abbandonato la causa dei lavoratori italiani, per abbracciare quelle di gay e migranti. Senza il ritardo culturale, l’elettorato di sinistra si ridurrebbe a una pattuglia scheletrica.
Premesso tutto questo, torno a occuparmi dei testi della mia libreria.
La volta scorsa ho accennato all’amplissimo testo del giornalista Robert Fisk Cronache mediorientali, che con la sua stessa ampiezza documenta l’importanza ossessiva che gli accadimenti in quella regione hanno assunto nella politica internazionale, è se ci pensiamo bene, è un autentico assurdo che cittadini dei prosperi e potenti USA si sentano minacciati, ad esempio, da un cambio della guardia che avviene tra le tribù dei poverissimi pastori delle montagne afgane.
Un libro che in qualche modo si collega al ponderoso volume di Robert Fisk, è l’opera di un’altra giornalista, la francese Anna Erelle, Nella testa di un jihadista. Devo però dirvi che la lettura di questo libro, più che deludermi, mi ha procurato una forte irritazione.
Prima di tutto, in questo libro si nota il vezzo tipicamente di sinistra di considerare europei gli immigrati di seconda generazione. Sapete come si chiama il reclutatore a cui la Erelle si rivolge per riuscire a infiltrarsi sotto mentite spoglie nell’organizzazione jihadista? E’ il “francese” Abu Bilel. Notate che nome transalpino, celtico direi!
Quello che la sinistra si rifiuta di capire, e cerca di non farci capire, è il semplice fatto che questi immigrati non si integreranno mai, e d’altra parte, perché dovrebbero, visto che sono in attesa di soppiantarci grazie alla loro esuberanza demografica da noi scioccamente mantenuta?
Il libro prosegue poi con una tirata contro la condizione della donna in Iran. Perché prendersela proprio con l’Iran quando la condizione della donna è pessima in tutti i Paesi islamici?
Non è certo migliore, ad esempio nella “moderata” Arabia Saudita. “Moderata” significa naturalmente amica degli Stati Uniti, mettiamo che andiate da quelle parti e vi sorprendano con una bibbia o una bottiglia di vino. Vi faranno provare a frustate tutta la loro “moderazione”.
La vera ragione di tanta ostilità, è ovviamente la coraggiosa opposizione dell’Iran alla politica criminale condotta nella regione dall’entità sionista e dal colosso a stelle e strisce.
Quanto al jihadismo, vogliamo dire su questo fenomeno una parola di verità?
Le principali organizzazioni jihadiste sono state Al Qaeda e l’ISIS (sono state nel senso che oggi l’ISIS sembra aver del tutto soppiantato Al Qaeda), e già qui notiamo subito una stranezza: Al Qaeda è stata creata dalla CIA per raccogliere miliziani islamici volontari da inviare a combattere in Afghanistan ai tempi dell’invasione sovietica del Paese, poi è sembrato che il servizio segreto americano avesse del tutto perduto il controllo della sua creatura, che ha organizzato gli attentati dell’11 settembre 2001, ma le cose sono andate davvero così? Vi sono stati aspetti molto strani in quegli attentati, a cominciare dal fatto che la distruzione delle Twin Towers presupponeva un’organizzazione e una competenza tecnica di cui difficilmente i jihadisti potevano disporre. Vi è il sospetto che si sia trattato di un’operazione di False Flag creata apposta per scavare un solco di odio sempre più profondo fra Stati Uniti e occidente in genere, e mondo islamico, un’operazione simile a quella condotta nel dicembre 1941, quando il governo americano finse di essere stato sorpreso dall’attacco giapponese a Pearl Harbor dopo aver messo in salvo le indispensabili portaerei e lasciato le obsolete corazzate a fare da bersaglio.
Il giornalista Maurizio Blondet scrisse un libro sull’argomento, Auto-attentato in USA, in cui diede voce a questi sospetti, e come risultato fu licenziato dal giornale “L’Avvenire” per il quale lavorava, segno probabilmente che ci aveva azzeccato.
La storia dell’ISIS è ancora più strana. Questa organizzazione terroristica non ha mai colpito un obiettivo sionista o americano. Non solo nei suoi covi in Siria sono stati trovati munizioni e medicinali di produzione israeliana, ma addirittura vi è stato catturato un colonnello del Mossad, il servizio segreto israeliano che si trovava lì come addestratore dei miliziani. Dopo l’ignominiosa fuga degli Americani da Kabul che ci ha ricordato tanto quella da Saigon, e dopo che, con la loro partenza, i Talebani hanno ripreso il controllo dell’Afghanistan, l’ISIS si è rifatta viva con una serie di attentati contro questi ultimi.
L’ultimo capitolo della saga jihadista è stato almeno per ora rappresentato dal rovesciamento, a opera di un gruppo di questi fanatici, del governo siriano filo-russo di Assad, e dietro ciò non è difficile intravedere le manine della CIA e del Mossad, cioè degli USA e di Israele e, cosa di cui da noi si bisbiglia appena, sono subito cominciate le persecuzioni contro le minoranze religiose di questo disgraziato Paese, alawiti e cristiani. Certamente, e se non è già successo, la stessa sorte toccherà presto alle minoranze etniche come i Curdi siriani.
La conclusione è abbastanza ovvia, il jihadismo è un fenomeno di fondamentalismo religioso che, come tale, fa appello alle parti meno razionali della mente umana e che facilmente, mediante l’uso di qualcuno che riesce a presentarsi come un leader carismatico, può essere orientato verso obiettivi diversi o del tutto opposti a quelli che gli adepti credono di perseguire.
Adesso ci spostiamo in un contesto diverso, ma forse non tanto, da quello mediorientale. Vi parlo di un libro finito nella mia biblioteca in modo abbastanza casuale, Antiche come le montagne, che è una raccolta di scritti, aneddoti, aforismi del Mahatma Gandhi. Diversi anni fa ero iscritto a un club del libro, che permetteva acquisti a prezzi contenuti, ma bisognava acquistarne periodicamente con una certa frequenza, così scelsi questo piuttosto che un romanzetto banale.
Devo dire che la dottrina della non violenza non mi ha mai persuaso. Nel mondo in cui viviamo, che non è quello di Utopia, è necessario disporre della forza sufficiente a scoraggiare la violenza altrui, e della disponibilità a usarla in caso di necessità. E tralasciamo il fatto che questa dottrina ha avuto da noi epigoni più ridicoli che utopici, come il non rimpianto Marco Pannella.
Comunque, già che c’ero, mi misi a leggere il libro. A un certo punto, trovai qualcosa che mi lasciò letteralmente basito. Gandhi racconta che gli fu domandato come si sarebbe comportato se avesse avuto una pistola in mano e avesse visto un maniaco inseguire sua figlia per stuprarla.
La risposta del Mahatma fu che avrebbe sparato alla figlia per poi esporsi inerme alla furia del suddetto maniaco.
Una risposta che sulle prime mi parve totalmente assurda. Dovendo per forza commettere un atto di violenza, tra il sopprimere la vita di un maniaco stupratore e quella di una ragazza innocente del proprio sangue, la sua scelta mi parve del tutto irragionevole. Poi, credo di averne compreso la ratio. Per lui, una figlia o un figlio era semplicemente un’estensione di sé stesso, e quindi ucciderla non era violenza, ma semmai un atto di autolesionismo. Mahatma, “grande anima”, forse, ma prigioniera di una mentalità del tutto anacronistica.
Più in generale, è arrivato il momento di dire qualcosa sull’azione politica di Gandhi. Certamente, durante la seconda guerra mondiale i fascismi guardarono con simpatia all’induismo e alla ribellione gandhiana in funzione anti-inglese, come avvenne del resto anche verso l’islam, ma con risultati nulli, perché lo stesso Gandhi aveva ordinato ai suoi seguaci di sospendere la lotta contro l’Inghilterra fino a che l’Asse non fosse stata sconfitta.
In linea di massima, possiamo dire che la non violenza funziona finché è possibile fare appello a un fondo di umanità presente nell’avversario, ad esempio, è possibile fermare un treno sdraiandosi sui binari se chi lo guida si ferma piuttosto che investirci, ma se lo stesso decide di proseguire ugualmente la marcia, diventa un gesto suicida. Ora, una caratteristica fondamentale del comunismo, è proprio quella di abolire questo fondo di umanità. A riprova di ciò, mentre la non violenza gandhiana permise all’India di liberarsi degli inglesi, gli stessi metodi si rivelarono del tutto inefficaci e controproducenti nell’ostacolare l’invasione cinese del Tibet. In un mondo di lupi, non conviene essere pecore.
Ma naturalmente, Gandhi non rappresenta tutto l’induismo, e qui il discorso si fa più complesso.
A complicare psicologicamente le cose da parte nostra, c’è il mito ariano, vale a dire la leggenda secondo la quale l’India sarebbe stata l’Urheimat, la patria ancestrale degli indoeuropei, e molti hanno visto, o vedono ancora oggi nell’induismo un’alternativa alle religioni abramitiche che disgraziatamente dominano l’Occidente. Io mi aspetto che a questo punto a più di uno venga in mente la figura di Savitri Devi, ma mi chiedo se alla conversione all’induismo di questa donna, in realtà di nazionalità francese, si debba dare maggior peso di quella di Renè Guenon all’islam.
Come vi ho spiegato altre volte, la leggenda dell’India come Urheimat ancestrale degli Indoeuropei si fonda su di un errore piuttosto grossolano compiuto dai linguisti tedeschi dell’ottocento che identificarono il sanscrito, la lingua dei Veda, i testi sacri induisti, come la lingua indoeuropea primordiale, ma il fatto che si sia trattato della più antica lingua scritta, non implica che sia stata la più antica a essere parlata.
Dietro questo errore si vede che lo strabismo orientale ha colpito ancora, che la leggenda della luce da oriente, cacciata dalla porta è rispuntata dalla finestra.
E’ molto più verosimile, a mio parere, che all’origine della famiglia indoeuropea, non vi sia stata una migrazione dall’India verso l’Europa, ma, al contrario, dall’Europa verso l’India. Anche il termine “indoeuropei” è in realtà inadeguato. Euro-indo-iranici sarebbe più rispondente allo stato reale delle cose. Ma adesso eviterò di addentrarmi ulteriormente in una questione a cui sulle pagine di “Ereticamente” ho dedicato ben trentasette articoli.
Questo, naturalmente, non significa che l’induismo sia tutto da buttare. I pensatori tradizionalisti si sono ispirati a esso per la dottrina delle quattro età, e non dimentichiamo il saggio di Tilak La dimora artica nei Veda, che ci illumina sulla natura nordica delle nostre lontane origini.
Ma a mio parere sono sempre l’Europa e la cultura europea che vanno ritenute come centrali.
NOTA: Nell’illustrazione, a sinistra Cronache mediorientali di Robert Fisk, al centro Nella testa di un jihadista di Anna Erelle, a sinistra Antiche come le montagne di Mohandas Gandhi.



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