VI
Illusione e realtà
“Niente ti può guidare come l’illusione”
(Ibn ‘Ạt̄a’ All̄ah)
Il limite ovvio e naturale di ogni immagine del mondo è il suo carattere immaginario. Ogni Imago Mundi è solo un riflesso della realtà, ovvero qualcosa che si mostra alla nostra coscienza passando attraverso i filtri dei sensi, dei concetti, dei ricordi e del linguaggio. È in fondo un atto magico, irruzione in noi di forme e apparenze.
Ma immaginare non significa illudersi. Anche perché, per quanto ci consta, questa dimensione immaginale potrebbe essere l’unica realtà concreta. Vivekananda – filosofo e mistico indiano – diceva che la differenza tra induisti e buddisti è che per i buddisti la realtà è illusione, mentre per gli indù l’illusione è realtà.
La Maya, il velo dell’apparenza, può quindi esser vista sia come potere di occultamento del reale sia come Shakti, Potenza feconda, generatrice di ogni manifestazione. Potremmo dire, in altro modo, che lo spirito è materia così come la materia è spirito, e che in fondo basta cambiar di poco la prospettiva per passare da una concezione scientifico-materialistica a una mistico-spirituale.
Che senso ha voler distinguere ciò che è vero da ciò che è illusorio? Un sogno non è forse reale, finché si sogna? Ritenere alcune cose più concrete di altre è un’inconscia abitudine. Tutto ciò che è corporeo ci appare eminentemente concreto. Idee e sentimenti già appaiono sospetti. L’amore o la fede, ci rendono ciechi o, al contrario, ci fanno vedere cose reali, che ad altri restano invisibili? Per molti ente concretissimo è il denaro, che pure è solo un simbolo astratto.
E infine, a chi confida nella maggior o minor realtà delle cose, potremmo chiedere: «tu, sei reale?». Perché questo io che giudica del valore delle sue esperienze non sembra egli stesso concreto. Potrebbe essere una mera convenzione linguistica. D’altro canto, solo un pazzo penserebbe di non esistere. Ma anche un’allucinazione esiste, e tuttavia la diciamo irreale. Dunque, potremmo oggettivamente dubitare della nostra esistenza.
Capire cosa sia reale non è un problema astratto ma una concreta necessità. Il miraggio dell’acqua non può dissetarmi, una sottile superficie ghiacciata non può sostenermi. Su ogni illusione incombe una delusione, ovvero una sofferenza. Se voglio realizzarmi – cioè vivere una vita non illusoria – occorre che io comprenda i miei bisogni reali e cosa può realmente soddisfarli.
Questo discernimento viene oggi ostacolato da una proliferazione di bisogni immaginari, cui corrisponde una produzione di beni illusori. Ma forse è più corretto dire che oggi un’enorme offerta di beni inutili rende necessario stimolare una relativa domanda basata su bisogni fittizi. Prima si creano i mezzi e poi si trovano i fini. Ed è forse qui l’origine di tanti mali.
Allo stesso modo, si inducono paure immaginarie e si propongono irreali rimedi. Una cappa di pericoli – sanitari, politici, climatici, militari, economici – ci tiene in stato di ansietà sistematica, nell’attesa di eventi salvifici, di formule liberatorie. Siamo, come Don Chisciotte, vittime di incantamenti, incalzati da invisibili maghi. E ciò è davvero paradossale!
L’uomo di oggi è infatti convinto d’avere un’immagine del mondo ripulita da credenze e illusioni, fondata solo su dati concreti. Ma la sua coscienza trasuda slogan, propaganda, notizie futili, polemiche inconcludenti, il suo realismo si nutre di narrazioni mediatiche e manicheismi paranoici. Non siamo esseri concreti ma frammenti di una coscienza spersa in un universo di parole vuote.
Siamo naufraghi in quel mare che oggi vien detto distrazione di massa. Ma distrazione da cosa? Secondo la vulgata, l’opinione pubblica viene colpevolmente attratta su certi eventi per distoglierla da fatti più importanti e impedire alla gente di sapere cosa accade davvero nel mondo. Occorre quindi una controinformazione che dica la verità (sic!).
Ma anche chi pretende di svegliarci dall’ipnosi collettiva non fa che favorire una diversione della coscienza. Una ragnatela di messaggi incatena l’uomo all’esteriorità e gli impedisce di volgersi a sé stesso. Politica, società, storia, scienza, economia, sesso, salute, messaggi extraterrestri, spiritismo o apparizioni della Madonna, è indifferente. Il continuo cicaleccio ci distoglie dal nostro Sé.
E la verità, senza conoscenza di sé, è solo un mito pericoloso. Perciò sul tempio di Apollo si leggeva quella celebre esortazione, che oggi, sui nostri templi idolatri, diventa: “disconosci te stesso”. Ogni cosa ci stimola a uscire e allontanarci da noi. Siamo indotti all’oblio della nostra natura, all’incomprensione del nostro significato, chiusi in una realtà puramente secolare.
Una conoscenza oggettiva, che chiarisca nessi fenomenici, esamini fatti, raccolga dati, ricerchi cause e proponga soluzioni, è certamente utile. Ma tutto ciò oggi produce un’amnesia del Sé. Ci fa dimenticare chi sia il Soggetto che conosce, chiarisce ecc., e perché lo faccia. E come possiamo essere concreti se non ci è chiaro chi siamo e cosa vogliamo?
Predichiamo un Bene – personale o comune – fatto di comode astrazioni. Perciò siamo tutti così buoni, solidali, tolleranti, in abstracto. Veniamo sradicati dalla realtà dell’anima e innestati in una dimensione di illusoria comunicazione verbale, convinti della concretezza di immaginarie enunciazioni sull’umanità, la giustizia, la pace, l’impegno sociale, il progresso ecc.
Ma quando cerca di migliorare il mondo l’uomo ricorda quelle scimmie che protestavano perché ricevevano quattro banane al mattino e tre la sera. Il padrone stabilì perciò che avrebbe dato loro tre banane al mattino e quattro la sera, e le scimmie furono contente. In questo sta tutto il progresso, il nostro potere di cambiare la storia: spostare gli addendi di una somma che resta sempre uguale.
Tutto ciò che ci sembra concreto e tangibile non è infatti che la materializzazione di processi mentali. I nostri conflitti, i nostri traffici, i nostri problemi oggettivi, sono un riflesso delle nostre idee e delle nostre passioni, e finché non cambieranno queste neppure il mondo cambierà, nonostante i proclami, la buona volontà e le migliori intenzioni.
Quella che definiamo esistenza concreta è figlia di una volontà e di una visione. Perciò è essenziale vedere in noi stessi, ripulire il nostro occhio interiore, rimuovendo le cataratte e le lenti deformanti che la società ci impone. Andare al cuore delle cose non vuol dire essere informati dei fatti e delle opinioni ma calarsi nel mistero del proprio essere. E questo richiede purificazione e digiuno.
Non ci serve ascoltare le opinioni degli esperti, saltare da un argomento all’altro come pulci affamate dando piccoli morsi al vuoto. Non abbiamo più denti per masticare la verità, né uno stomaco per digerirla. Ingeriamo pensieri omogeneizzati, ridotti allo stato liquido. Idee e immagini passano direttamente dalla bocca all’ultimo tratto di intestino, dove vengono mollemente evacuate.
Siamo concreti? Io direi che più concreto di noi è quel somaro che avanza a colpi di bastone o inseguendo la carota che ha davanti al naso. A noi bastano infatti le ombre di bastoni e di carote. E se a far ragliare un somaro contro la sua volontà, come diceva Cervantes, non basta un abate con i suoi quaranta frati, noi ragliamo ogni qual volta ci venga ordinato.
Credo che l’uomo non sia mai stato tanto illuso e poco concreto come oggi; mai così lontano dal saggio e solido fondo della sua anima. Si può obiettare che l’anima è un’illusione. È lecito crederlo e chiederselo. Ma la logica non può rispondere alla domanda: “chi sono io?” Solo un’intuizione intima, incomunicabile, mi può rivelare a me stesso e chiarire la mia identità.
Non possiamo, su tale materia, chiedere oracoli a una scienza che, moderna Pizia, inala i vapori tossici della ragione, interrogare un’economia disumana, una società che vuol darci un’identità digitale. Né ci possono soccorrere una religione ridotta a predicozzi sociali e buoni sentimenti, una filosofia che si arrampica sugli specchi, una psicologia fatta di statistiche.
Solo il destino, un grande dolore, una grazia, possono liberare quelle forze mistiche che permettono una comprensione della realtà, un’unità di vita e pensiero in cui ritrovare il proprio volto originario. Allora, se mi apro al mio essere, sono messo sulla Via da segni, presentimenti, sogni. Il razionalista dirà che è illusione. Pretenderà un linguaggio più concreto e rigoroso, dimostrazioni oggettive.
Il misticismo esprime infatti una logica femminile, che procede a balzi, sorvolando con noncuranza i sillogismi. È la ragione del Sé, esprit de finesse che la ragione geometrica rifiuta. L’intelletto gravato da un presunto realismo scientifico ridurrà quindi l’anima ai termini dell’evoluzionismo, della fisica quantistica o delle neuro-scienze, trasformandola in una inafferrabile fata Morgana.
Ed è giusto così. Le pesanti catene del razionalismo tecno-economico-scientifico sono il Karma che lo spirito deve oggi accettare, il suo compito storico. Rappresentano la caverna di ombre in cui l’uomo moderno è rinchiuso. L’anima che vuole uscirne dovrà disincantarsi, «concentrarsi tutta in sé, tener per vero solo ciò che essa da sé intende, e non credere vero ciò che vede per altri mezzi».

