Premessa
«La Terra sta oggi degenerando. La corruzione dilaga. I figli non obbediscono più ai genitori. Ogni uomo vuole scrivere un libro, ed è perciò chiaro che la fine del mondo rapidamente si avvicina».
(Tavoletta assira, ca. 2800 a.C.)
Qualcuno ha detto che una prefazione è un tentativo di giustificarsi, accampando ragioni fittizie per farsi perdonare d’aver scritto un libro. Tentativo del resto inutile, ché un atto simile – scrivere un libro – è imperdonabile. Più che latenti ammissioni di colpa servirebbe una legge che vietasse di scrivere e che prevedesse punizioni severissime per i trasgressori. Ma anche questo non basterebbe. Così come non basta dare alle fiamme i libri o metterli all’indice. Uccidete pure uno scrittore, ne nascono altri dieci. È un male inestirpabile.
Tuttavia, come Magritte e il suo “Ceci n’est pas une pipe”, posso rassicurare chi legge che “questo non è un libro”, anche se ne ha l’apparenza. È diviso in capitoli, ma neppure io so quanti siano. Comincia dicendo alcune cose ma neppure io so come andrà avanti o come finirà. Non so neppure con precisione di cosa parli. Il titolo che gli ho imposto è come il nome che si dà a un bambino che deve ancora nascere. Perciò non è un libro, come un embrione non è un uomo per quanto sembri incline a diventarlo
I
Quella cosa folle che chiamiamo vita
«Come dormienti agire e dire».
(Eraclito)
Si narra che Don Chisciotte smarrì il senno quando, leggendo di dame, maghi e cavalieri erranti, sentì il richiamo di quella vita. E noi volgarmente ridiamo del suo elmo di Mambrino e della sua Dulcinea, o commiseriamo i suoi strampalati vaniloqui. In realtà, agli occhi della sua anima, assetata di grandi imprese, era apparsa un’immagine del mondo che gli altri, senza capirla, chiamarono pazzia.
Costoro, incantati da immagini d’altro tipo, e chiamati a condurre una vita assai più ordinaria – vita da curato, barbiere o baccelliere – non erano in fondo meno pazzi di lui. Se non capivano Don Chisciotte era perché non ne condividevano la follia. Persi nei loro privati incantamenti, non scorgevano l’aura lucente e visionaria che avvolgeva i suoi pensieri. E lo stesso si può dire di noi quando, illudendoci d’esser sensati, censuriamo le insensatezze altrui.
Ogni uomo, specie se è poco portato all’introspezione, si crede assennato e dotato di logica. E lo stupisce il fatto che alcuni possano pensarla diversamente da lui. È infatti convinto di sapere com’è fatto il mondo e di come potrebbe o dovrebbe essere. L’interpretazione che ne dà gli pare l’unica plausibile, la più coerente, e se pure il suo sguardo non va oltre una spanna, gli sembra copra distanze infinite. Per cui, non sapendo di non sapere, non si perita di formulare giudizi su ogni cosa.
Benché la nostra immagine del mondo sia precaria, confusa e rabberciata, tutti riponiamo in lei un’ingenua fiducia. Ciò dipende dalla stima immotivata che abbiamo della nostra immaginazione. Siamo prigionieri delle nostre idee e nelle nostre fissazioni come tra le mura di un castello fatato, ma ci crediamo liberi, perché in tale castello ci muoviamo a nostro piacimento, pur se non possiamo uscirne. E poiché ci illudiamo d’esser signori dei nostri pensieri ci meraviglia, o ci infastidisce, vedere altri così schiavi dei loro pregiudizi e delle loro assurde credenze.
In sostanza, per comprendere gli uomini occorre osservare come, senza saperlo, vivano all’interno di un’immagine del mondo che manifesta una fondamentale mania, un metodico delirio. La nostra pazzia può esser nobile o meschina, benefica o malefica, ma chi, forse in un bagliore di misteriosa lucidità, intuisce il carattere onirico della sua vita, non potrà più non diffidare di ogni sua certezza, o comincerà a credere che le opinioni degli uomini siano, come diceva Eraclito, crisi epilettiche.
Perciò, quando fisso lo sguardo là dove ne scorgo fitte e confuse le immagini, mi chiedo perplesso cosa sia la realtà, mi domando se anch’io non veda giganti là dove sono mulini a vento. Ma chi può essere supremo giudice del vero? Un tempo gli uomini credevano in una Antichità nella quale qualcuno, prossimo agli Dei, aveva ricevuto da questi una Rivelazione. E quella era la verità incontrovertibile, indubitabile e immutabile che veniva trasmessa di padre in figlio.
Ma da quando abbiamo cominciato a pensare con la nostra testa, a diventar critici e filosofi, i nostri dubbi si sono moltiplicati, formando lunghe e strascicanti ombre nelle regioni dello spirito. Svincolato da una conoscenza tradizionale e certa – certa proprio perché tradizionale – ognuno si sceglie la propria verità, cioè la propria pazzia, e a quella resta fedele, vi conforma la sua volontà e i suoi atti. Forse per questo, come diceva Aleksandr Herzen, la Storia è l’autobiografia di un folle.
È inevitabile infatti che individui incapaci di intendere rettamente producano una Storia sconcertante, le cui attitudini apparentemente normali sono in realtà forme di alienazione mentale. Ma la nostra società non si preoccupa di risalire alle cause del suo disturbo psichico o di trovarvi una cura, dato che pensa di non averne alcun bisogno. Le sue ossessioni le appaiono virtù, i suoi errori una necessità, i suoi vaneggiamenti un utile sapere.
La nostra immagine del mondo contiene dunque una sintesi – o una somma arruffata – di mitologie personali e collettive. È un quadro generale in cui collochiamo le verità, i valori, gli scopi, le prospettive, e tutto quanto possa avere un qualche legame con la nostra esistenza. Questa visione delle cose ci viene in parte dal destino, in parte dall’educazione ricevuta, in parte dall’arbitrio dei nostri pensieri.
Le idee che così raccogliamo si cristallizzano in una forma di sapere al quale ci affidiamo per muoverci nel mondo. Sapere della cui utilità e del cui senso ci è difficile dubitare, ma il cui valore è in realtà assai malcerto e le cui ragioni fondanti, se le osservassimo più da vicino, ci apparirebbero molto meno solide e stabili di quel che immaginiamo.
Questo non significa però che il nostro pensiero, le nostre esperienze, le nostre speranze, debbano necessariamente poggiare su basi illusorie e nutrirsi solo di immagini vane, senza alcuna probabilità di trovare una verità oggettiva. Al contrario, credo che le nostre facoltà naturali e spirituali non ci inclinino a fantasie morbose o a futili astrazioni, ma ci orientino verso il sano, il concreto, il reale.
È dunque possibile – in ogni tempo, luogo e condizione – cercare la verità. Se siamo chiusi in una falsa opinione del mondo è perché qualcosa nella nostra percezione e intellezione delle cose si è guastato. Quindi, chi vuol farsi un’idea sensata di sé e della realtà, necessita di una qualche terapia o igiene mentale, di una comprensione che lo liberi dalle varie immagini create dalla sua o dall’altrui follia, e lo riporti a sé stesso.
E forse questo tornare verso il centro della propria vita, cercandone l’origine e il fondamento, questo ritrovare il senno, è più di una mera possibilità. Anche se tutto oggi ci induce ad “agire e dire come dormienti”, risvegliarsi è forse il nostro destino, se è vero, come dice ancora Eraclito, che “a tutti gli uomini tocca in sorte di conoscere sé stessi e cogliere la sapienza suprema”.

