28 Febbraio 2025
Storia delle scienze

Il navigatore simbolico – Gianfranco V. Strazzanti

Cristoforo Colombo ha tutto e nulla a che vedere con il processo di omologazione cartografica dell’orbe terracqueo. Egli appare come una figura di transito, un guardiano appostato suo malgrado sulla soglia dell’epoca più nefasta. Bisogna distinguere in tal senso tra i suoi viaggi storici e le traversate simboliche. Queste ultime si nutrirono della numerologia triadica legata alle sue imbarcazioni, dei riti di consacrazione delle terre esplorate, dei fitti contatti con gli ordini monastici: costante fu infatti il supporto che Colombo ricevette dalle congregazioni francescane di Andalusia. Si deve forse a questo il suo frequente ricorso a espressioni e suggestioni tratte dal linguaggio di Gioacchino da Fiore.[1]

In ogni caso, la cosiddetta “scoperta delle Americhe” dal punto di vista tradizionale implica un reciso cambio di rotta; tantoché c’è da chiedersi fino a che punto l’Ammiraglio del Mar Oceano si sia spinto lungo i rivi della contraffazione delle profezie neotestamentarie.

La prima traversata colombina venne intesa e organizzata come una crociata o, quantomeno, come una manovra in preparazione di una crociata. L’idea di volgere delle vele crociate verso occidente suonò all’epoca, per molti, come qualcosa di completamente strambo e inaudito.

L’Europa aveva fino ad allora e per millenni pregato, aveva costruito chiese, era andata in pellegrinaggio verso oriente. Oriens, nascente, non era solo un cardine geografico, ma un concetto, un principio, una realtà verso cui ricercare la rinascita e l’ascesa e, da lì, le realtà superiori, abitate dagli spiriti eccelsi. Inoltre, a oriente si trovava Gerusalemme.

Tutto ciò Colombo non lo aveva certo dimenticato. Egli chiese infatti apertamente ai reali di Spagna che i proventi della sua spedizione oltreoceano venissero utilizzati per un preciso scopo. Ne troviamo traccia nei suoi diari:

Dissi alle Vostre Altezze che tutto il guadagno di questa mia impresa doveva essere destinato alla santa crociata di Gerusalemme. Le Vostre Altezze sorrisero e dissero che erano d’accordo e che in ogni caso era quella la loro intenzione[2].

L’intenzione del navigatore era dunque quella di aprire una nuova rotta per la requisizione di risorse alfine di indire una nuova crociata, sullo slancio della Reconquista della penisola iberica portata a termine nello stesso periodo dai Reyes católicos, Ferdinando II di Aragona e Isabella I di Castiglia.

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La rotta di Levante por el Ponente rappresenta per Colombo, che spiritualmente sente di appartenere alla stirpe di Davide, una missione affidatagli dalla Provvidenza nell’imminenza della fine dei tempi. Il suo primo viaggio, da Palos a Guanahani, viene compiuto proprio nella premonizione di una fine incombente, di un destino legato ai moniti dei Profeti, in uno slancio che si preannunciava al contempo letale e salvifico:

Io non sono il primo Ammiraglio della mia famiglia: mettanmi pure il nome che vorranno, che in ultimo David, Re sapientissimo, fu guardiano di pecore, e poi fu fatto Re di Gierusalemme; e io servo son di quello stesso Signore che mise lui in tale stato[3].

Così scrive l’Ammiraglio del Mar Oceano, nell’intento di lasciar affiorare il carattere messianico della sua missione.

La fredda e prolungata manipolazione dei dati storici ha tramandato il viaggio delle tre caravelle come un mero avanzamento tecnico-scientifico. «L’ampliamento dei confini dell’impero umano», il mondo che si scopriva molto più vasto ed eterogeneo di quanto si fosse fino ad allora creduto; ma l’idea di un ampliamento conoscitivo non rappresentava che un dettaglio per lo stesso Colombo, e probabilmente un dettaglio poco rilevante.

Di fatto, nei suoi diari, nelle sue lettere e annotazioni, ogni parola traspira conoscenze e finalità che con la scoperta e l’avanzamento scientifico poco hanno a che vedere.

Per questo, le traversate di Colombo serbano una tacita penombra di intenzioni e conati destinati a rimanere del tutto incomprensibili all’indagine di una mentalità secolarizzata e dissacrante. Il profluvio di pubblicazioni e sconvolgenti rivelazioni su un Colombo genovese, aragonese, franco-normanno, o allevato in chissà quale anfratto d’Europa, non hanno fatto che confermare il gusto e l’ossessione tutta occidentale per i destini individuali, mentre si fa sempre più pervasiva l’indifferenza per i moniti sibillini celati dietro le vele delle tre caravelle.

In tal senso, tra le imprese colombine più enigmatiche e temerarie, quanto spesso dimenticate, vi è certamente l’esplorazione oceanica in cerca dell’Eden.

Già per Dante Alighieri, l’isola della «divina foresta»[4] andava localizzata agli antipodi della Gerusalemme terrestre. Secondo le cognizioni geografiche odierne, essa dovrebbe dunque sorgere da qualche parte in mezzo all’Oceano Pacifico. Ma le concezioni medievali non sono sovrapponibili a quelle contemporanee: le prime dipendono infatti da una simbologia di cui oggi si stenta a comprendere le finalità; mentre le seconde hanno finalità pratiche, dichiaratamente commerciali.

Ancora nei primi anni del Cinquecento, Colombo si trova a riferire alla Regina Isabella del suo proposito di trovare l’esatta posizione dell’isola edenica[5]. Un versante della missione colombina che potrà oggi apparire del tutto astruso e privo d’ogni senso e coordinata, ma che pure rappresenta traccia indelebile dell’interesse del navigatore genovese per il misterico e il sovrannaturale. Aspetti che egli concepì secondo il mandato religioso e apocalittico che sentiva proprio.

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Gli atti rituali superano spesso le volontà e le aspettative di chi li compie e i viaggi di Colombo sono disseminati di consacrazioni, città ribattezzate con nomi ispirati alla devozione evangelica, costruzioni di chiese dedicate alla Vergine e isole dedicate al nome e all’aura devota della Casa reale di Spagna.

Difficile vedervi un atteggiamento scientifico o razionalista.

La missione di Colombo rappresenta uno spartiacque simbolico prim’ancora che storico. Nel compiere la sua impresa, in vista della liberazione di Gerusalemme, egli volge le spalle alla Città Santa, e dice a tutti di volerle andare incontro. Aprire sì una rotta verso oriente, ma attraverso le onde del Mare Tenebroso che si estende a occidente.

Quale atto meglio di questo poteva inaugurare i tempi della dissoluzione finale?

Gli scritti di Cristoforo Colombo sono costellati di argomentazioni di carattere biblico e religioso. Non a caso, sono stati tramandati da uomini del clero, come il monaco certosino Gaspare Gorricio e il vescovo Bartolomé de las Casas[6].

L’Ammiraglio del Mar Oceano per la sua missione s’ispirò alle profezie bibliche, in particolare a quelle raccolte nella sua opera più meditata: El Libro de las Profecias. Compì le sue spedizioni con lo scopo principale di evangelizzare i popoli assoggettati; evangelizzazione che egli concepì come missione urgente, da portare a termine nell’imminenza della fine apocalittica dei tempi[7].

Ma sulla scorta di quali interpretazioni bibliche l’ammiraglio decise di imbarcarsi in una tale impresa?

A un orecchio accorto, alcune delle sue spiegazioni potrebbero suonare piuttosto tendenziose; proprio come le parole scritte alla Casa reale di Spagna dopo il suo arresto a Hispaniola (odierna Haiti e Repubblica Dominicana):

Del nuovo cielo e della nuova terra di cui parla Nostro Signore nell’Apocalisse di San Giovanni, dopo averli annunciati per bocca di Isaia, mi fece messaggero e mi indicò la strada. Tutti furono increduli, ma alla regina, mia signora, diede spirito d’intelligenza e forza grande e la fece erede, come sua sacra e dilettissima figlia, di tutto ciò di cui andai a prendere possesso nel suo reale nome[8].

Il possibile accostamento tra le esplorazioni e la rivelazione apocalittica dovette farsi idea consolidata, nella mente del navigatore, solo dopo la sua completa consacrazione alla missione verso le Indie[9]. Egli non si limita però all’ammissione di aver compiuto il viaggio per adempiere le profezie bibliche, ma giunge ad accostare i cieli della nuova rotta occidentale da lui aperta, e le stesse Indie, ai «nuovi cieli e nuove terre» dell’Apocalisse giovannea.

Tale accostamento suona però alquanto forzato.

Il testo di San Giovanni dice, infatti:

Poi vidi un cielo nuovo e una terra nuova, infatti il primo cielo e la prima terra sono andati e il mare non è più e la città quella Santa Gerusalemme nuova vidi discendente dal cielo da Dio pronta come una sposa ornata per il suo sposo[10].

La città di cui si parla qui è, come si vede, «discendente dal cielo».[11]

Non si tratta né di una città terrena né di un centro paragonabile a qualsiasi abitato o contrada del mondo. Vedere nelle Indie appena scoperte nuovi cieli e nuove terre, ovvero una Gerusalemme Celeste, rasenta dunque la contraffazione delle Scritture; contraffazione nient’affatto disinteressata, se è vero che Colombo scrive alla Regina mentre è agli arresti, quindi molto probabilmente in sua difesa.

Ecco, dunque, la domanda: Colombo fece forse un uso politico e a suo modo forense delle Scritture?

Rispondere affermativamente equivale a dire che l’ammiraglio fu un impostore.

A tale possibilità c’è solo un’alternativa, e cioè che Colombo in questi suoi carteggi abbia fatto ricorso a un linguaggio in qualche modo cifrato.

La retorica del Cinquecento era spesso adorna di motivi religiosi e potrebbe suggerire una spiegazione molto più semplice di quella appena prospettata.

Con la Gerusalemme celeste e i suoi novissima, Colombo avrebbe fatto ricorso solo a una metafora indicante, nei domini conquistati a ponente, nuove terre e nuovi cieli conquistati alla cristianità. Questa è però una possibilità piuttosto remota. Colombo, infatti, non associava alla sua missione significati improvvisati. La sua conoscenza delle profezie e delle varie teorie sull’imminente fine dei tempi note alla sua epoca era, tutto sommato, puntuale e dettagliata.[12]

Era in ogni caso giunto alla conclusione che la sua missione veniva condotta su mandato divino, perché «durante questo tempo ho visto e studiato tutti gli scritti di cosmografia, di storia, di cronache, di filosofia e delle altre arti, e Nostro Signore mi aperse l’intelletto con mano palpabile [rivelandomi] che era fattibile navigare da qui alle Indie, e mi accese la volontà della esecuzione di ciò»[13].

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Se non esattamente la Gerusalemme Celeste, nelle intenzioni e concezioni del navigatore, le Indie raggiunte da Occidente rappresentano una tappa di avvicinamento a quel «nuovo cielo» e «nuova terra» del profeta Isaia e dell’Apocalisse stessa.

In tale dinamica, l’ammiraglio si pone come un precursore sulla strada che porta verso la fine dei tempi; e la regina Isabella come una delle poche anime elette capaci di comprenderlo, perché anche lei dotata di quello «spirito d’intelligenza» mutuato da Gioacchino da Fiore e necessario a intuire il significato escatologico delle scoperte compiute.[14]

È chiaro, dunque: la scoperta delle Indie, la divulgazione dell’esistenza di un altro continente, hanno rappresentato – per i suoi stessi fautori ed esecutori – un evento che non può essere ridotto a una semplice perlustrazione marittima, a una scoperta. Esso implica invece un processo di accelerazione verso il tempo apocalittico, di cui Colombo e la «sacra e dilettissima figlia» Isabella erano da tempo consapevoli; processo, questo, che per l’ammiraglio è stato decretato dall’azione della stessa Provvidenza sul mondo e che «nostro Signore ha fretta di compiere»[15].

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Le oscurità nel linguaggio di Colombo riemergono in un altro documento riguardante una delle sue missioni più peregrine. Come si diceva, nel corso delle sue esplorazioni egli andò anche in cerca dell’isola dell’Eden. Ne parla in un rapporto alla Corona di Spagna. Il comunicato risale con ogni probabilità al biennio 1500-1501, gli stessi anni che lo videro rientrare in Spagna in catene, messo agli arresti dall’inquisitore Francisco de Bobadilla in seguito ai disordini scoppiati presso l’isola di Hispaniola.

Scrive l’ammiraglio:

La Sacra Scrittura attesta che Nostro Signore fece il Paradiso terrestre e vi pose l’albero della vita, da dove sgorga una sorgente che si divide nei quattro maggiori fiumi del mondo: il Gange in India; il Tigri e l’Eufrate, che formano la Mesopotamia, e il Nilo, che nasce in Etiopia e sfocia ad Alessandria.

Non trovo, né ho mai trovato scritti di latini o di greci che definiscano esplicitamente la posizione del Paradiso terrestre, né l’ho visto segnato in alcuna ‘mappa mundi’ con autorità certa. Alcuni lo collocano dove sono le sorgenti del Nilo in Etiopia, ma altri che percorsero tutte quelle terre non hanno mai trovato né la mite temperatura, né quell’altezza fino al cielo che potesse comprovare che le acque del diluvio non lo avevano sommerso, ecc. Alcuni gentili vollero argomentare che si trovava nelle Isole Fortunate, che sono le Canarie, ecc.

Sant’Isidoro, Beda, Strabone, il maestro della ‘Historia Scolastica’ [di Petrus Comestor, nda], Sant’Ambrogio, Duns Scoto e tutti gli altri santi teologi concordano nell’affermare che il Paradiso terrestre è ad oriente, ecc.

Ho detto quel che ho trovato in questo emisfero e credo che se potessi passare oltre la linea equinoziale arrivando fino al punto più alto, troverei una temperatura molto più mite e gran diversità nelle stelle e nelle acque, non perché creda che il punto più alto sia navigabile, o che ci sia acqua, né che si possa giungere fin lì, ma perché credo che lì si trovi il Paradiso terrestre al quale nessuno può accedere se non per volontà divina. Ma la terra che le vostre altezze mi hanno mandato a scoprire è grandissima e ve ne sono molte altre in direzione australe di cui non si è mai saputo nulla.

Non credo che il Paradiso terrestre abbia la forma di un’aspra montagna, come mostrano le descrizioni che ne sono state date, ma che sia alla sommità del luogo di cui ho detto che è come il picciolo di una pera e si eleva gradualmente per molte miglia e sono convinto, come ho detto, che nessuno potrebbe raggiungerne la sommità. Ritengo tuttavia che per quanto l’Eden sia lontano, quest’acqua dolce possa provenire da lì e formare, nel luogo da dove vengo, quel gran lago. […] Quel fiume e lago che ho trovato lì è tanto grande che dovrebbe piuttosto essere chiamato mare, perché il lago è una limitata estensione d’acqua, la quale se è vasta, prende il nome di mare, come si dice Mar di Galilea o Mar Morto.

Ma affermo che, se questo fiume non discende dal Paradiso terrestre, viene da una terra immensa situata a sud, della quale non si è mai avuta alcuna notizia[16].

Gli argomenti di cui si tratta in questa missiva sono certamente riservati a pochi. Parlando della ricerca del Paradiso terrestre, egli intende forse alludere a uno specifico centro spirituale, una località con caratteristiche simboliche, geografiche e astronomiche tali da permettere agli uomini di elevarsi al di sopra della realtà terrestre[17]. Solo in tal modo potrebbe trovare una spiegazione l’accenno all’Albero della Vita[18].

La lettera di Colombo conferma in ogni caso la legittimità del sentore: le spedizioni verso le Indie ebbero altre finalità oltre a quelle comunemente note. Il navigatore parla di un’isola simile al «picciolo di una pera» che «si eleva gradualmente per molte miglia» e di cui «nessuno potrebbe raggiungerne la sommità».

L’isola a cui si fa riferimento sembra affine al Purgatorio dantesco, il quale si trova proprio sul polo opposto rispetto alla Gerusalemme terrestre e che quindi, almeno secondo la geografia simbolica della Commedia[19], nella stessa direzione delle aree esplorate da Colombo.

La «linea equinoziale» di cui parla il navigatore genovese sembra infine corrispondere all’eclittica ovvero il piano che interseca il centro della terra con il centro del sole. Allontanandosi dall’arcipelago caraibico per esplorare l’America Latina, egli è in ogni caso convinto che «lì si trovi il Paradiso terrestre, al quale però nessuno può accedere se non per volontà divina».[20]

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La pulsione dominante in Colombo è quella di fare vela verso occidente, anche dopo aver superato tutte le onde dell’Atlantico. Il suo viaggio verso ponente è costantemente spinto alla deriva, verso gli antipodi di Gerusalemme. Si tratta degli stessi antipodi verso cui s’incammina Dante nella sua Commedia, attraversando l’Inferno.

Gli intellettuali medievali concepivano un asse che, da Gerusalemme, passa attraverso le interiora terrae, supera ogni perdizione e disgrazia e le stesse viscere congelate del Lago Cocito, dove dimora l’angelo caduto. Proseguendo oltre, immaginavano, emergente dal centro stesso dell’emisfero delle acque, la più misteriosa delle isole: il Purgatorio, sulla cui sommità veniva localizzato l’Eden, centro iniziale di ogni ascesa verso i cieli spirituali.

In Dante, e in maniera più confusa e spontanea in Colombo, tutto ciò assume un carattere escatologico, finale: l’intera storia si rivolge verso gli antipodi di Gerusalemme, in attesa di quella Civitas Sancta Ierúsalem della quale, pur con incostante fervore, si attende l’avvento, definitivo atto di misericordia della Provvidenza. Tale isola ha però caratteri piuttosto mobili, mutevoli. Essa appare, scompare, finge forme. La sua sostanza è interiore. Il profilo di una terra emersa può sì mimarla, ma non sostanziarla.

Il navigatore genovese compì un atto altamente simbolico dei tempi ultimi, tempi di inversione e sfacelo.

A differenza di Dante, che raggiunse l’isola degli antipodi attraversando le interiora terrae, l’asse che da Gerusalemme conduce al punto più estremo dei mari più ignoti, Colombo scelse la via del mare: volse le vele verso il tramonto, l’Occidens, la caduta, il collasso universale che conduce verso la fine dei tempi.

L’ammiraglio però, per quanto ne sappiamo, non trovò mai quell’Eden che cercava, non durante il suo transito terrestre almeno. E, smarrito l’Eden, l’orizzonte della Divina Foresta contrapposto alla brutale Selva oscura, dovette comprendere pienamente il dramma apocalittico nel quale era stato coinvolto.

Tra le poche consolazioni, per quanto postuma, rimase a Colombo quella di aver trovato voce al suo pianto per le ingiustizie spagnole nelle nuove terre. Fra’ Bartolomé de las Casas si fece infatti inflessibile accusatore dei conquistadores, rilevando tutta l’ipocrisia di una colonizzazione mascherata da azione civilizzatrice.

E cos’è più propriamente moderno e contemporaneo della colonizzazione che si finge azione civilizzatrice?

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Una mappa moderna, con la sua precisione millimetrica e il suo reticolo di paralleli, è il segno di una cultura che ha fatto della misurazione e della quantificazione delle apparenze contingenti il suo unico scopo. Misurazione e quantificazione sono le attività fondanti dell’attività mercantile. Nel valutare le quantità e i relativi margini di guadagno, non è opportuno tenere conto di ciò che va oltre il misurabile e il quantificabile, perché ciò va oltre le prerogative del mercante.

MATERIA SIGNATA QUANTITATE

Ecco uno dei principi fondanti, e al contempo dimenticati, della cartografia moderna.

In questo principio si celano le colonne d’Ercole superate da Colombo. E proprio in ciò la stessa vicenda di Colombo riserva un altro dei suoi enigmi insoluti: egli intese dirigere l’umanità verso la Nuova Gerusalemme, verso l’avvento del Regno Eterno, ma la sua impresa finì per sprofondarla definitivamente proprio nella materia signata quantitate.

Colombo, almeno all’apparenza, intraprese la sua missione per predicare il Vangelo a quella parte di mondo che ancora lo ignorava, seguendo l’invito «andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura»[21]. E il Libro delle Profezie è lo scrigno nel quale è racchiuso il senso biblico di questa sua missione.

In esso, nella dedica ai Reali di Spagna, è scritto:

El abad Johachín, calabrés, diso que había de salir de España quien havía de redificar la Casa del monte Sión[22].

Rimane però del tutto ignoto e oscuro dove e a che proposito «l’abate Gioacchino, calabrese» abbia scritto o detto che «dalla Spagna sarebbe venuto colui che avrebbe riedificato la Casa del Monte Sion». In ogni caso, con queste parole, si assiste al ritorno del fervore Templare, della liberazione della Terra Santa, dell’apocalittica discesa della Nuova Gerusalemme.

Ma tale fervore, in Colombo, assume un tono sospetto, un’aspirazione la cui natura è difficile da accertare.

Quanto alla predizione di Gioacchino da Fiore, essa non deve necessariamente essere contenuta in un’opera scritta. Quel diso si riferisce forse a una predizione gioachimita, o pseudo tale, circolante negli ambienti monastici francescani che, come noto, Colombo si trovò spesso a frequentare.

Dello stesso Gioacchino va invece ricordato un altro passo affine, molto significativo perché può trovare qualche connessione analogica con la missione delle tre caravelle:

Reaedificanda est sancta civitas de novis et politis lapidibus, et hoc a filiis transmigrationis modernae;[23]

ossia «la città santa dev’essere rifatta con pietre nuove e levigate, e ciò sarà compiuto dai figli dell’esilio moderno». Questo passo gioachimita è notevole per diverse ragioni. Innanzitutto, perché vi si rivela la necessità che gli esiliati spirituali si facciano carico anche loro della ricostruzione della Città Santa.

Si noti a questo proposito la presenza dell’aggettivo moderna[24], cosa del tutto insolita per un testo medievale in latino; aggettivo riferito ad un altro termine, meno insolito ma di grande pregnanza, come transmigratio. Termine che il traduttore ha reso con esilio, e che però sembra andare oltre il semplice concetto di un esilio o di una deportazione fisica, per rimandare ad una migrazione delle anime attraverso il mondo contingente e, in prospettiva apocalittica, al viaggio verso la rivelazione degli ultimi giorni, imperniata sulla discesa della Nuova Gerusalemme.

 

NOTE

[1] Cfr. C. Colombo, Libro delle Profezie, cura e traduzione di W. Melczer, Novecento, Palermo, 1992, folia 1-6, pp. 25-36 (Ed. or. Libro de las profecías, 1504, conservato presso la Biblioteca Capitular y Colombina della Cattedrale di Siviglia).

[2] C. Colombo, I diari di bordo, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1992, pagina del mercoledì 26 dicembre 1492, p. 49.

[3] Fernando Colombo, Le Historie di Cristoforo Colombo scritte dal figlio Fernando, Massari, Bolsena VT, 2006, p. 55.

[4] Purg., XXVIII, 2.

[5] C. Colombo, La tesi del Paradiso terrestre (dalla relazione ai sovrani), in I diari di bordo, cit., pp. 131-134.

[6] Il primo, monaco della Certosa di Siviglia, redasse molti testi di Colombo e fu destinatario del fondamentale Libro de las Profecias; il secondo, vescovo di Chiapas, nell’odierno Messico, curò e integrò I diari di bordo colombini qui citati.

[7] A questo proposito, cfr. Libro delle Profezie, cit., folio 6r, p. 35 nonché le profezie evangeliche citate alle pp. 64-65 (folio 20r-v).

[8] Colombo, I diari di bordo, cit., p. 160

[9] Colombo, Libro delle Profezie, cit., p. 35: «Già dissi che nell’esecuzione dell’impresa delle Indie non mi fu d’utilità né la ragione, né la matematica, né il mappamondo: semplicemente si compì ciò che Isaia aveva detto». Nell’originale del Libro de Las Profecias, Fol. 5: «Ya dise que para la hesecuçión de la ynpresa de las Yndias no me aprovechó rasón, ni matemática, ny mapamundos; llenamente se cunplió lo que diso Ysayas». Il riferimento è a Isaia 65, 17-21: «Ecco infatti io creo/ nuovi cieli e nuova terra;/ non si ricorderà più il passato,/ non verrà più in mente,/ poiché si godrà e si gioirà sempre/ di quello che sto per creare,/ e farò di Gerusalemme una gioia,/ del suo popolo un gaudio./ Io esulterò di Gerusalemme,/ godrò del mio popolo./ Non si udranno più in essa/ voci di pianto, grida di angoscia./ Non ci sarà più/ un bimbo che viva solo pochi giorni,/ né un vecchio che dei suoi giorni/ non giunga alla pienezza;/ poiché il più giovane morirà a cento anni/ e chi non raggiunge i cento anni/ sarà considerato maledetto./ Fabbricheranno case e le abiteranno,/ pianteranno vigne e ne mangeranno il frutto».

[10] Ap. 21, 1-2.

[11] καταβαίνουσαν ἐκ τοῦ οὐρανοῦ, nel testo originale.

[12] Colombo, Libro delle Profezie, cit., pp. 33-34.

[13] Ibidem, Lettera dell’Ammiraglio al Re e alla Regina, p. 31.

[14] Colombo, I diari di bordo, cit., p. 160: «Sono venuto con incondizionato affetto a servire questi principi e gli ho reso un servigio quale non si vide, né udì mai. Del nuovo cielo e terra di cui parla Nostro Signore nell’Apocalisse di San Giovanni, dopo averli annunciati per bocca di Isaia mi fece messaggero e mi indicò la strada. Tutti furono increduli, ma alla regina, mia signora diede spirito d’intelligenza e forza grande e la fece erede, come sua cara e dilettissima figlia di tutto ciò di cui andai a prendere possesso nel suo reale nome». L’espressione spirito d’intelligenza era comune nel Medioevo, negli ambienti gioachimiti, cfr. Rerum Britannicarum Medii Aevi Scriptores, 66, 68.

[15] Libro delle Profezie, cit., p. 35. Nell’originale (folio 6r): «la señal es que Nuestro Señor da priessa en ello».

[16] I diari di bordo, cit., pp. 131-134.

[17] Qualche risposta in questo senso potrebbe arrivare dalle considerazioni di René Guénon sul superamento delle colonne d’Ercole contenute in Simboli della Scienza Sacra, Cap. 33, A proposito dei due San Giovanni; e in Il Re del Mondo, Cap. 11, Localizzazione dei centri spirituali.

[18] Per i significati connessi all’Albero della Vita, si veda non solo Genesi, ma anche Apocalisse, 22.

[19] Questo, come si vedrà, rappresenta uno degli aspetti più complessi della geografia dantesca, in quanto le polarità dei due emisferi, almeno nella Divina Commedia, non vengono sempre espressi in relazione al rapporto matematico e cartografico, ma si nutrono anche di motivi legati all’esegesi biblica seguita dall’Alighieri; cfr. Inf. XXXIV, 112-115 e relativo Commento di Nicola Fosca.

[20] C. Colombo, I diari di bordo, cit., pp. 133.

[21] Marco, 16, 15. Il Capitolo 16 del Vangelo di Marco è però di dubbia autenticità, dal momento che non è contenuto nei manoscritti più antichi.

[22] Vaticinia Sive Prophetie Abbatis Ioachimi et Anselmi Episcopi (Venezia, 1588); cfr. Colombo, Libro delle Profezie, cit. p. 161, note 149-150.

[23] Gioacchino Da Fiore, Sull’Apocalisse, Enchiridion super Apocalypsim, VIII (1532-1561), traduzione di A. Tagliapietra, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 244: «La città santa dev’essere rifatta con pietre nuove e levigate, e ciò sarà compiuto dai figli dell’esilio moderno».

[24] Il termine non è neanche presente in molti dizionari latino-italiano.

In copertina: Rafael Monleon y Torres, Le tre caravelle di Cristoforo Colombo, 1885.

La mappatura dell’Estremo Occidente è tratto da Geografia medievale e smarrimento contemporaneo.

L’opera integrale è gratuitamente disponibile ai seguenti link:

https://www.academia.edu/126814164/Geografia_medievale_e_smarrimento_contemporaneo

Geografia medievale e smarrimento contemporaneo

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