14 Dicembre 2024
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I padroni della finanza


di Enrico Marino
Il modello imperiale britannico è sempre stato un’impresa finanziaria in cui le considerazioni morali erano sempre messe in secondo piano rispetto all’urgenza del profitto. Anzi, le espansioni coloniali inglesi rispondevano a progetti intrinsecamente criminali, nel senso che facevano affidamento sugli utili derivanti dallo schiavismo e dalla vendita di stupefacenti.
Una fase dell’Impero – che fu un impero atlantico composto dalle colonie americane e dai possedimenti dei Caraibi – ebbe termine quando gli Americani combatterono la loro guerra rivoluzionaria per l’indipendenza. Una seconda – l’impero asiatico, fondato sul controllo dell’India e del commercio imposto con la forza alla Cina – ha cominciato a chiudersi con l’indipendenza dell’India nel 1947. Il nazionalismo arabo e quello africano hanno progressivamente affievolito l’influenza britannica negli anni che seguirono. A un certo punto, con la sconfitta a Suez nel 1956 e, infine, quando la Gran Bretagna si è ritirata dal suo ultimo possesso significativo all’estero, Hong Kong, nel 1997, il gioco si è concluso.

Oggi, se uno crede a quello che ci viene detto da rispettabili storici e dai media, la Gran Bretagna ha voltato le spalle al suo passato imperiale e sta mettendocela tutta per farsi strada come una nazione normale. La realtà è un po’ più complicata. E ormai da decenni siamo alle prese con una terza fase dell’imperialismo britannico, organizzato intorno alle sue infrastrutture finanziarie offshore e alle notevoli risorse diplomatiche, di intelligence e di comunicazione inglesi. Dopo aver abbandonato la forma esteriore, militare, dell’impero, gli inglesi hanno cercato di recuperarne la sostanza.
Il Regno Unito permette ai residenti stranieri di detenere i loro fondi offshore e tassa unicamente i soldi che portano nel paese. Questo approccio, una reliquia dai tempi dell’impero ufficiale, rende il paese un popolare luogo di residenza per i miliardari di tutto il mondo, dall’Africa, dall’Europa continentale e dall’India.
Una volta a Londra, un sofisticato apparato giuridico e finanziario fa in modo che i fondi esteri siano depositati in una rete di giurisdizioni offshore. In un suo libro rivoluzionario, “Treasure Islands”, Nicholas Shaxson descrive Londra come il centro di una ragnatela che collega le Isole del Canale, l’Isola di Man e i Caraibi. Gli inglesi, in sostanza, hanno riadattato i resti sparsi del loro impero come strumenti per soddisfare le esigenze del capitale globale.
Quando l’Unione Sovietica si sciolse, quelli che si erano assicurati il controllo dell’economia russa privatizzata si trasferirono in blocco a Londra. Avevano poco in termini di base sociale nel proprio paese e la loro posizione era insicura. Avevano bisogno di trovare un modo per incanalare profitti all’estero e Londra offrì loro l’accesso a un centro mondiale della finanza, oltre ad aliquote fiscali favorevoli.
La città ha dato ad alcuni di loro anche un profilo pubblico planetario. Con l’acquisto del Chelsea Football Club e dell’Evening Standard, Roman Abramovich e Alexander Lebedev, rispettivamente, si sono trasformati in figure di rilevanza internazionale.
Lo Stato britannico, però, non si limita a fornire ospitalità, bassa fiscalità e celebrità, ma mette anche le sue risorse diplomatiche a disposizione dei suoi residenti stranieri preferiti.
Sono noti gli intrecci tra la finanza offshore, la politica e le donazioni ai partiti nel Regno Unito.
E seppure le donazioni da stranieri sono illegali, è una questione relativamente semplice creare una società registrata nel Regno Unito per effettuare la transazione. La condizione di offshore confonde la distinzione tra interno ed estero.
Tutto questo fa parte di un progetto imperiale molto più vasto, la cui portata e significato sono difficili da comprendere per il grande pubblico. Questo non è un impero che si fa pubblicità. Anzi, cerca di occultare la sua stessa esistenza. Ma non vi è alcun dubbio circa le sue ambizioni. Per decenni, i governanti della Gran Bretagna hanno cercato di fare di Londra la capitale del capitalismo globale. Lo Stato si è riorganizzato a tal fine. Le politiche di privatizzazione sono state testate prima nel Regno Unito e poi esportate in tutto il mondo.La deregolamentazione ha portato le banche estere a Londra. Il settore finanziario, quello dei servizi segreti e i partiti politici sono impegnati in un progetto che i principali media difficilmente si sentono di discutere. 
Di tanto in tanto, le dinamiche dell’impero offshore diventano visibili nella forma di scandali e crimini sensazionali. Le lotte di potere producono delle increspature difficili da ignorare. Una fazione dell’impero invia un messaggio ad un’altra. Per un attimo ciò che non si può discutere è menzionato, obliquamente, così come le maniere di agire dell’impero. Ma poi tutto torna nell’oblio e nel silenzio. La city resta il cuore mondiale del capitalismo finanziario e dei grandi squali delle borse, degli spread, delle banche d’affari, dei derivati, della speculazione. La city resta il passaggio obbligato per chi vuole accreditarsi presso i detentori del potere economico mondiale e da loro ricevere l’investitura a governare uno Stato. Da D’Alema a Occhetto fino a Prodi, la sinistra italiana è passata tutta per la city per rassicurare il grande capitale, rifarsi una verginità e ingraziarsi i padroni della moneta. E lo stesso Monti ha dovuto dare spiegazioni e garanzie poco dopo il suo insediamento alla guida del governo tecnico.
Il neo impero britannico non è una superpotenza industriale o militare. Anzi, è marcatamente vulnerabile. E le grandi potenze potrebbero fare molto per ostacolarlo, se solo scegliessero di farlo.
Ma esso rappresenta una tentazione permanente a tradire le lealtà locali e nazionali in nome dell’appartenenza ad un’entità molto più esclusiva ed elusiva, un’élite il cui fascino è intimamente legato alla sua opacità, alla sua capacità di operare senza controlli, senza dover rendere conto ad alcuno, esercitando un potere occulto e pervasivo che prospera nella misura in cui può sfruttare e, ove possibile, stimolare, la corruzione e l’obbedienza in altri contesti.
La vecchia retorica è sparita, non ci sono più bandiere e trombe. Ma per altri versi, l’impero assomiglia molto al suo predente. Deve fare tutto il possibile per evitare che un’autentica democrazia prenda piede nel Regno Unito e lo sottoponga a regole e controlli. Più ricava lauti profitti dalla rapina finanziaria operata all’estero, più la macchina del capitalismo globale avvantaggia solo una piccola minoranza delle élite dell’apparato. La restante parte dei cittadini si trova ad affrontare un futuro di crescenti disuguaglianze, ridotte prospettive e disagio sociale. Come nei secoli precedenti, i cittadini sono chiamati a pagare quando le avventure all’estero diventano costose. Infine, come il precedente impero britannico, quello attuale è un’impresa criminale. Ma dopo essersi specializzato in schiavitù e traffico di droga, oggi il suo marchio distintivo è diventato il reato di evasione fiscale e il cinico sacrificio delle economie europee sull’altare del mercatismo, dei rating e dei saldi di bilancio.

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