Su queste colonne mi sono soffermato più volte sul Giappone, parlando – grazie alle pagine di libri illuminanti – di misticismo e di animazione. Mondi meno lontani di quanto uno potrebbe pensare, questi due, perché in molte pellicole del Sol Levante il misticismo non è certo assente. Prova ulteriore di quanto affermo è un prezioso volume uscito qualche anno fa, nel 2010, sotto l’egida di ESF Edizioni. Si tratta di Nihon Eiga: storia del cinema giapponese dal 1970 al 2010, a cura di Enrico Azzano, Raffaele Meale e Riccardo Rosati, un lavoro nato dalla omonima rassegna cinematografica che si tenne a Roma dal 14 ottobre 2010 al 23 giugno 2011; la kermesse romana fu curata dagli stessi autori del libro con la collaborazione del CineClub Detour e dell’Istituto Giapponese di Cultura.

Anche se risale al 2010, il volume non è certamente di un’opera “datata”, ma una pietra miliare in un percorso suggestivo come quello dello studio della cinematografia giapponese contemporanea. Spiegava infatti Maria Roberta Novielli nella sua Prefazione:
La storia del cinema giapponese a partire dagli anni Settanta fino a oggi è ricca ed estremamente complessa, talmente variegata nelle sue componenti di stile, di contenuti e di genere, da rendere quasi impossibile una rigorosa schematizzazione del suo corso. Eppure vari mutamenti l’hanno posta a grande distanza dal suo passato più recente, in particolare in termini di struttura produttiva, di tessuto politico e nel suo legame socioculturale con i repertori di tranche de vie da cui trarre ispirazione. Nel definirne le peculiarità, il sociologo Osawa Masachi ha offerto in varie occasioni un’interessante macro-classificazione delle stagioni dell’ideologia dell’ultimo secolo, dividendola in tre periodi fondamentali: il primo, dal 1945 al 1970, rappresenta quello che lo studioso definisce “pre-postmodernismo”, un’epoca di ricerca di ideali e di narrative; il secondo, dal 1970 al 1995, etichettata come “era della fiction” o “primo periodo postmoderno”, vedrebbe il superamento della fiction rispetto alle grandi narrative; il terzo, avviato dal 1995, rappresenterebbe invece l’epoca in cui le grandi narrative sarebbero del tutto scomparse, e che pertanto Osawa definisce come “secondo periodo postmoderno”. Le tre tappe si aprono all’insegna di importanti e tragici eventi: il 1945, attraverso le immagini delle due esplosioni nucleari su Hiroshima e Nagasaki, è il segno del sopravvento della scienza e della tecnologia di matrice occidentale su quel complesso di norme autoctone che costituivano un imprescindibile punto di riferimento tra la storia e il progresso; il 1970 è solcato dagli episodi terroristici dell’Armata Rossa giapponese, l’evidenza di un sommovimento politico-sociale in atto che scalfisce l’apparente unità e armonia del paese; la terza data coincide infine con il tragico attacco al gas sarin effettuato nella metropolitana di Tokyo dalla setta Aum Shinrikyo, episodio subito eletto a simbolo di una mistificazione del reale, ormai pericolosamente estesa nella vita culturale del popolo giapponese.
La questione delle date, che potrebbe sembrare non essenziale e che addirittura potrebbe evocare per molti il non universalmente accettato nozionismo delle scuole di un tempo, ritorna anche nella Premessa firmata collettivamente dai tre curatori:
Riuscire a scovare una data che, senza forzature o manomissioni di sorta, sia in grado di fungere da limite temporale invalicabile per quanto riguarda la storia di una nazione, o addirittura di una cultura, è quasi sempre un miraggio. Il viaggio intrapreso in questo volume – e all’interno della rassegna cinematografica che ne ha agevolato la stesura – parte, come da titolo, nel 1970: si sarebbe potuto scegliere il 1964, anno dello svolgimento delle Olimpiadi a Tokyo e dell’ingresso del Giappone nell’OCSE; il 1960, durante il quale fu firmato il discusso trattato di sicurezza e cooperazione reciproca con gli Stati Uniti d’America; il 1972, con i leggendari giochi invernali di Sapporo, nell’isola di Hokkaido, i primi disputati al di fuori di Europa e Nord America. Volendo infine rimanere nel campo dell’industria cinematografica, si sarebbe potuti risalire perfino al 1951, quando un allora sconosciuto Akira Kurosawa trionfò alla Mostra del Cinema di Venezia con “Rashōmon”, arrivato in laguna grazie all’interessamento di Giuliana Stramigioli, docente di italiano presso l’Università degli Studi Stranieri di Tokyo. Perché, allora, il 1970? Forse la risposta migliore è contenuta nello slogan che accompagnò l’intero svolgimento dell’Expo a Osaka, inaugurata il 15 marzo e conclusa il 13 settembre di quell’anno: “Progresso e armonia per l’umanità”. Nella storia moderna e contemporanea, per la prima volta il Giappone si apriva completamente al mondo: a centodiciassette anni dalla fine dell’isolazionismo volontario per mano del commodoro Matthew Parry, e dopo aver perseguito per molti decenni una politica espansionista, spinti dalla bramosia di assoggettare l’intera Asia al proprio dominio, i giapponesi annunciavano pubblicamente di voler lavorare in armonia con il resto del mondo, per il progresso dell’intera umanità.

La prima parte del volume si intitola Profilo storico e si apre con Gli anni Settanta di Matteo Boscarol. L’autore ritorna sulla Expo di Osaka, definendola un “Giano bifronte” che guarda contemporaneamente al passato e al futuro, fungendo da spartiacque temporale. Anche il cinema in quel decennio cambia, assorbendo e filtrando i nuovi gusti maturati attraverso la televisione e la “rivoluzione sessuale” nei mezzi di informazione. La televisione, con le sue dirette di cronaca nera, porta anche una nuova “crudezza” nel cinema: la prima vera “maratona” televisiva risale al 1972 quando per 10 giorni i telecronisti raccontarono del sequestro dei clienti di un albergo messo in atto dai terroristi comunisti della Rengo Sekigun, dell’assedio da parte della polizia e della seguente irruzione e liberazione degli ostaggi. Boscarol individua nel regista Kinji Fukusaku il paradigma “politico” del decennio:
Nel 1970 viene scelto assieme a Toshio Masuda per rimpiazzare Kurosawa come regista della parte giapponese di “Tora! Tora! Tora!” (1970). Due anni dopo realizza quel gioiello che è “Under the Flag of the Rising Sun” (“Gunki hatameku moto ni”, 1972) sui ricordi di una vedova di guerra: si trova qui già in nuce quello stile frenetico e libero che esploderà negli otto film della serie “Battle Without Honour and Humanity” (“Jingi naki tatakai”, 1973-74), prodotti dalla Tōei. Qui Fukusaku realizza il suo capolavoro, l’opera che lo renderà famoso anche in Occidente (decenni dopo in verità) e che sarà capace di riempire in un biennio di crisi economica le sale giapponesi. Il primo film esce nel 1973 ed è un pugno nello stomaco per la società giapponese del tempo: anche se ambientato a Hiroshima nei primi anni che seguono il secondo conflitto mondiale, la denuncia del sistema malavitoso giapponese e la sua impietosa descrizione, senza onore e umanità appunto, si discosta parecchio da quelle che erano state portate avanti in passato, anche con ottimi risultati, da altri film. Il delirio di immagini grezze e il montaggio frenetico, caotico, impiegati dal regista concorrono a creare quel ritmo serrato che è una delle caratteristiche peculiari di tutta la serie. A questo proposito, non ci sembra inutile notare che l’uso della cinepresa a mano, così tipica di questo cinema di Fukasaku, è un’influenza derivata probabilmente dalla visione dei documentari della Ogawa Production in cui un giovane Masaki Tamura si gettava nella mischia delle rivolte studentesche. Un’altra novità che questa serie apporta è l’introduzione di uno stile narrativo da documentario che proprio Fukasaku inventa, il “jitsuroku eiga”, una docu-fiction con ampio uso di fotografie, sottotitoli e voce narrante. Una tagliente analisi di come la violenza, sia essa fisica che mentale, nasca e si modifichi in un contesto sociale in pieno cambiamento, allo sbando e informe: come non percepire in ciò una critica del periodo in cui i film vengono realizzati? Ma Fukasaku e collaboratori vanno ancora oltre e ci raccontano, con uno stile godibilissimo e difficilmente noioso, di come detta violenza formi la colonna portante del tessuto sociale e umano, quasi una caratteristica ineliminabile della razza. Valgano per questo i minuti iniziali del primo film, quando accompagnato da una splendida musica ci viene raccontato in pochi intensissimi secondi di come finita l’inaudita violenza della bomba atomica già se ne stia formando un altro tipo, quella appunto organizzata della yakuza.
Sul fronte del diverso modo di interpretare e di rappresentare la sensualità non poteva mancare l’analisi di Ecco l’impero dei sensi di Nagisa Oshima e del “movimento” softcore dei pinku eiga (“film rosa”) e dei roman poruno (“romanporno” ovvero “romantic pornography”):

L’attività cinematografica di Oshima viene interrotta nel 1976 con “Ecco l’impero dei sensi” (“Ai no korīda”): lo scandalo è totale. Ancora una volta il regista riesce a individuare ed esporre i nodi vitali con cui la società si sostiene, la totale libertà di una sessualità spinta fino all’estremo in opposizione a una situazione storica che non lascia scampo. Ma ancora di più Oshima riflette sul suo tempo, sulla potenza di liberazione insita nella sessualità, sul suo intersecarsi con la violenza e perversione umane o ancora sul ruolo della censura nelle democrazie moderne. In un gesto cinematico estremo Oshima tenta di mostrare l’osceno, ciò che sta fuori dalla scena e che non si dovrebbe quindi vedere: la follia del regista è proprio questa, voler mostrare il non-mostrabile del cinema. La lavorazione del film, prodotto fra gli altri da Wakamatsu, il processo per oscenità al regista e tutto il polverone che si alzerà attorno all’opera caratterizzeranno fortemente la seconda metà degli anni Settanta giapponesi e non solo. (…) I “roman poruno” usufruiscono di un apparato produttivo da grande casa di produzione con studi, scenografie, attori e sceneggiatori già tutti professionisti e in più un circuito di sale e di distribuzione assai capillare. Dal primo film del 1971, “Apartment Wife: Affair in the Afternoon” (“Danchizuma hirusagari no jōji”) fino all’ultimo, “Bed Partner”, uscito nel 1988, vengono realizzati ben 1133 film con una media durante gli anni Settanta di tre film al mese. Visti i tempi di realizzazione e il budget che comunque non era mai altissimo, la genialità e la bravura a districarsi in tali angusti limiti di tempo di alcuni autori non potrà essere omessa. Senza ombra di dubbio è Tatsumi Kumashiro la punta di diamante di questo nuovo genere: ammirato da Shinya Tsukamoto e da François Truffaut, il regista giapponese è riuscito a far coincidere come pochi altri il successo commerciale e quello della critica. (…) Kumashiro è stato colui che più di qualunque altro, guidato da un istinto filmico e da un amore incondizionato per la settima arte, ha capito le necessità e le problematiche del tempo riuscendo a sfruttare al meglio la libertà espressiva che la (casa di produzione) Nikkatsu concedeva e facendosi anche beffe della censura giapponese. L’articolo 175 del codice penale infatti proibisce immagini di genitali e peli pubici e Kumashiro, talvolta ampliando il non mostrato o l’elemento assente, è riuscito a realizzare ciò di cui parlava Roland Barthes in relazione a Tokyo, “la città il cui centro è vuoto”.
Enrico Azzano scrive L’industria degli anime, occupandosi dunque del cinema d’animazione. Individua nella casa di produzione Toei (alla quale si deve il primo lungometraggio animato giapponese a colori, nel 1958) e nell’artista Osamu Tezuka (soprannominato non a caso “il dio dei manga”) i maggiori artefici di un miracolo, coloro ai quali…
…si devono la nascita, lo sviluppo e il consolidamento dell’industria dell’animazione. È negli anni Sessanta, infatti, che vengono poste, tra piccolo e grande schermo, le basi per il boom degli anni Settanta, decennio che a sua volta spiega buona parte degli odierni successi e riconoscimenti.
Segue una minuziosa cronistoria del cartone animato nipponico procedendo per scuole, grandi artisti, grandi marchi, generi e riconoscimenti. L’animazione giapponese si impone sul mercato globale sia con le serie televisive, sia con i grandi lungometraggi. Una parola magica sembra emergere dal colorato “caos”, una parola che evoca il vento del deserto:
Lo Studio Ghibli, ancor più della Disney dei primi decenni e della attuale ed encomiabile Pixar di Lasseter & Co., è un luogo non replicabile, un esperimento impossibile eppur riuscito. Dal sorprendente utilizzo dei colori alla quasi maniacale attenzione per i dettagli, dalla libertà narrativa allo spessore dei contenuti, le opere dello Studio Ghibli rappresentano costantemente, fin dagli esordi, il migliore connubio possibile tra necessità commerciali e aspirazioni autoriali.
Gli anni Ottanta, continuando il percorso storico, sono affidati a Raffaele Meale. E Meale parla di una crisi, una crisi che coinvolge pesantemente con gli anni Settanta il cinema nipponico, che era stato in costante crescita dal Dopoguerra in poi; gli anni Ottanta segnano dunque un’epoca di reazione:
La crisi coinvolge per intero l’industria mainstream, colpita al cuore dal colpo di stato effettuato dalla televisione: l’elettrodomestico per eccellenza della seconda metà del Novecento catalizza l’attenzione del pubblico giapponese, che alle lusinghe della sala cinematografica preferisce la comodità del proprio salotto. Una storia non solo giapponese, ma che a Tokyo e dintorni viene vissuta con una drammaticità altrove meno accentuata: i cinema chiudono, e le major si defilano gradualmente dalla scena, preferendo agire nel mercato del softcore – che attira ancora pubblico in sala, in un’epoca in cui l’home video è ancora un progetto in fase di studio – o investendo tempo, risorse ed energie nei lavori seriali pensati a uso e consumo del tubo catodico, dove proliferano show live action o d’animazione. Nemmeno i maestri riescono a evitare di essere travolti dalla slavina scaturita dal crollo dell’industria cinematografica e cercano disperatamente di imboccare le uniche vie di fuga rimaste, seppur parzialmente, aperte. La prima risposta possibile è un ritorno all’indipendenza nuda e cruda, facendo magari ricorso all’autoproduzione; la seconda guarda invece ben al di là dei confini nazionali dell’arcipelago, e sospinge il capo dall’altra parte dell’oceano, nell’apparenza dorata di Hollywood che sta, al contrario di quanto avviene in Giappone, vivendo una delle sue palingenesi più esaltanti. Non è dunque certo un caso che “Kagemusha, l’ombra del guerriero” (“Kagemusha”, 1980) di Akira Kurosawa ospiti, tra i produttori esecutivi, Francis Ford Coppola e George Lucas. (…) Il cinema giapponese a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, costretto a confrontarsi con una crisi economica probabilmente inaspettata (almeno nelle proporzioni), sceglie una via produttiva che di fatto allontana dalle sale il pubblico femminile. L’esplosione su scala nazionale dei “roman poruno”, dei “pinku eiga” e dei più estremi “pinky violence”, figli e figliastri dell’ ”ero guro nansensu” degli anni Venti, crea di fatto un divario netto tra il pubblico quotidiano che invade le sale e quello, composto dalle donne e dai bambini, che può avvicinarvisi solo occasionalmente, magari per assistere ai sempre più sporadici “spettacoli per famiglie”. Se gli esercenti nipponici avevano sempre puntato molto, in particolar modo all’interno delle grandi conurbazioni urbane, sul pubblico maschile e sul cinema interessato all’erotismo, mai come durante gli anni che vanno dal finire degli anni Settanta alla metà del decennio successivo, si assiste a un vero e proprio monopolio dei “pinku eiga” e dei generi a lui similari sul resto della programmazione delle sale.
Ma la crisi degli anni Settanta e Ottanta non è solo dovuta della televisione. Meale individua un altro “colpevole” tecnologico:

Quando nel 1975 la storica Nintendō kabushiki gaisha (Società per azioni Nintendo), fondata nel 1889 da Fusajirō Yamauchi, irruppe sul mercato giapponese come distributore della console Magnavox Odyssey, il successo fu talmente immediato e clamoroso da consentire alla società di produrre console in proprio nell’arco di appena due anni. L’immaginifico mondo videoludico, con la possibilità per il giocatore di intervenire in prima persona nelle azioni che si succedevano sullo schermo, gettò ulteriore terra sul corpo già agonizzante del cinema nipponico. I giovani cineasti, sbarrate loro in faccia le porte dell’industria cinematografica, si adeguarono ben presto alla situazione: alcuni di loro rivolsero le proprie attenzioni alle produzioni televisive, seguendo le orme tracciate di fresco da registi già affermati come Seijun Suzuki, Shōhei Imamura, Teruo Ishii. Altri, rigettando in toto le convenzioni dell’industria, sia cinematografica che televisiva, le voltarono le spalle per intraprendere la strada dell’autoproduzione, rifacendosi spesso e volentieri all’estetica punk in voga nell’occidente (in particolar modo quello anglosassone) e segnando un ideale punto di contatto con l’eversione, stilistica e contenutistica, della “nuberu bagu” degli anni Sessanta. Venne dunque alla luce il fenomeno che sarebbe stato riconosciuto sotto il nome di “jishu seisaku eiga” semplificato, per convenzione, in “jishu eiga” (letteralmente “film auto prodotto”): l’etica del fai-da-te, diversa per concezione e incidenza sul mercato rispetto al cosiddetto cinema indie, trovò un suo megafono naturale nel magazine “PIA”, che copriva l’intera offerta culturale della conurbazione di Tokyo. La redazione della rivista decise di fondare nel 1977 un festival dedicato alle nuove leve del cinema, dando vita all’omonimo “PIA Film Festival”. Fu anche grazie agli sforzi, coerentemente del tutto auto finanziati, del “PFF”, che il pubblico giapponese non ancora completamente anestetizzato da televisione e videogame ebbe dunque l’occasione di posare gli occhi su nuovi nomi decisi a mettere a ferro e fuoco l’immaginario visivo e culturale nipponico. (…) Le pellicole da 8mm e 16mm usate come vere e proprie armi per combattere una crisi – economica, ma anche e soprattutto culturale – che attraversa una nazione da sempre abituata a trovare da sola le risorse in grado di riportarla in auge.
Anche Meale, durante la sua analisi sul cinema della crisi degli anni Ottanta individua, fra alcune perle, la perla più brillante: la produzione animata dello Studio Ghibli.
Il saggista approfondisce il discorso sulla produzione parallela come rimedio “anticrisi” – un discorso prima solo accennato – nel capitolo successivo, intitolato Un Super-8 vi seppellirà: indipendenza e “jishu eiga”. Quella del cinema indipendente giapponese è una produzione enorme, una produzione che in Occidente conosceremo, in tali livelli quantitativi, solo con il diffondersi di Internet:
La pellicola Super-8 (ma anche il 16mm e le varie potenzialità del video, dall’Hi-8 alle ultime camere digitali) diventa l’arma per combattere l’obesa sonnolenza del sistema industriale: con un’attitudine figlia del punk che dopo aver furoreggiato oltreoceano sta prendendo piede anche nelle principali isole del Giappone, i giovani autori si fanno beffe della prassi produttiva. Avulsi da qualsivoglia calcolo meramente economico, le opere prodotte in completa libertà si dimostrano spesso e volentieri grezze, ma cariche di una vitalità in grado di azzannare in maniera letterale le abitudini consolidate del cinema nipponico. In questo sono forse davvero loro, i registi venuti alla luce tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, gli unici veri figli della “Nuberu bagu”: ed è essenziale non confondere lo stile e l’approccio dei “jishu eiga” a quello dei “dokuritsu eiga”, vale a dire ciò che noi definiremmo cinema “indie”. Mentre l’indipendenza cinematografica si riduce a opere che, pur sfruttando in tutto e per tutto tecniche, stili e modelli lavorativi delle major, non sono direttamente prodotte da loro, i “jishu eiga” i muovono in direzione ostinata e contraria. È il vero e proprio elogio dell’amatore, il regista fai-da-te, il visionario inadatto alla costrizione in regole ferme e preordinate.
Arriva così Riccardo Rosati (un saggista che più volte ho incontrato nelle mie recensioni su “EreticaMente”) con il capitolo L’epica del disastro: il Kaiju Eiga. Detto in soldoni, il kaiju eiga è il cinema fantascientifico dei mostri giganti, il cui campione è l’arcinoto Godzilla di Honda:

I “kaijū eiga”, nati dalla fantasia dei team creativi delle case di produzione nipponiche a partire dal Secondo Dopoguerra, sono storie per la maggior parte legate alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki e che affrontano talvolta anche problematiche di tipo ambientale. Sovente, infatti, sono le radiazioni nucleari a causare le orrende mutazioni genetiche responsabili della nascita di questi enormi mostri. Il più grosso fraintendimento legato a questo genere cinematografico è che si tratti di prodotti esclusivamente di puro intrattenimento, totalmente privi di contenuto. Se questo è pur vero per molti di questi film, è necessario tuttavia prendere atto, come del resto la critica sta già facendo da vari anni, che i principali “kaijū eiga” sono pellicole che trattano tematiche cruciali e spesso scomode. Il fatto che argomenti come le atomiche di Hiroshima e Nagasaki siano affrontati in modo indiretto e in buona parte allegorico, non ha permesso a questo tipo di film di venire apprezzato anche per il suo valore politico. (…) “Gojira” (“Godzilla”) vuole essere una denuncia verso gli orrori della Seconda Guerra Mondiale e in particolare del proliferare nel mondo delle armi atomiche. Infatti, il mostro viene alla luce proprio grazie a questo tipo di arma che tiene in scacco l’intero pianeta da anni. Tutto quello che è collegato a questo mostro si rifà da un lato a elementi tipici della cultura nipponica (come la minaccia che arriva dal mare) e dall’altro alla questione della pericolosità della tecnologia usata per fini non pacifici. Il fatto che Gojira sia un risultato degli esperimenti nucleari statunitensi suggerisce altresì un implicito anti-americanismo, elemento spesso presente nella saga, poiché Gojira è e sempre sarà un “dramma giapponese” causato dagli altri. Il mostro in questione è talmente famoso nel Sol Levante e nel mondo da essere diventato una vera icona della fantascienza, ripresa e mutata negli anni. (…) il “Gojira” di Ishirō Honda non ha soltanto consacrato a livello mondiale un genere, ma rappresenta tutt’oggi una delle più incisive pellicole di denuncia antinucleare mai girate. Honda affresca uno spaccato del Giappone già in buona parte proiettato nell’epoca moderna, intriso com’è di Occidente. Ciò nonostante, si tratta pur sempre di una nazione ancora incapace di dimenticare le profonde ferite di una guerra segnata dall’atomica. Trattasi di un’opera che oltrepassa le barriere dell’arte, per porci domande sconvolgenti e ammonirci sul futuro. Si pensi alla battuta finale del film: “questo non sarà l’ultimo Gojira”.
Meale si occupa anche del decennio seguente, Gli anni Novanta. Con la morte dell’imperatore Hirohito nel 1989, dopo un regno che durava dal 1926 e dopo il duro colpo alla Nazione del 1946, quando il tenno dichiarò la sua “natura umana” e non più divina, il Giappone entra in una nuova era, che coinvolge tutti gli aspetti della vita di quel popolo e dunque anche i mezzi di informazione e di intrattenimento. I grandi maestri come Kurosawa producono le loro ultime opere, il cinema continua nella sua crisi ultradecennale, il mercato dell’home video prende sempre più campo. Nuove figure prendono corpo, figure nuove che stimolano un nuovo “interesse per i generi” cinematografici (in testa a tutti gli yakuza eiga), un interesse che porterà il cinema nipponico alla “rinascita”:
La figura che agli occhi occidentali incarna con maggior precisione l’evoluzione del cinema giapponese di fine millennio è con ogni probabilità Takeshi Kitano: dopo l’esordio alla regia nel 1989 per sostituire Kinji Fukasaku alla direzione di “Violent Cop” (“Sono otoko, kyōbō ni tsuki”), quella che poteva apparire un’attività casuale e saltuaria si trasforma in una vero e proprio lavoro a tempo pieno. Ad appena un anno di distanza da “Violent Cop” esce nelle sale cinematografiche giapponesi “Boiling Point” (“3-4 x jūgatsu”, 1990), attraverso il quale Kitano indaga quel sottobosco criminale dominato dai clan della yakuza che ben presto diventerà uno degli snodi cruciali della sua poetica. Attore straordinariamente poliedrico, regista affermato (anche se in patria sarà sempre visto con malcelato sospetto e in occidente troverà accoglienza solo a partire da “Sonatine”, opera quarta del 1993), romanziere, poeta, pittore, presentatore televisivo, Kitano incarna tutte le possibili derive del cinema nipponico, proponendo di volta in volta tanto l’approccio puramente popolare quanto la riflessione autoriale, non disdegnando affatto l’ibridazione tra i generi.
Ma non è solo il cinema incentrato sulle gesta della mafia giapponese a ridare nuova linfa a un mercato asfittico:

Se i film dedicati alla yakuza proliferano, ancor più rappresentativa del cinema giapponese alla fine del millennio è l’esplosione di horror che investe il mercato produttivo nipponico. Tutto ruota intorno a “Ring” (“Ringu”, 1998) di Hideo Nakata, che rivoluziona completamente il cinema del terrore mondiale, operando una sapiente miscela di cliché del genere ed elementi propri della tradizione arcaica giapponese. Nasce così quel fenomeno di massa che sarà solitamente conosciuto come “J-Horror” e che nel giro di pochi anni travalicherà i confini nazionali, espandendosi a macchia d’olio tanto nell’area del sud-est asiatico, trovando adepti soprattutto in Corea del Sud e in Thailandia, quanto a Hollywood. L’orrore di marca giapponese, che agli inizi del decennio aveva trovato cantori in particolar modo negli ambienti del cyberpunk, si identifica in spiriti rancorosi e vendicativi, maledizioni mai sopite, ambienti chiusi e lugubri: rientrano alla perfezione in questa descrizione alcuni dei titoli più significativi tra quelli che apriranno le porte al nuovo millennio.
La fiction non è l’unico obbiettivo del volume Nihon eiga. Non a caso Matteo Boscarol firma il capitolo L’arte documentaria giapponese dai Settanta ai giorni nostri. Negli anni Settanta il documentario cerca di portare al grande pubblico la voce delle contestazioni e della resistenza dei contadini di Sanrizuka contro la costruzione dell’aeroporto internazionale di Narita: dietro l’obbiettivo i registi Ogawa e Tsuchimoto che nel decennio precedente avevano filmato le rivolte studentesche. E poi si va oltre:
La cinepresa di Masaki Tamura, uno dei più grandi direttori della fotografia giapponesi del dopoguerra, che collaborerà con Ogawa fino alla fine, si sofferma a studiare e carpire i sentimenti umani e le tensioni che scuotono i contadini di Sanrizuka, e soprattutto l’esplorazione della terra che li accoglie. Nel 1973 Heta buraku (lett. Il villaggio di Heta) è l’apice di questa nuova sensibilità, che predilige la riflessione all’irruenza, in un cambio di prospettiva già avvertibile, in nuce, in precedenti film della serie incentrata su Sanrizuka. Heta buraku appare animato da una forte componente epica, dispiegando il percorso che porta alla resistenza, i suoi perché, in un’ottica che non si accontenta di “mostrare” ma punta essenzialmente ad avvicinare il più possibile lo spettatore alla vita del villaggio: questo lavoro ci fa percepire quasi fisicamente fatiche, gioie e necessità degli abitanti di Heta. Alcune sequenze arrivano realmente a mettere i brividi: l’alba nei campi di riso con il canto mattutino degli uccelli, la preparazione dell’offerta a una divinità di forma fallica e un’anziana donna che col bambino sulla schiena parla coi poliziotti con voce flebile, intimando loro di tornare a casa. Queste scene non suggeriscono una banale e manichea contrapposizione tra “vita agreste/il passato” e “il progresso/il moderno”: siamo qui in presenza dell’arte politica nel suo senso più alto, quello cioè di presentarci un’organizzazione alternativa della vita in comune, un’altra possibilità che il presente potrebbe offrirci se solo lo sapessimo ascoltare. Heta buraku è in questo senso quasi un’opera di antropologia politica.
Proveniente dai Settanta è negli anni Ottanta che emerge del tutto e si impone a livello internazionale il documentarista Kazuo Hara, con le sue storie di ribellione:
“The Emperor’s Naked Army Marches On” (“Yuki Yukite shingun”, 1986) è l’opera che consacra Hara, anche a livello internazionale, come uno dei documentaristi più interessanti e fuori dalle regole in circolazione. Su suggerimento di Shōhei Imamura, che coproduce il film, Hara si interessa a Kenzo Okuzaki, un veterano della Seconda Guerra Mondiale che ha combattuto in Nuova Guinea e che ha dato scandalo tirando palline metalliche contro Hirohito, facendo di tutto affinché il popolo giapponese si rendesse conto della viltà che caratterizzò l’imperatore durante gli anni della guerra. Ma Okuzaki non è certo solo una vittima, anzi: davanti alla cinepresa dichiara senza problemi di aver ucciso e spesso (se non sempre) è guidato da una rabbia talmente radicale da sfiorare la follia. Nei suoi incontri con gli ex commilitoni, riapre le ferite che questi avevano cercato di cicatrizzare e a volte arriva perfino alle mani con alcuni di loro: la cinepresa di Hara è sempre lì vicinissima e non indietreggia di fronte a nulla, rendendosi quasi parte del tumulto che Okuzaki sobilla. È in questo senso che si può forse comprendere i motivi che spingono lo stesso autore a definire il proprio stile “action documentary”: alla fine delle due ore del film si viene sovrastati da tanta energia e dalla durezza e dalla schiettezza con cui le colpe e la memoria della guerra vengono dispiegate davanti a noi. Un documentario che è un pugno nello stomaco, citato da Michael Moore fra le sue influenze maggiori.

E infine gli anni Novanta – con un esempio calzante, collegato a un terribile fatto di cronaca che non scosse solo il Giappone, ma tutto il mondo – e oltre:
Il cinema molto spesso riflette la situazione sociale del paese e ci sono casi in cui questo è quasi inevitabile. Nel 1995 la setta Aum Shinrikyo, con una serie di attacchi col gas nervino nella metropolitana di Tokyo, scuote il Giappone dal sogno asettico che cullava la nazione. Il coraggioso Testuya Mori, negli anni che seguono, decide di filmare la vita quotidiana della setta, o di quel che ne rimane: il risultato sono i due documentari “A” (Id., 1998) e “A2” (Id., 2001), mai mostrati però in televisione e che hanno di fatto chiuso la carriera del regista che da allora non sembra essere più molto attivo. La verità è che di fronte a eventi di questo tipo si preferisce la totale demonizzazione, per cui anche mostrare la quotidianità della vita degli adepti è considerata probabilmente propaganda virtualmente pericolosa. Un’attitudine, questa, con la quale non è raro imbattersi nel Giappone contemporaneo: si assiste spesso infatti a una sorta di oblio o, nel caso questo non sia possibile, a una progressiva trasformazione delle problematiche in tabù, argomenti di cui non “è bene parlare”, specialmente quando si tratta di media ad ampia diffusione. È un movimento per certi versi affine a quello che non permette di fatto un’informazione completa sugli orrori perpetrati dalle truppe giapponesi nelle occupazioni di Cina e Corea durante e prima della Seconda Guerra Mondiale. A far le veci dei libri di storia, dove questi argomenti sono tuttora appena sfiorati, se non del tutto assenti, è il bel documentario “The Ants” (“Ari no heitai”, 2006), nel quale il regista Kaoru Ikeya segue un veterano di guerra che incontra i suoi excommilitoni e li accusa di torture e massacri.
Ancora Boscarol con Gli anni Zero, ovvero il primo decennio del XXI secolo, l’ultimo analizzato dal volume. Secondo l’autore per la società, e di riflesso per il cinema, è un periodo di transizione e di consolidamento. Consolidamento della cinematografia degli anni Ottanta e Novanta e transizione verso una nuova sensibilità negativa verso lo “straniero”, inaugurata dall’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001; in questo nuovo clima si innesta, nei primi anni del Duemila, una vera e propria mania per i telefilm coreani e taiwanesi, e l’ascesa di Internet e di videogame sempre più sofisticati e sempre più graficamente simili alla realtà:
Senza voler necessariamente generalizzare, possiamo dire che l’atmosfera generale è agli antipodi di quella degli anni Settanta da cui questo excursus è iniziato, anche considerando il quasi totale disinteresse delle nuove generazioni per la politica e per le rivendicazioni sociali101. La crisi economica, l’aumento dei flussi di persone in corso in tutto il mondo e l’invecchiamento della popolazione mettono poi il Giappone di fronte alla necessità di aprire le proprie frontiere: il risultato parla di un sempre maggiore numero di stranieri presenti sul suolo nipponico. I numeri in realtà sono ancora irrisori rispetto alle esperienze multiculturali europee o statunitensi, ma il Giappone non sembra ancora assolutamente pronto a un’apertura di questo tipo. (…) Continua a svilupparsi (in alcuni casi con ottimi risultati) il cinema della cosiddetta “nuova onda”, quella nata negli anni Novanta grazie a nomi che oggi sono parte della cinematografia internazionale come Takeshi Kitano, Shinya Tsukamoto, Shinji Aoyama, Takashi Miike, Kiyoshi Kurosawa e Hirokazu Koreeda, solo per citare i più noti. Tsukamoto intensifica e stilizza la sua poetica che diviene più essenziale, perdendo un po’ della freschezza degli inizi ma arrivando a comporre una filmografia fra le più interessanti viste negli ultimi decenni. Con la progressiva disintegrazione del nucleo familiare tradizionale così come era concepito fino a qualche decennio fa e la crisi economica che continua a destabilizzare e in alcuni casi a cambiare radicalmente alcuni pilastri su cui si fondano società e animo nipponico, gli anni Zero offrono un terreno fertilissimo su cui Tsukamoto può far germinare le sue fobie e ossessioni. Continua in questo modo la discesa nell’animo e nell’inconscio dell’uomo, in rapporto alla metropoli e alla società, descritta con una lucidità che ha pochi eguali: “A snake of June” (“Rokugatsu no hebi”, 2002) e “Vital” (Id., 2004) sono due esempi anche di come sempre di più sia il corpo il crocevia e il crogiolo attraverso cui passano tutte le problematiche, le tensioni sociali e politiche che animano la contemporaneità. In Giappone così come nel resto del mondo non si può più parlare in maniera assoluta di corpo privato e di spazio completamente privato e distaccato da ciò che succede all’esterno: identità e persona sono due termini che non hanno più la valenza che potevano ricoprire trenta o cinquanta anni or sono. Tecnologia invasiva, sistemi di controllo, social network e scienze mediche stanno mutando in maniera drammatica il concetto che abbiamo di noi stessi. Filosofia, cinema e letteratura già riflettono da molto tempo sulla questione e le sue possibile derive e nel Sol Levante soprattutto le tematiche sul confine fra l’elemento naturale e quello artificiale sono da sempre molto attuali. Tsukamoto con i suoi lavori rimane un autore fondamentale anche in contesti non prettamente cinematografici perché riesce a indicare nuovi possibili percorsi esplorativi da seguire.

Fra le cose notabili del decennio, secondo Boscarol, anche le nuove produzioni dello Studio Ghibli, l’inesauribile fonte sexy dei pinku eiga e il progressivo ampliarsi della cinematografia al femminile, che negli anni Ottanta e Novanta, pur già esistendo, era ancora marginale:
Una caratteristica degli anni Zero è “l’avvento” nel cinema giapponese di autrici femminili. Processo in crescita e che naturalmente riflette la diversa posizione che progressivamente la donna ha saputo o dovuto conquistarsi in una società, quella giapponese, ancora molto maschilista, specialmente quando si parla del mondo lavorativo. Se è vero che ancora oggi molti nuclei familiari sono composti da un marito che lavora e dalla moglie casalinga, bisogna però notare come le crisi economiche che oramai colpiscono il paese quasi regolarmente, unite a una sorta di indebolimento della figura maschile, hanno fatto sì che la donna stia via via acquistando una posizione sempre più importante nella vita sociale, politica e naturalmente artistica del Giappone.
Federico Ercoli si occupa della tendenza più nuova al momento dell’uscita del libro, il rapporto fra cinema e videogame, nel capitolo Cinema/Videogioco: la meravigliosa chimera giapponese. L’autore, prima di offrire ai lettori una carrellata dei migliori videogiochi assimilabili a quello che i profani potrebbero chiamare “cinema interattivo”, spende chiare parole introduttive:
Per meglio comprendere questa fusione davvero nucleare tra cinema e videogioco nipponico bisogna tuttavia liberarsi di alcuni luoghi comuni che spesso affliggono la stampa generalista quando parla di videogiochi, senza conoscerli e senza di fatto conoscere neanche il cinema. Spesso il linguaggio dei videogiochi viene equivocato con quello dei videoclip o della pubblicità, quando invece i games si esprimono attraverso categorie visive che appartengono al cinema puro, addirittura estremizzandole: il piano fisso, il piano sequenza, la soggettiva, assumono nel videogioco durate iperboliche che nel cinema mainstream sarebbero impossibili. Per cui i videogiochi ripristinano un’estenuante ma sublime classicità e c’è più cinema nel videogioco moderno che in quasi tutto il cinema di oggi, che adesso tende a mimare la brutta televisione (che a sua volta sta tornado a imitare il cinema nelle serie più riuscite).
Festival giapponesi, una breve panoramica è il capitolo che Boscarol dedica alle kermesse cinematografiche nipponiche. L’autore identifica il primo vero festival giapponese nel 1976, quando si tenne la prima edizione dello Yufuin Film Festival, seguito nel 1977 dal già citato Pia Film Festival del cinema indipendente e amatoriale. Il Tokyo International Film Festival, nato nel 1985, rimane uno dei più importanti. Del 1987 è lo Image Forum Festival, mentre lo Yubari International Fantastic Film Festival, che debutta nel 1990, ha dovuto sopportare numerose crisi e periodi di chiusura. Del 1991 è il Fukuoka Asian Film Festival. Boscarol lascia per ultima la manifestazione secondo lui più significativa, lo Yamagata International Documentary Film Festival, fondato nel 1989 dal già citato regista documentarista Ogawa.

Termina così il complesso percorso storico che prende tutta la prima parte del libro.
La seconda parte del volume è dedicata ai registi. Nomi fondamentali, a ciascuno dei quali è dedicata una sostanziosa scheda: Kinji Fukasaku di Raffaele Meale, Shōhei Imamura di Riccardo Rosati, Sōgo Ishii di Donatello Fumarola, Naomi Kawase di Raffaele Meale, Takeshi Kitano di Lorenzo Leone, Satoshi Kon di Enrico Azzano, Hirokazu Koreeda di Gaetano Maiorino, Kiyoshi Kurosawa di Daniele De Angelis, Takashi Miike di Raffaele Meale, Hayao Miyazaki di Enrico Azzano, Mamoru Oshii di Matteo Boscarol, Nagisa Oshima di Riccardo Rosati, Sion Sono di Matteo Boscarol, Isao Takahata di Enrico Azzano, Shūji Terayama di Raffaele Meale, Shinya Tsukamoto di Raffaele Meale e Kōji Wakamatsu di Matteo Boscarol.
I grandi maestri emergono in tre dimensioni dalle parole degli autori del volume. Lorenzo Leone, per esempio, ci avverte su Kitano:
L’errore più grande in cui si può incorrere nell’accostarsi a un cineasta come Takeshi Kitano è di catalogarlo in base a una serie di formule fisse: volente o nolente, gran parte della critica non si è certo astenuta dal farlo, ponendo così le basi per una guerra psicologica con il regista (poi esondata anche nel rapporto con il suo pubblico). Ecco perché, con lo stesso spirito provocatorio che ha sempre contraddistinto il suo percorso, se dovessimo suggerire un’icona che fosse la più emblematica della carriera artistica di Kitano, sceglieremmo quella tratta da un suo programma televisivo di successo, Takeshi’s Castle (Fūun! Takeshi-jō, 1986-1989), una sorta di Giochi senza frontiere dove lo scopo principale dei concorrenti era quello di superare tutta una serie di (demenziali) prove di resistenza per arrivare infine a tentare l’assalto al castello di Takeshi. In quell’essere contro tutto e tutti, continuamente sotto attacco insieme a qualche fidato sgherro, c’è il nocciolo della sua carriera cinematografica.
Per quanto riguarda l’animazione Azzano spende su Miyazaki parole sublimi, che evocano la mitopoiesi:
Il cinema di Hayao Miyazaki, prima ancora della maniacale cura dei dettagli e dei colori, della sorprendente verosimiglianza e ricchezza dei paesaggi e dei fondali, della fluidità delle animazioni e delle ripetute invenzioni narrative, è fatto di passioni e di temi ricorrenti. Nel corso dei decenni, tra serie televisive, lungometraggi cinematografici e cortometraggi che si possono apprezzare solamente al Museo Ghibli, Miyazaki ha disegnato un universo narrativo coerente, immediatamente riconoscibile, eppure mai uguale a sé stesso. Nel fantastico mondo di Miyazaki, sempre rivolto verso l’alto, vivono esseri giganteschi, alberi imponenti, aerei e macchinari volanti si moltiplicano a vista d’occhio, le donne hanno un ruolo fondamentale, la terza età si riavvicina all’infanzia, i giovani eroi hanno rapporti quasi simbiotici con animali spesso straordinari.

Dopo quelle sui registi seguono le schede sui film: Patriotism, Storia del Giappone del dopoguerra raccontata da una barista, Throw Away Your Books Rally in the Streets, Under the Flag of the Rising Sun, Hunter in the Dark, Perché no?, Burst City, Angel’s Egg, Max mon amour., Le avventure del ragazzo del palo elettrico, Il mio vicino Totoro, Violent Cop, Hiruko the Goblin, Shinjuku Triad Society, Maborosi, After Life, Barren Illusions, My Neighbors the Yamadas, Millennium Actress, Linda Linda Linda, Naissance et maternité, United Red Army, Sword of the Stranger, Monster X Strikes Back: Attack the G8 Summit!, Love Exposure.
Interessante, come tutte le altre, la scheda su The Rite of Love and Death / Patriotism (Yūkoku), diretto da Mishima nel 1966, in realtà un film antecedente ai Settanta che aprono il volume, ma è un film di crisi, un film che porta dentro di sé tutti i germi che animeranno il cinema giapponese nel decennio seguente. Prendiamo questa scheda come paradigma. Scrive Riccardo Rosati:

Un tono propagandistico di tipo nazionalista è certamente una caratteristica importante di questa pellicola. Tuttavia, esso non può essere considerato come il fattore cardine dell’opera. Mishima auspicava infatti che con la glorificazione del martirio di Takeyama, egli avrebbe potuto scuotere in qualche modo l’animo dei figli di un Giappone annichilito dalla guerra e che egli stesso giudicava “corrotto”. Yūkoku costituisce dunque un reiterato omaggio a un eroico, quanto avventato, tentativo di riportare il Giappone verso la strada della tradizione. Trattasi però anche di un’opera intimistica, in virtù della scelta di rivelare uno spaccato di vita coniugale in un momento drammatico per una nazione vicina a un colpo di stato, con una vicenda dai contenuti universali: il dramma della giovane coppia è in fondo il dramma di tutto il popolo giapponese, lacerato tra tradizione e modernità. Mishima, divo eccentrico e spesso vanitoso, estrapola pedissequamente dalla struttura narrativa del suo racconto una sceneggiatura ben compatibile con le esigenze del linguaggio cinematografico e del teatro classico giapponese. Questa storia piena di pathos ci regala inoltre un Mishima attore sorprendentemente all’altezza, come del resto lo è anche la talentuosa coprotagonista Yoshiko Tsuruoka, col turbinio di passioni ed emozioni di cui è intrisa la narrazione che viene magistralmente comunicato dalla loro recitazione nonostante la totale assenza di dialoghi. Il bianco e nero poi non attenua, ma anzi enfatizza i contrasti onnipresenti nell’opera: il candore del kimono di Reiko, contrapposto al nero sangue che sgorga dalle ferite nel ventre del marito. La luce illumina il volto diafano della donna, mentre Takeyama è spesso in ombra, acuendo, nel contempo, il confronto e l’unione tra due amanti appassionati nell’ultima notte della loro vita.
Il volume termina con la sezione Appendice, nella quale troviamo un’ampia Bibliografia, le Note Biografiche sugli autori e un indispensabile Glossario sulle terminologie e i generi cinematografici citati a piene mani nell’opera.
Nel leggere Nihon eiga il profano scoprirà un mondo affascinate, a tratti imprevedibile. Una cinematografia vastissima, per molti versi ancora sconosciuta nel nostro Paese che da sempre è orientato sul cinema italiano, europeo e statunitense. Grazie a Internet è possibile, durante la lettura, godersi spezzoni dei film citati, rendersi conto del linguaggio della cinematografia giapponese, del modo diverso di intendere la scansione temporale, dell’occhio con cui guarda i personaggi femminili e il sesso, del suo amore per il “genere”, un amore molto più sentito che in Occidente con vere e proprie “canonizzazioni” di figure (maschere), situazioni, trame. Una lettura indispensabile.
Enrico Azzano, Raffaele Meale e Riccardo Rosati
NIHON EIGA: STORIA DEL CINEMA GIAPPONESE DAL 1970 AL 2010
Prefazione di Maria Roberta Novielli
pagg. 230 – € 15,00
ESF Edizioni, 2010