III
Una scienza senz’anima
« Scienza senza coscienza non è che la rovina dell’anima».
(François Rabelais)
Forse c’è del vero nell’idea che ogni crisi sia un’opportunità, un’occasione di crescita. Perché divenga tale occorre però coglierne il senso, e questo richiede pazienza, coraggio e lucidità, una stretta alleanza tra forze intellettuali, morali e spirituali. Ma oggi è opinione comune che i problemi si risolvano solo in modo scientifico.
Le affermazioni della scienza cadono su di noi come sentenze oracolari. Quindi, la mia idea che proprio la scienza sia stata causa di una crisi di civiltà – crisi che si manifesta in un collasso di valori morali, intellettuali e spirituali – può apparire dissacratoria o paradossale. Anche ammettendo che la nostra società sia per molti versi problematica, si dirà che altre ne sono le ragioni.
Se siamo convinti che la scienza abbia portato all’uomo tanti oggettivi benefici, se nei suoi presupposti, nelle sue metodologie e nei suoi apparati vediamo la risposta alle nostre necessità e alle nostre domande, ci sembrerà assurdo accusarla d’esser responsabile di difficoltà che dipendono invece, a nostro giudizio, da fattori sociali, politici, economici.
Vorrei premettere che verso la scienza intesa come conoscenza e ricerca di verità, non nutro alcuna ostilità. Consento anzi con l’idea che l’ignoranza sia il primo nemico da combattere. Ammiro quindi quell’intelligenza che, cercando di emanciparsi da congetture e da credenze fantastiche, “fa i conti con la realtà”, esperimenta, osserva, ragiona.
Ma che significa ignorare? Si può conoscere a fondo l’atomo e non sapere quali siano i veri bisogni dell’essere umano. È chiaro inoltre che chi voglia indagare sulla realtà deve avere un’idea preliminare dell’oggetto della sua indagine. E a me pare che la scienza – come è oggi comunemente intesa – difetti appunto nel concepire la realtà, che ne ignori la profondità.
In questo gli scienziati mi ricordano quei ciechi che tastavano un elefante senza capire cosa fosse, avanzando strampalate ipotesi. La cecità scientifica, a mio avviso, ha radici nel pregiudizio di sapere già, a priori, cosa sia reale e cosa non lo sia. E un tale preconcetto ha prodotto un restringimento nel campo visivo della coscienza, una contrazione di quei significati che ci rendono più pienamente intelligibile la vita.
Trovo perciò improbabile che una scienza così estranea alle fondamentali questioni dell’essere possa renderci più felici, più sani o più sicuri. Ho al contrario l’impressione che, di pari passo col procedere delle sue razionali conquiste, il mondo sia diventato un luogo più triste, malato e pericoloso. Tuttavia, secondo il comune sentire, la colpa è di chi ha fatto della scienza un uso scellerato, piegandola alle passioni umane.
La scienza, dunque, non avrebbe che una colpa preterintenzionale. Se la tecnologia ha beneficiato della conoscenza scientifica per cavarne applicazioni che hanno finito con l’eclissare ogni principio di sapere disinteressato, trasformando la scienza stessa in un’ancella del profitto industriale, del controllo politico, della forza militare, questo, si dirà, esorbita da ogni genuina finalità scientifica.
Possiamo incolpare solo la natura umana e le sue inclinazioni malvagie se il carattere di avventura intellettuale della scienza si è ridotto alla sua utilità in relazione a scopi di arricchimento materiale, di sorveglianza sociale, di terrore, di distruzione, se la società ha così conosciuto abusi e soprusi più radicali di quelli cui la storia ci aveva abituati, scoperto nuove forme di tirannia fisica e mentale.
In effetti sembra più logico ricondurre questo discorso nell’ambito della solita critica dei comportamenti sociali – critica inutile degli effetti senza capirne le cause – lamentandoci una volta ancora dell’egoismo, della crudeltà e della corruzione imperanti. E uno sguardo al passato sicuramente ci confermerà che gravi violazioni dei diritti umani sono comuni nella storia, e che sempre l’uomo ha fatto un pessimo uso del suo sapere.
Dopo questa ovvia constatazione occorre però notare come la scienza moderna non abbia semplicemente offerto nuovi potenti strumenti alla cupidigia e alla sete di potere ma come, imponendoci una nuova immagine del mondo, l’idea di una natura in sé amorale e priva di qualsiasi trascendenza, abbia nutrito e incoraggiato, direi scientificamente legittimato il nostro lato maligno.
La nostra tendenza a usare il prossimo come una cosa ha trovato nella scienza un avallo razionale, trovando complicità in un pensiero essenzialmente demonico, semplice testimone di una trama di cose e di forze. Dai suoi intrinseci fondamenti abbiamo tratto modelli intellettuali privi di cuore e di umanità, destituendo antichi valori spirituali e mutando radicalmente le nostre idee sull’uomo, sulla verità e sulle leggi che governano l’universo.
E per quanto la scienza sembri volersi emancipare da ipotesi meccanicistiche elaborando speculazioni sempre più sottili sulla natura della realtà, evocando dimensioni chimeriche e mondi virtuali, questo non richiama certo la nostra coscienza a limiti più umani ma al contrario la spinge verso una visione del mondo ancor più stravolta e disumana.
Una “scienza senza coscienza” non solo è dunque possibile, ma pare che la scienza non possa svilupparsi che a spese della coscienza. E questo non per cause accidentali, per una ingerenza delle nostre nevrosi nei suoi nobili propositi di illuminare e aiutare il genere umano, ma perché v’è in lei un’implicita tendenza a prevaricare su altre più essenziali dimensioni dello spirito.
Dovremmo quindi rivedere il comune giudizio sulla bontà del progresso scientifico e, più in generale, sul senso e sul valore del nostro sapere. Tanto più nel momento in cui la scienza si dissoci dal suo carattere originario – teorico e contemplativo – per divenire prassi, passando dal comprendere le cose al fare, al sollecitare pericolosi cambiamenti nel mondo.
Come un giorno la tentazione diabolica accese in noi un desiderio di conoscenza che ci costò la cacciata dall’Eden, così oggi, cogliendo nuovi frutti proibiti senza peritarci di spezzare l’unità tra un ordine naturale e un ordine spirituale, rischiamo di cadere in baratri d’esistenza sempre più simili a un incubo.
Come discernere dunque quanto il sapere scientifico ci sia di danno o di beneficio? Questo è ovviamente impossibile se non definiamo delle finalità e delle gerarchie di valori. E in questo la scienza non può aiutarci, in quanto è in sé antiteleologica, interessata solo ai fatti e alle loro cause, indifferente agli scopi e ai valori. Finché penseremo scientificamente gireremo perciò in un circolo vizioso senza poterne uscire.
Ma a noi sembra d’aver fatto un balzo gigantesco, che ci porterà ad altezze divine! Crediamo che la scienza ci abbia donato gli stivali delle sette leghe, e nessuna remora morale può più ostacolare le nostre ambizioni. Satana ci ha promesso un certo avvenire: voi sarete come Dei. Pare quindi logico immolarci al progetto di una futura e ideale società tecnico-scientifica.
La nostra infatuazione per una scienza obiettiva ci impedisce di vedere obiettivamente la realtà. Se siamo così evoluti, se la scienza ci consente di dominare il nostro destino, perché la criminalità imperversa, perché arte e cultura agonizzano, perché siamo schiavi di lavori alienanti e di un’economia disumana, perché terra, aria, acqua, cibo, sono sempre più contaminati, perché la medicina non guarisce, perché guerre apocalittiche incombono su noi?
Sappiamo così tanto, eppure il mondo affonda sempre più in gravi e irrisolti problemi. Dunque, se sapere è potere, da dove viene la nostra impotenza? Sotto tali dilemmi troveremmo un vuoto, l’angoscia di un pensiero senza fondamento. I nostri ideali, le nostre consuetudini sociali, la nostra familiare immagine del mondo, la nostra anima, vanno sciogliendosi come neve al sole. “Où sont les neiges d’antan?” Dove sono i vecchi valori, i vecchi abiti, le vecchie certezze?
Ragionare con coerenza scientifica fatalmente erode anche quei principi classici del Diritto che dovrebbero proteggere la libertà e la dignità della persona. Infatti il diritto richiede un soggetto, mentre per la scienza esistono solo oggetti. E per altro, ci è vietato chiedere insegnamenti al passato. Come in ogni rivoluzione, l’ordine è: “guardare avanti”. Chi si volge indietro deve vedere solo le macerie di vecchie illusioni, dimore dello spirito inabitabili e per sempre abbandonate.
Il nostro sguardo – senza rimpianti, forzatamente lungimirante – deve fissarsi là dove sorgerà l’alba del domani. Perciò disponiamo piani quinquennali, decennali, secolari, programmiamo agende al 2030, al 2050 o al 2100. L’apoteosi dell’uomo trasfigurato dalla tecnica, membro di una società perfetta, è traguardo di cui non possiamo dubitare, perché posto sotto la protezione e il patrocinio della scienza. Ci si offre così un astratto futuro perché non ci lamentiamo del concreto presente.
Va da sé, quindi, che non esiste colpa più grande che l’esser antiscientifici, conservatori di antichi ideali. Indegnità morale, sociale e intellettuale si fondono nella figura del reazionario, di colui che diffida degli esperti, che resiste al Progresso o lo immagina al servizio di segreti e torbidi interessi. Condannato all’anacronismo e alla riprovazione sociale, costui dovrà segretamente custodire in sé quelle idee e quei valori che ancora gli sembrano viatico necessario per una vita veramente umana.



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