V
Egoismo etico
“La morale non è nulla più che la regolarizzazione dell’egoismo”.
(Jeremy Bentham)
“Cosa devo fare?” è forse la domanda che più spesso ci poniamo nel corso di una vita. Appena nati affrontiamo tale questione inconsciamente, e vi rispondiamo spinti da potenti stimoli fisiologici. Nel corso del tempo la riformuliamo poi in termini più astratti, applicandola a casi particolari e generali, cercando di capire quale sia il modo giusto di comportarsi e di vivere.
Ma che significa il ‘modo giusto’? Quello più opportuno, più conveniente, più conforme al fine che mi propongo? L’etica che governa le mie azioni sarebbe allora un mero strumento dei miei scopi personali. O esistono altre ragioni, più oggettive, cui ispirarmi? Norme che non dipendano da finalità individuali o sociali sempre mutevoli, ma da principi stabili e universali.
L’idea di un’etica cosmica, indipendente da disegni umani, ha prevalso di fatto per lungo tempo. Presso ogni popolazione troviamo una generale concezione dei doveri umani che, nonostante le oscillazioni dovute a situazioni storiche e culturali diverse, appare saldamente ancorata ad alcuni fondamenti immutabili.
Nell’Avesta il retto comportamento è riassunto così: buoni pensieri, buone parole, buone opere. Dovremmo però capire cosa Zoroastro intenda qui per ‘buono’. Si può dire che “buono è ciò che tende al bene”, ma sarebbe una tautologia, e in mancanza di un’indicazione più specifica e vincolante ognuno potrebbe dare del bene un’interpretazione volubile.
Nel Decalogo biblico troviamo un’etica espressa in forma negativa, ossia non attraverso una definizione positiva del bene, ma la proibizione di comportamenti malvagi. Non uccidere, non rubare, non mentire ecc., riassumono in fondo l’idea di Confucio: “non fare ad altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. E credo sia questo anche il fondamentale proposito di Zoroastro.
Lao-Tze allude a “tre tesori” che il saggio custodisce gelosamente: la compassione (il termine cinese indica una sorta di amore materno), la frugalità (cioè una vita semplice, temperante) e l’umiltà (il porsi non sopra gli altri ma al loro servizio). Secondo Mozi, grande filosofo cinese del V secolo a. C., l’uomo dovrebbe conformarsi alla Volontà del Cielo, la quale è amore universale, cura imparziale per tutti gli esseri senza distinzione.
La sostanza di tale idea si ritrova nel jainismo, nel buddhismo e, più recentemente, nella dottrina di Schweitzer sul ‘rispetto della vita’. Mozi credeva, forse ingenuamente, che tale attitudine – il provvedere agli altri – fosse naturale per l’uomo. Il che sembra smentito dal fatto che in genere dimentichiamo di amare il prossimo e di aver compassione delle altre creature, mentre nessuno ha mai dovuto ricordarci – o comandarci – di mangiare, far sesso o dormire.
I presupposti dell’etica tradizionale sono essenzialmente religiosi. Zoroastro, Mosè, Buddha, Lao-tze, Cristo, fanno discendere il dovere etico da una Legge universale: Dio, Tao, Dharma. Lo stesso Confucio, il quale sembra ispirato da un umanesimo razionalista, è convinto che le leggi morali siano impresse ab initio nel cuore dell’uomo, e che si possa essere felici solo seguendo la Via, rispettando l’Ordine metafisico da cui ogni essere dipende.
Anche gli Stoici, da cui il cristianesimo fu influenzato, vedono il Bene nella partecipazione dell’uomo a una Ragione eterna. Allontanarsi dal Logos, fuorviati dalle proprie passioni, è causa certa di dolore, e somma ignoranza, perché è vano opporsi alla Ragione. «Ducunt volentem fata, nolentem trahunt», il Fato che ci sovrasta ha ragione di ogni nostra ribellione.
Esiste tuttavia anche un razionalismo etico – che nasce probabilmente con Socrate e i suoi laboriosi sillogismi – secondo cui la ragione umana può discernere da sé il bene dal male, il giusto dallo sbagliato. L’uomo occidentale ha accolto in sé tanto un’etica della rivelazione quanto un’etica della razionalità, ma raramente ha mostrato una significativa coerenza con i suoi principi.
I motivi di questa contraddizione sono diversi. Una fede vacillante, o una ragione in difficoltà di fronte alle incognite, incapace di decidere secondo un’analisi completa dei fini, dei mezzi, dei valori implicati nella scelta e delle sue possibili conseguenze. E poi esiste una comune incompatibilità tra l’etica del dovere e quella del piacere.
Di solito superiamo questo conflitto seguendo le nostre passioni, accantonando o stiracchiando i nostri ideali teorici per assecondare le nostre naturali inclinazioni. È questo il motivo per cui, volendo ottenere un minimo rispetto delle leggi, si è sempre fatto ricorso alla minaccia di ammende, della galera, della tortura, della morte.
Pare così dimostrato che l’unica etica realistica sia quella legata all’interesse. E più della speranza conta la paura. Il Principe non deve essere amato ma temuto, i predicatori medievali rammentavano alla gente i supplizi dell’Inferno più che le gioie del Paradiso, e la legge prevede pene, non premi. Da sempre il Potere tratta gli uomini come cani da addestrare con la frusta e legare a una catena.
Un tempo era la religione ad ammaestrarci, a dirci cosa è bene o male, vizio o virtù, motivo di ricompensa o di condanna, causa di felicità o di sofferenza (presente e futura), a fornirci un completo manuale di istruzioni per vivere. Utile vademecum, che tuttavia mostrava un precario equilibrio tra fede e ragione, lasciando alla coscienza ampi margini di compromesso.
L’uomo di oggi ha superato tale problema – conciliare le forme della rivelazione con la razionalità – scegliendo come unica guida la ragione, la conoscenza di fatti osservabili e sperimentali. “Lo dice la scienza” è per lui garanzia di certezza assoluta. Viceversa, “lo dice la Bibbia” gli evocherebbe quell’incantato “c’era una volta” che da bambino gli annunciava una fiaba.
Per una mente educata con criteri storico-razionali è assurdo subordinare i comportamenti sociali a una religiosità ridotta ormai a diversivo – come l’amore per le stampe cinesi o il collezionare francobolli. L’etica va quindi rivista secondo criteri scientificamente dimostrati, riformulata da premesse diverse, da un ripensamento scientifico dei giudizi e dei valori.
Progetto per ora ambiguo e vago, ché in realtà abbiamo tenuto lo scheletro della vecchia morale, nascondendo sotto panni laici le sue imbarazzanti forme religiose. Procediamo per inerzia, usando enunciati generali cui siamo da secoli abituati Ma se vuol essere coerente con i nuovi presupposti intellettuali, l’etica non può più basarsi su rivelazioni numinose, deve offrirci una conoscenza scientifica della natura umana che chiarisca gli scopi razionali della nostra esistenza.
Dunque, perché viviamo? La scienza ha elaborato un certo numero di ipotesi sulle cause fisiche della vita, teorie a volte affascinanti, benché forse meno logiche di una Causa divina. Ma se chiediamo quale sia lo scopo del vivere, la scienza dirà che non è di sua competenza – il che è paradossale, detto da chi crede di poter spiegare tutto.
In effetti i tentativi di render la morale un fatto oggettivo, suscettibile di calcoli esatti, son naufragati in un mare di contraddizioni. La scienza può aiutarci a trovare un’etica dei mezzi, ma non dei fini, e non ci autorizza a giudicare una società in cui è lecito rapinare, assassinare, stuprare ecc. meno ammissibile e legittima di una in cui tali comportamenti sono vietati.
Quindi, in che modo distinguere razionalmente il bene dal male? Si potrebbe dire che è la natura stessa a orientarci verso ciò che è bene. Basta osservare come un neonato, senza saper nulla di grassi, zuccheri e aminoacidi, né avendo alcuna idea del proprio stomaco, cerchi il latte e già ami, seppur ancora oscuramente, una madre di cui ignora l’esistenza.
Pare dunque che l’uomo sia provvisto di un innato e inconscio sensus sui, cioè di una innata nozione del suo essere e dei suoi bisogni, e di un amor sui, ovvero di una naturale propensione a prendersi cura di sé stesso. Ma il bambino avverte anche un quid – un altro – da cui dipende la sua vita, e la cui esistenza va quindi tutelata. Sarebbe perciò latente in noi, come pensava Mozi, un amor omnium naturalis. Tuttavia, tale amore non è imparziale, e può mutarsi in odio o indifferenza.
Come sentiamo il dovere di provvedere a noi stessi, dovremmo sentire anche quello di proteggere ciò da cui dipende il nostro benessere. Non si tratta però di una scelta morale. È piuttosto l’estensione di un dovere naturale. In sostanza, siamo costretti a rispettare quello che la natura ci impone. Infatti, non è più un Dio comprensivo a governarci ma dobbiamo ubbidire a una natura inflessibile, retta da una Necessità che non prevede alcun libero arbitrio.
I nostri fini saranno dunque la soddisfazione dei bisogni e desideri che la natura ci detta. In tal caso, l’etica non sarebbe che un egoismo travestito, emendato dall’interesse e corretto dalle parole. E date le nostre premesse scientifiche, aderenti a una concreta oggettività, non si vede quale diritto abbia la società di imporre agli individui leggi che interferiscono con un ordine naturale.
Ora, se non esiste altra realtà oltre la Legge che scientificamente governa i fenomeni naturali, l’unica norma che regoli la nostra società dovrebbe essere il rispetto di un ipotetico stato di natura. Tuttavia si può dubitare che tale stato sia mai esistito, se è vero, come qualcuno ha detto, che “la cultura è la natura dell’uomo”. Il concetto stesso di naturale si fa dubitabile.
E questa naturalezza sarebbe più un incubo che un’utopia. La Natura, come la scienza oggi la concepisce, non è infatti un Padreterno severo ma comunque disposto al dialogo, alla comprensione, al perdono. È al contrario un tiranno cieco che non conosce pietà, che si affida solo alla forza e al caso, regno di forze caotiche dalle quali non può certo uscire un ordine razionale o etico.
Voler spiegare razionalmente la natura è quindi un paradosso. Il mondo è solo un casuale bellum omnium contra omnes, perenne scontro fra contrapposti istinti vitali, dove i più forti, i più astuti, i più coraggiosi o i più fortunati prevalgono e gli altri soccombono. Realtà sotto gli occhi di tutti ma che non sappiamo accettare, perché contraddice il nostro casto ideale di società civilizzata.
Una via d’uscita da questo impasse consiste nel sostenere che, anche ammesso il suo incoercibile egoismo, l’uomo è, come altri mammiferi che vivono in branco, un animale sociale, portato a forme di cooperazione con i suoi simili. Il suo egoismo deve perciò conciliarsi con l’egoismo degli altri e convertirsi in forme, sincere o simulate, di altruismo, di reciproca cura e protezione.
L’uomo, dal momento in cui nasce, deve trattare con formidabili interlocutori: il Dolore, la Fame, la Paura. È quindi comprensibile che il suo interesse per gli altri sia legato alla necessità di trovare qualcuno che lo medichi, lo sfami, lo protegga. Spiegazione che pare molto razionale.
La nostra etica ci è così fornita dalla ragione, dal riconoscere ciò che razionalmente più si confà al bene comune, senza dover più immaginare un Dio che ci impone i suoi arbitrari Comandamenti e ci ordina di osservarli sotto la minaccia di eterne punizioni, o promettendo eterne ricompense alla nostra docile ubbidienza.
Il Bene non è che l’egoismo biologico che evolve in egoismo etico, passando dal suo stadio di primitivo opportunismo a forme più evolute, filtrate dalla riflessione razionale, mediante il calcolo di utilità sociali e individuali. E il Male non è che il regredire al proprio egoismo originario, fatto di passioni e volontà oscure, prive dei lumi della ragione.
Quindi solo la Scienza può costruire una società giusta, rivelarci a noi stessi, dirci di cosa abbiamo bisogno, quale strada prendere. E un giorno non lontano confideremo le nostre perplessità a un congegno nei cui microscopici circuiti è racchiusa ogni conoscenza, ogni verità. Metteremo così fine alle nostre eterne domande sull’anima, sull’amore, sulla morte, su Dio.
L’uomo, ignaro di sé, chiuso nella superficiale finitezza delle sue proporzioni biologiche, delle sue funzioni urbane e sociali, non vedrà più la sua ombra metafisica. I suoi atti e pensieri diventeranno fili manovrati dai suoi demoni, o fragili difese contro i dubbi che ha rimosso. Vivrà allora come un fantasma che trascina con sé le sue catene.
Ma non è un Fato già scritto. Perché l’uomo è animale paradossale e contraddittorio, ossimoro vivente. Egoista ma pronto alla penitenza, alla rinuncia, al sacrificio, infinitamente stupido, infinitamente avido, infinitamente crudele, ma sempre infinito. È un essere cui l’epiteto di animale politico va stretto, perché non riflette la profondità del suo spirito. È animale metafisico.
Non si esaurisce nelle sue utilitaristiche transazioni con il mondo. È etico non per egoismo, ma perché la su libertà originaria lo orienta al rispetto della vita. Solo così rispetta sé stesso. E nei suoi atti colpevoli intuisce qualcosa di immateriale e simbolico, che lo rimanda a un oltre metafisico. Perciò ogni suo gesto dialoga con la trascendenza. Come il neonato cerca il seno di una madre che non conosce, l’uomo cerca un Dio ignoto, nascosto dove nessuna scienza o algoritmo può trovarlo.


