18 Ottobre 2025
Filosofia

Immagini del mondo (III) – Una scienza senz’anima – Livio Cadè

III

Una scienza senz’anima

« Scienza senza coscienza non è che la rovina dell’anima».

(François Rabelais)

 

Forse c’è del vero nell’idea che ogni crisi sia un’opportunità, un’occasione di crescita. Perché divenga tale occorre però coglierne il senso, e questo richiede pazienza, coraggio e lucidità, una stretta alleanza tra forze intellettuali, morali e spirituali. Ma oggi è opinione comune che i problemi si risolvano solo in modo scientifico.

Le affermazioni della scienza cadono su di noi come sentenze oracolari. Quindi, la mia idea che proprio la scienza sia stata causa di una crisi di civiltà – crisi che si manifesta in un collasso di valori morali, intellettuali e spirituali – può apparire dissacratoria o paradossale. Anche ammettendo che la nostra società sia per molti versi problematica, si dirà che altre ne sono le ragioni.

Se siamo convinti che la scienza abbia portato all’uomo tanti oggettivi benefici, se nei suoi presupposti, nelle sue metodologie e nei suoi apparati vediamo la risposta alle nostre necessità e alle nostre domande, ci sembrerà assurdo accusarla d’esser responsabile di difficoltà che dipendono invece, a nostro giudizio, da fattori sociali, politici, economici.

Vorrei premettere che verso la scienza intesa come conoscenza e ricerca di verità, non nutro alcuna ostilità. Consento anzi con l’idea che l’ignoranza sia il primo nemico da combattere. Ammiro quindi quell’intelligenza che, cercando di emanciparsi da congetture e da credenze fantastiche, “fa i conti con la realtà”, esperimenta, osserva, ragiona.

Ma che significa ignorare? Si può conoscere a fondo l’atomo e non sapere quali siano i veri bisogni dell’essere umano. È chiaro inoltre che chi voglia indagare sulla realtà deve avere un’idea preliminare dell’oggetto della sua indagine. E a me pare che la scienza – come è oggi comunemente intesa – difetti appunto nel concepire la realtà, che ne ignori la profondità.

In questo gli scienziati mi ricordano quei ciechi che tastavano un elefante senza capire cosa fosse, avanzando strampalate ipotesi. La cecità scientifica, a mio avviso, ha radici nel pregiudizio di sapere già, a priori, cosa sia reale e cosa non lo sia. E un tale preconcetto ha prodotto un restringimento nel campo visivo della coscienza, una contrazione di quei significati che ci rendono più pienamente intelligibile la vita.

Trovo perciò improbabile che una scienza così estranea alle fondamentali questioni dell’essere possa renderci più felici, più sani o più sicuri. Ho al contrario l’impressione che, di pari passo col procedere delle sue razionali conquiste, il mondo sia diventato un luogo più triste, malato e pericoloso. Tuttavia, secondo il comune sentire, la colpa è di chi ha fatto della scienza un uso scellerato, piegandola alle passioni umane.

La scienza, dunque, non avrebbe che una colpa preterintenzionale. Se la tecnologia ha beneficiato della conoscenza scientifica per cavarne applicazioni che hanno finito con l’eclissare ogni principio di sapere disinteressato, trasformando la scienza stessa in un’ancella del profitto industriale, del controllo politico, della forza militare, questo, si dirà, esorbita da ogni genuina finalità scientifica.

Possiamo incolpare solo la natura umana e le sue inclinazioni malvagie se il carattere di avventura intellettuale della scienza si è ridotto alla sua utilità in relazione a scopi di arricchimento materiale, di sorveglianza sociale, di terrore, di distruzione, se la società ha così conosciuto abusi e soprusi più radicali di quelli cui la storia ci aveva abituati, scoperto nuove forme di tirannia fisica e mentale.

In effetti sembra più logico ricondurre questo discorso nell’ambito della solita critica dei comportamenti sociali – critica inutile degli effetti senza capirne le cause – lamentandoci una volta ancora dell’egoismo, della crudeltà e della corruzione imperanti. E uno sguardo al passato sicuramente ci confermerà che gravi violazioni dei diritti umani sono comuni nella storia, e che sempre l’uomo ha fatto un pessimo uso del suo sapere.

Dopo questa ovvia constatazione occorre però notare come la scienza moderna non abbia semplicemente offerto nuovi potenti strumenti alla cupidigia e alla sete di potere ma come, imponendoci una nuova immagine del mondo, l’idea di una natura in sé amorale e priva di qualsiasi trascendenza, abbia nutrito e incoraggiato, direi scientificamente legittimato il nostro lato maligno.

La nostra tendenza a usare il prossimo come una cosa ha trovato nella scienza un avallo razionale,  trovando complicità in un pensiero essenzialmente demonico, semplice testimone di una trama di cose e di forze. Dai suoi intrinseci fondamenti abbiamo tratto modelli intellettuali privi di cuore e di umanità, destituendo antichi valori spirituali e mutando radicalmente le nostre idee sull’uomo, sulla verità e sulle leggi che governano l’universo.

E per quanto la scienza sembri volersi emancipare da ipotesi meccanicistiche elaborando speculazioni sempre più sottili sulla natura della realtà, evocando dimensioni chimeriche e mondi virtuali, questo non richiama certo la nostra coscienza a limiti più umani ma al contrario la spinge verso una visione del mondo ancor più stravolta e disumana.

Una “scienza senza coscienza” non solo è dunque possibile, ma pare che la scienza non possa svilupparsi che a spese della coscienza. E questo non per cause accidentali, per una ingerenza delle nostre nevrosi nei suoi nobili propositi di illuminare e aiutare il genere umano, ma perché v’è in lei un’implicita tendenza a prevaricare su altre più essenziali dimensioni dello spirito.

Dovremmo quindi rivedere il comune giudizio sulla bontà del progresso scientifico e, più in generale, sul senso e sul valore del nostro sapere. Tanto più nel momento in cui la scienza si dissoci dal suo carattere originario – teorico e contemplativo – per divenire prassi, passando dal comprendere le cose al fare, al sollecitare pericolosi cambiamenti nel mondo.

Come un giorno la tentazione diabolica accese in noi un desiderio di conoscenza che ci costò la cacciata dall’Eden, così oggi, cogliendo nuovi frutti proibiti senza peritarci di spezzare l’unità tra un ordine naturale e un ordine spirituale, rischiamo di cadere in baratri d’esistenza sempre più simili a un incubo.

Come discernere dunque quanto il sapere scientifico ci sia di danno o di beneficio? Questo è ovviamente impossibile se non definiamo delle finalità e delle gerarchie di valori. E in questo la scienza non può aiutarci, in quanto è in sé antiteleologica, interessata solo ai fatti e alle loro cause, indifferente agli scopi e ai valori. Finché penseremo scientificamente gireremo perciò in un circolo vizioso senza poterne uscire.

Ma a noi sembra d’aver fatto un balzo gigantesco, che ci porterà ad altezze divine! Crediamo che la scienza ci abbia donato gli stivali delle sette leghe, e nessuna remora morale può più ostacolare le nostre ambizioni. Satana ci ha promesso un certo avvenire: voi sarete come Dei. Pare quindi logico immolarci al progetto di una futura e ideale società tecnico-scientifica.

La nostra infatuazione per una scienza obiettiva ci impedisce di vedere obiettivamente la realtà. Se siamo così evoluti, se la scienza ci consente di dominare il nostro destino, perché la criminalità imperversa, perché arte e cultura agonizzano, perché siamo schiavi di lavori alienanti e di un’economia disumana, perché terra, aria, acqua, cibo, sono sempre più contaminati, perché la medicina non guarisce, perché guerre apocalittiche incombono su noi?

Sappiamo così tanto, eppure il mondo affonda sempre più in gravi e irrisolti problemi. Dunque, se sapere è potere, da dove viene la nostra impotenza? Sotto tali dilemmi troveremmo un vuoto, l’angoscia di un pensiero senza fondamento. I nostri ideali, le nostre consuetudini sociali, la nostra familiare immagine del mondo, la nostra anima, vanno sciogliendosi come neve al sole. “Où sont les neiges d’antan?” Dove sono i vecchi valori, i vecchi abiti, le vecchie certezze?

Ragionare con coerenza scientifica fatalmente erode anche quei principi classici del Diritto che dovrebbero proteggere la libertà e la dignità della persona. Infatti il diritto richiede un soggetto, mentre per la scienza esistono solo oggetti. E per altro, ci è vietato chiedere insegnamenti al passato. Come in ogni rivoluzione, l’ordine è: “guardare avanti”. Chi si volge indietro deve vedere solo le macerie di vecchie illusioni, dimore dello spirito inabitabili e per sempre abbandonate.

Il nostro sguardo – senza rimpianti, forzatamente lungimirante – deve fissarsi là dove sorgerà l’alba del domani. Perciò disponiamo piani quinquennali, decennali, secolari, programmiamo agende al 2030, al 2050 o al 2100. L’apoteosi dell’uomo trasfigurato dalla tecnica, membro di una società perfetta, è traguardo di cui non possiamo dubitare, perché posto sotto la protezione e il patrocinio della scienza. Ci si offre così un astratto futuro perché non ci lamentiamo del concreto presente.

Va da sé, quindi, che non esiste colpa più grande che l’esser antiscientifici, conservatori di antichi ideali. Indegnità morale, sociale e intellettuale si fondono nella figura del reazionario, di colui che diffida degli esperti, che resiste al Progresso o lo immagina al servizio di segreti e torbidi interessi. Condannato all’anacronismo e alla riprovazione sociale, costui dovrà segretamente custodire in sé quelle idee e quei valori che ancora gli sembrano viatico necessario per una vita veramente umana.

9 Comments

  • MIchele 27 Settembre 2025

    Si dice che l’uomo è tanto più intelligente quanto meno ragiona e quanto più contempla. La ragione è necessaria, ma non è sufficiente. Ma a parte questo, lei qui ha parlato di un’altra cosa: della coscienza, che secondo me opera in modo del tutto analogo alla scienza. La scienza positiva giunge induttivamente, con l’osservazione, col ragionamento e con l’esperimento, alle leggi della natura per poterle applicare poi deduttivamente in ambito tecnologico. La coscienza consiste nell’applicare deduttivamente dei principi morali alla vita pratica. Il procedimento attuativo è dunque sostanzialmente lo stesso; il problema è nel fondamento: da dove provengono i principi della coscienza? Sono indotti con metodo razional-sperimentale, come nel caso delle scienze positive, oppure sono innati, oppure sono rivelati? Se la scienza positiva non può stabilire le leggi della coscienza, chi o cosa può e deve farlo? Glielo chiedo perché la mia convinzione è che la scienza non si sia sviluppata a spese della coscienza, ma al contrario che l’evento primitivo sia stato l’oblio dei principi; diversamente la contemplazione sarebbe inferiore al ragionamento, il che è irragionevole.

  • Livio Cadè 27 Settembre 2025

    Non sono un filosofo, ma vorrei in breve muovere due obiezioni. Lei difende la superiorità della contemplazione sul ragionamento dicendo che il contrario sarebbe ‘irragionevole’. Questo mi sembra paradossale. Non si può dimostrare ragionevolmente l’inferiorità della ragione. Questa certezza può venire solo dalla contemplazione stessa.
    Lei dice anche che la scienza applica alla tecnologia quelle leggi della natura che ha scoperto induttivamente. Io ne dubito. Penso piuttosto che oggi la tecnica preceda la scienza, e che la teoria debba inseguire la pratica per spiegarla a posteriori. Prima si fa, poi si capisce.
    Infine, Lei mi chiede da dove provengono i principi della coscienza. E pone quindi una serie di aut aut: dall’esperienza e dalla ragione? O dalla natura umana? O da una rivelazione? Io credo che queste realtà non si possano scindere.
    Ciò che rimprovero alla scienza è proprio il disconoscere, come fondamenti dell’etica, sia la natura (ridotta a casualità fisica) sia la rivelazione. Perciò, se per coscienza intendiamo un insieme di principi spirituali, la scienza si è sviluppata a spese della coscienza, radicalizzando quell’oblio dei principi cui Lei allude.

  • MIchele 27 Settembre 2025

    La mia prima contro-obiezione è che la ragione non solo dimostra l’esistenza (non l’essenza) di una dimensione intellettuale diversa dalla propria, ma deve farlo, altrimenti non riconoscerebbe i propri limiti e questo sarebbe appunto irragionevole. La ragione ha la chiara evidenza di questi limiti, perchè conosce la montagna di cose che non può conoscere ed un esempio lampante è la cosmologia. Che poi la contemplazione (termine con il quale ho indicato invero un po’ genericamente la conoscenza non-razionale) si mostri superiore alla ragione, ovvero sovra-razionale, è per questo stesso fatto, perché rende conoscibile ciò che la ragione non riesce a conoscere. Questo naturalmente non viene dalla mia esperienza personale, ma dalla testimonianza dei contemplativi.
    Quanto all’induzione, essa è il metodo scientifico per definizione: se lei ne dubita deve credere che le leggi della chimica o della fisica giungano per rivelazione. La tecnica precede la scienza in termini di esigenze, nello stabilire gli obiettivi della ricerca, obiettivi anche disumani, ma nella sua aplicazione essa segue la teoria scientifica, altrimenti non potrebbe esserne un’applicazione. Non è per fare puntualizzazioni pignole, ma solamente per comprendere se parliamo delle stesse cose.
    Un’altra contro-obiezione è che lei sembra muoversi contemporaneamente su piani diversi. Credo di esprimere un concetto condivisibile se affermo che la scienza di per sé non ha nulla a che fare con l’etica. La scienza, almeno questa scienza, si limita ad osservare la natura come dato di fatto per scoprire in che modo essa funziona da un punto di vista puramente materiale, per cui è del tutto ‘ragionevole’ che disconosca i fondamenti dell’etica, i cui principi dovrebbero essere totalmente immateriali.
    L’ultima considerazione è che lei non ha ancora risposto alla mia domanda, la quale non ha posto degli aut-aut, ma ha solo suggerito delle ipotesi. Lasciando perdere per un attimo la scienza e tutti gli errori dello scientismo e del tecnologismo: per lei personalmente dove sono i fondamenti dell’etica? Metta un pars costruens nella sua analisi.

    P.S. Mi creda se le dico che non ho alcun intento polemico. Mi interessa sapere come lei la pensa ed il metodo migliore per capirlo è il contraddittorio.

  • Livio Cadè 27 Settembre 2025

    Mi scusi se tralascio i discorsi su essenza ed esistenza, induzione, deduzione, ragione, contemplazione, testimonianza dei contemplativi, che trovo un po’ scolastici e astratti.
    L’etica? Dipende da cosa si intende per etica. Se è un complesso di doveri che regolano le interazioni all’interno di una comunità credo sia una convenzione basata sul reciproco interesse (nel caso si basi su forme di mutualismo e di solidarietà, di protezione e di assistenza scambievole) o su leggi imposte d’autorità da chi assume posizioni di comando e di governo.
    Questa etica può essere forse socialmente necessaria. Ma per me l’unica vera etica è la ‘compassione’ che lega tra loro persone quando esse riconoscono una nell’altra il proprio stesso bisogno (o diritto) di vivere, di non soffrire e di realizzarsi pienamente, e lo rispettano. Questa compassione, che per me è il principio dell’etica, non è un prodotto della ragione ma un’apertura spontanea del ‘cuore’ (tutti ne facciamo esperienza con le persone che amiamo).
    Mi dispiace infine di non aver espresso chiaramente il mio pensiero su etica e scienza. Non dico che la scienza debba occuparsi di problemi etici, dico che nel momento in cui il metodo ‘scientifico’ diventa per l’opinione pubblica l’unico valido sistema di conoscenza della realtà, l’etica, non essendo materia di scienza, tende a diventare irreale, irrazionale, convenzione arbitraria e priva di ogni certezza.

  • Michele 28 Settembre 2025

    Alcune cose che lei dice le comprendo e le condivido, come il diritto alla vita: questo lo vedo chiaramente come un principio che deve informare qualsiasi etica. Comprendo di meno l’affermazione di un diritto a non soffrire, poichè la mia personale esperienza di vita mi dice che la sofferenza può avere un importante valore pedagogico ed anche conoscitivo. Ciò che invece non comprendo affatto è ciò che lei definisce ‘realizzarsi pienamente’. Non so se posso, ma le chiederei di spiegarsi meglio su questo punto.

  • Livio Cadè 28 Settembre 2025

    Quando ho cominciato a stendere queste riflessioni sulle ‘immagini del mondo’ non sapevo con precisione di cosa avrei parlato. Credo comunque che certi argomenti che Lei pone li affronterò strada facendo, sempre che non mi prenda prima il tedio di scrivere, come è probabile.
    Comunque, per rispondere ora, io credo che, se guardiamo le cose ‘scientificamente’, non esista alcun diritto. Si nasce e si muore. Punto. Se nello spazio fra una cosa e l’altra si soffre, si viene ammazzati, torturati, messi in galera, non c’è niente che lo vieti, razionalmente.
    Il ‘diritto’ – al di là dei suoi formalismi giuridici – lo scopriamo solo se si attua quella che ho definito una ‘apertura del cuore’.
    Allora ‘sentiamo’ intimamente, prima ancora di pensarlo, che è sbagliato togliere la vita, che è sbagliato far soffrire (è vero che la sofferenza insegna molto, ma questo non ci impedisce di compatire e aiutare chi soffre, né tanto meno ci autorizza a far soffrire gli altri), che è sbagliato bloccare o danneggiare il processo di crescita che opera in ogni essere vivente (è questo che intendo per ‘realizzarsi’. Come un seme si realizza diventando un certo albero, dando fiori e frutti, un uomo tende a sviluppare il proprio potenziale umano, se l’ambiente e le condizioni glielo permettono).

  • MIchele 28 Settembre 2025

    Lei è proprio l’uomo degli enigmi: ogni sua risposta è più enigmatica della precedente. Ma poi chi ha detto che lei debba darmi delle risposte? Non voglio insistere con la mia curiosità, eppure non rinuncio a farle notare che le sue nozioni di ‘crescita’ e di ‘potenziale umano’ sono piuttosto vaghe e oscure. Capisco l’esempio dell’albero, ma solamente sul piano biologico; con l’uomo abbiamo a che fare con intelletto e volontà: è un’altra cosa. Fra l’altro noto che la sua analogia è prettamente scolastica, anzi proprio aristotelica: dal seme, che è potenza, diciamo pure potenziale, all’albero, che è atto. Mi piacerebbe allora capire chi è l’uomo compiutamente in atto.

  • Livio Cadè 28 Settembre 2025

    Come si può spiegare o capire “chi è l’uomo compiutamente in atto”? Se Lei parte dall’idea che l’uomo sia una realtà definibile a parole e pienamente comprensibile, non possiamo intenderci. In ogni cosa io vedo ‘idee’ che vogliono tradursi in atto, realizzarsi (ma non mi dia per questo del ‘platonico’). È un processo misterioso. Lasciamo perdere le etichette. Se vuole da me delle risposte chiare e complete resterà deluso.

  • MIchele 28 Settembre 2025

    Penso che lei abbia ragione. La ringrazio.

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