11 Dicembre 2024
Tradizione celtica

I misteri di Stonehenge, prima parte – Fabio Calabrese

Quello che segue, è il testo della conferenza da me tenuta il 3 luglio scorso al festival celtico triestino Triskell. Come già lo scorso anno, quando l’argomento da me trattato riguardava il Santo Graal e re Artù, mi è sembrato opportuno presentarlo, suddiviso in due parti, ai lettori di “Ereticamente”. Infatti, sebbene l’argomento non riguardi direttamente la politica, nondimeno è uno studio sulle nostre radici, sulla nostra identità di europei, di cui non avremo mai troppa consapevolezza, né eccessiva volontà di difenderla dall’ondata mondialista che oggi minaccia di travolgerla.

Fra tutte le testimonianze del passato, quelle che da sempre hanno maggiormente attirato l’attenzione dei ricercatori e spesso colpito la fantasia popolare, sono i monumenti megalitici (il termine viene dal greco: mega = grande e litos = pietra), ossia quei monumenti composti da pietre di dimensioni ciclopiche, anche perché pongono problemi ingegneristici la cui soluzione presuppone conoscenze tecniche che si ritiene superino di gran lunga quelli in possesso delle popolazioni delle epoche in cui furono eretti.

Megaliti si trovano quasi in ogni parte del mondo, nelle Americhe, nel Pacifico (si pensi agli enormi moai dell’Isola di Pasqua). Uno dei più vasti, belli, ben conservati, antichi complessi megalitici del mondo si trova non lontano da noi nell’isola di Malta, ma non c’è dubbio che il più noto complesso megalitico dell’Europa settentrionale sia quello di Stonehenge che sorge nella piana di Salisbury in Inghilterra, anche se va detto subito che le Isole Britanniche sono ricche di megaliti, al punto che oggi le parole celtiche indicanti le varie tipologie di queste costruzioni, termini come dolmen, menhir, cromlech, sarsen sono divenuti di uso quasi universale.

Su chi siano stati i costruttori dei megaliti delle Isole Britanniche, prosegue la controversia fra gli studiosi; la maggior parte sembra propensa ad identificarli non con gli antenati dei Britanni dell’epoca storica, ma con una popolazione neolitica che avrebbe preceduto l’arrivo dei Celti in Britannia ed in Irlanda; non tutti, però, sono di questo avviso, ad esempio, l’antropologo e linguista Colin Renfrew in un articolo pubblicato su “Le Scienze” nel novembre 1991, scriveva:

“La lingua celtica si sarebbe evoluta nell’Europa occidentale a partire da radici indoeuropee. Anziché essere un gruppo autoctono cancellato dagli Indoeuropei, il popolo che costruì Stonehenge e gli altri grandi monumenti megalitici d’Europa era costituito da Indoeuropei che parlavano una lingua da cui derivano le odierne lingue celtiche” (1).

Bisogna anche considerare che, privi del supporto di documenti scritti, gli archeologi sono costretti a basarsi esclusivamente sulle tracce di cultura materiale, e questo comporta una distorsione metodologica (della quale, però, farebbero bene a essere maggiormente consapevoli). Applicando gli stessi criteri alla nostra epoca, ad esempio, si potrebbe immaginare un’invasione del “popolo del CD laser” venuto a soppiantare “la cultura della celluloide e del vinile”.

Quanto alle funzioni di Stonehenge come degli altri complessi megalitici ed alle tecniche impiegate per spostare per chilometri blocchi di pietra di decine di tonnellate e per sollevarli sovrapponendoli ad altri a mo’ di architrave, dire che siamo tuttora nel campo delle congetture, è forse fin troppo generoso, è più giusto ammettere che siamo di fronte ad uno dei più inquietanti ed intriganti misteri della preistoria.

Questo monumento aveva certamente anche altre funzioni, come vedremo, ma forse il mistero più intrigante riguarda gli allineamenti astronomici sofisticati di questo complesso megalitico, che si possono mettere in relazione con i solstizi, gli equinozi, le fasi della luna, le eclissi, che presuppongono conoscenze astronomiche ed un’abilità ingegneristica di notevole grado, che si stenta a conciliare con l’idea che di solito abbiamo della preistoria, soprattutto per le aree lontane dal Mediterraneo, dal Medio Oriente, dalla cosiddetta “mezzaluna fertile”.

Benché Stonehenge non sia l’unico complesso di pietre megalitiche delle Isole Britanniche né il maggiore (quello di Avebury ad esempio è quattro volte più ampio), non lo si può studiare senza arrivare alla conclusione che la sua edificazione, risalente a un migliaio di anni prima della costruzione delle piramidi d’Egitto, testimoni il possesso di conoscenze raffinate sia per quanto riguarda le tecniche che hanno permesso la posa in opera dei monoliti che lo compongono, ciascuno dei quali pesa svariate tonnellate, e sono allineati in maniera tale da aver consentito il collocamento di una serie di lastre orizzontali che dà alla costruzione l’aspetto di un vasto recinto litico, sia per quanto riguarda gli allineamenti con le posizioni del sole in coincidenza con gli equinozi e i solstizi, che fanno supporre una conoscenza astronomica altrettanto raffinata (sebbene quest’ultimo punto sia controverso, perché in un restauro compiuto agli inizi del XX secolo alcune pietre non sono state ricollocate nelle loro posizioni originali).

Ora, si comprende che sarebbe ben strano se questo complesso rappresentasse una sorta di isola di civiltà circondata per ogni dove da un mare di barbarie.

Riguardo alle tecniche costruttive che hanno permesso la realizzazione del complesso megalitico, c’è da dire preliminarmente che noi uomini moderni, ogni volta che ci confrontiamo con opere imponenti realizzate nell’antichità od addirittura in epoca preistorica, tendiamo a provare uno stupore probabilmente eccessivo: Stonehenge ma anche le piramidi egizie, i templi maya, le linee di Nazca, ma anche gli anfiteatri romani o le cattedrali gotiche. Il fatto è che tendiamo a sottovalutare quel che è possibile fare senza il complicato armamentario tecnologico a cui siamo abituati, ricorrendo semplicemente ad ingegnosità, perizia, grande disponibilità di forza lavoro, e soprattutto l’opera protratta per decenni di una comunità umana solidale e profondamente motivata.

Non c’è motivo di seguire i lambiccamenti di alcuni ufologi e persone dalla fantasia eccessiva quanto male indirizzata che suppongono che gli antichi Britanni fossero in possesso di conoscenze tecnologiche impossibili per l’epoca, magari rivelate loro da extraterrestri. Per fare un esempio più vicino a noi nello spazio e nel tempo, il mausoleo di Teodorico a Ravenna ha una straordinaria cupola monolitica, e non conosciamo le tecniche che possono aver permesso la realizzazione di un manufatto di questo genere, né di collocarla alla sommità del monumento, tuttavia conosciamo la storia della transizione tra antichità e Medio Evo abbastanza bene da poter escludere che all’epoca in Italia vi fossero extraterrestri in circolazione.

Dal 2004 al 2008 l’area di Stonehenge, e in particolare le sepolture risalenti all’epoca dell’edificazione del santuario megalitico che vi si trovano, sono state oggetto di una serie di ricerche che, si può dire, hanno cambiato completamente la nostra idea dell’Europa preistorica.

Dal maggio 2008, si è ripreso a parlare molto di Stonehenge, da quando l’archeologo Mike Parker Pearson dell’Università di Sheffield, che per anni ha condotto campagne di scavi nel sito nell’ambito dello Stonehenge Riverside Archaeological Project della stessa Università, ha reso pubblici i risultati di queste ricerche, soprattutto dopo che un documentario su Stonehenge ispirato alla teoria di Parker Pearson è stato messo in onda il 1 giugno 2008 sul National Geographic Channel di Sky.

Per dire la verità, Parker Pearson non è stato certo il primo, poco prima della pubblicazione delle sue ricerche, nel gennaio 2007 è stata data notizia del ritrovamento di una pietra megalitica e di resti umani avvenuto a circa 3,2 chilometri da Stonehenge. Il team guidato da Colin Richards della Manchester University e da Joshua Pollard della Bristol University avrebbe individuato i resti di due persone, e ritrovato un cristallo di rocca proveniente dalle Alpi. Sempre nel 2007 a tre chilometri circa da Stonehenge sono poi stati ritrovati i resti di un villaggio neolitico databili fra il 2500 e il 2600 avanti Cristo, una vasta area delimitata da un fossato e i resti di alcune abitazioni con un focolare al centro. La coincidenza dell’orizzonte temporale fa pensare che si tratti proprio del villaggio (o di un villaggio, perché c’è da presumere che la realizzazione del monumento abbia richiesto una manodopera alquanto numerosa), dei costruttori di Stonehenge.

Ancora prima, a condurre una campagna di scavi nel 2004 sono stati altri due archeologi inglesi,  Tim Darwill e Geoff Wainwright, che dovevano più tardi mettersi in luce contestando vivacemente le interpretazioni di Mike Parker Pearson.

Secondo l’interpretazione data da Parker Pearson al complesso megalitico, esso sarebbe stato essenzialmente un monumento funerario. Attorno ad esso si trovano infatti numerose sepolture. Un comunicato diffuso da Alice News in data 28 maggio 2008 riporta:

“Mike Parker Pearson, professore di archeologia dell’Università di Sheffield ha formulato la nuova ipotesi dopo essere riuscito a datare al carbonio 14 alcune sepolture rinvenute negli anni Cinquanta. Due risalgono al periodo in cui si costruirono il terrapieno e il fossato (circa 2900 a. C.); la restante al 2570-2340 a. C., quando venne innalzato il cerchio di pietre. Altre tombe vennero scoperte negli anni ’20 ma poi riseppellite (…).

L’archeologo ha anche individuato un legame tra Stonehenge e l’enorme terrapieno circolare di Durrington Wall, caratterizzato da pali di legno conficcati nel terreno: si ritiene possa aver ospitato banchetti e cerimonie funerarie. I defunti venivano poi trasportati in barca lungo il fiume Avon per essere sepolti in prossimità dei megaliti. Durante le indagini, iniziate nel 2003, è stato identificato un viale che conduce da Durrington Wall al corso d’acqua, molto simile a quello che collega Stonehenge con lo stesso fiume (…).

L’analisi al carbonio 14 delle ceneri di corpi cremati ritrovati all’interno del comprensorio archeologico hanno portato a datare le prime sepolture a circa cinquemila anni or sono, e hanno mostrato che le pratiche funerarie a Stonehenge andarono avanti per almeno cinquecento anni (…).

I più antichi resti umani calcinati trovati a Stonehenge risalgono a un periodo intorno al 3080-2880 avanti Cristo, secondo la datazione al radiocarbonio. Tuttavia, il periodo in cui il monumento servì da luogo di sepoltura appare limitato a cinquecento anni, nel corso dei quali vi sarebbero state deposte in tutto le ceneri di non più di 240 persone: l’ultima, una donna di 25 anni sepolta nel 2140 avanti Cristo”.

L’interpretazione di Parker Pearson è stata contestata da Tim Darwill e Geoff Wainwright che hanno condotto una campagna di scavi nel complesso megalitico nel 2004. Secondo costoro, la scarsità delle sepolture, meno di una ogni due anni (circa 240 lungo un arco di tempo di 500 anni) e la circostanza che circa la metà di coloro che vi furono sepolti, erano forestieri (esiste un metodo, l’analisi dello smalto dentario, per stabilire la provenienza di una persona, lo vedremo in dettaglio tra poco) e soprattutto molti dei resti esaminati mostrano i segni di malattie o ferite, tendono a far escludere che la funzione principale di Stonehenge fosse quella di monumento funerario, sia pure per una ristretta élite. Darwill e Wainwright vi vedono piuttosto un luogo di cura che richiamava pellegrini anche da aree molto lontane (è ovvio che coloro per i quali la cura non aveva effetto e morivano, venissero poi sepolti nelle vicinanze), e hanno definito il complesso megalitico una Lourdes della preistoria.

A sostegno della loro interpretazione, Darwill e Wainwright hanno analizzato la struttura del monumento megalitico. Essa consiste in un triplice cerchio di pietre disposte concentricamente. Il cerchio più interno e quello più esterno sono costituiti da triliti di pietra grigia di origine locale, detti sarsen, ma il secondo cerchio è costituito da monoliti di origine diversa, le cosiddette “pietre blu” che bagnate assumono una tinta bluastra, la cui provenienza è nelle Praseli Hills del Galles, a circa 240 chilometri di distanza, e il loro trasporto fino alla piana di Salisbury nel Wiltshire dove sorge Stonehenge, deve aver presentato problemi ingegneristici notevoli che certamente i costruttori del monumento non si sarebbero sobbarcati se non avessero attribuito a queste pietre un significato speciale, che andasse oltre il rendere omaggio a dei leader defunti.

La regione delle Praseli Hills da cui provengono le pietre blu, è ricca di sorgenti termali il cui potere curativo è sfruttato ancora oggi. Secondo i due archeologi, per una forma di magia simpatetica del resto comune nella mentalità preistorica e nel mondo antico, si riteneva che lo stesso potere curativo si trovasse nelle pietre blu.

Darwill e Wainwright hanno raccolto ed esaminato i frammenti di pietra presenti nel suolo del monumento, e hanno constatato che sebbene la pietra sarsen rappresenti di gran lunga il tipo di materiale che costituisce il monumento, sul suolo del complesso si trovano in maggioranza frammenti di pietra blu. Questo, secondo i due ricercatori, significa che queste ultime venivano scheggiate di proposito per ricavarne amuleti che poi erano probabilmente commercializzati.

In seguito, probabilmente grazie anche alle obiezioni mossegli da Darwill e Wainwright, Mike Parker Pearson ha modificato le proprie ipotesi sul grande santuario megalitico, in una direzione che forse apre uno squarcio sul mistero dell’identità dei suoi costruttori, come ha spiegato in un’intervista che in Italia è stata mandata in onda mercoledì 11 marzo 2009 su RAI 2 dalla trasmissione “Voyager”.

Si tratta d’intendersi: la trasmissione condotta da Roberto Giacobbo su RAI 2 è un programma sensazionalistico per il grosso pubblico, occorre cura nel separare il grano dal loglio, ma in questo caso va considerata la credibilità della fonte.

L’archeologo si è accorto che le prime sepolture note a Stonehenge risalgono al 3000 avanti Cristo, mentre la costruzione del monumento dovrebbe essere di cinquecento anni precedente.

Quale era dunque la funzione del sito nei cinque secoli precedenti il suo utilizzo come luogo di sepoltura?

La nuova ipotesi di Parker Pearson è che esso fosse un immenso cenotafio, un monumento agli antenati. Quali antenati? Probabilmente quelli vissuti prima della migrazione che portò il popolo dei megaliti ad insediarsi nelle Isole Britanniche. Da dove sarebbero venuti? Questo è forse il punto più interessante di tutta la questione: sia i monoliti di Stonehenge sia quelli di un altro famoso monumento megalitico, Carnac in Bretagna, sembrerebbero orientati in modo da guardare verso un punto preciso dell’oceano Atlantico, quello dove si trovano le isole Azzorre.

Le Azzorre sono oggi un arcipelago di estensione relativamente modesta, dove è difficile pensare che possa essersi originata una grande civiltà, ma non bisogna dimenticare che si tratta di isole vulcaniche che sorgono su di una piattaforma che i movimenti tettonici di questa regione geologicamente inquieta possono aver fatto sprofondare, sarebbero dunque i rilievi montani superstiti di una terra un tempo molto più estesa; e non dobbiamo dimenticare la naturale fertilità delle terre vulcaniche, che avrebbe consentito la vita di una popolazione ben più numerosa di quel che possiamo oggi immaginare.

Una grande isola posta nell’oceano Atlantico oggi scomparsa, i superstiti di una civiltà perduta che avrebbero lasciato un’eredità difficile da valutare ma sicuramente importante alle culture successive, credo che a tutti voi a questo punto sarà schizzato nella mente un nome: Atlantide.

C’è un discorso che occorre fare in via preliminare: uno dei motivi, e forse il più importante che fa sì che il racconto di Platone del mito di Atlantide sia accolto con scetticismo, è che nell’Oceano Atlantico, come la geologia ha chiarito incontrovertibilmente, non c’è spazio per un continente; nessun continente sconosciuto può essere esistito dove oggi c’è l’Oceano Atlantico in un’epoca vicina a quella storica, ossia migliaia – e non milioni – di anni fa, tanto più un super-continente “più grande dell’Asia e della Libia messe assieme”, almeno dell’Asia e della Libia come noi le intendiamo, ostinandoci ad equivocare fra la terminologia geografica dei Greci di venticinque secoli fa e quella di oggi.

Si tratta di un equivoco piuttosto facile da dissipare: per “Asia” gli antichi Greci intendevano l’Anatolia, ossia la parte peninsulare dell’odierna Turchia, quanto alla “Libia”, per loro essa era la costa mediterranea dell’Africa ad esclusione dell’Egitto, approssimativamente da Ceuta alla Cirenaica, e poiché non ne specificavano la profondità (era tipico di un popolo marinaro come quello greco nutrire scarso interesse per ciò che si trova lontano dal mare), risulta impossibile determinarne la superficie, ma ad ogni modo è chiaro che proprio in base al racconto di Platone, se interpretato correttamente, possiamo fare riferimento ad una terra dall’estensione molto più contenuta, ragionevole, compatibile con i dati della geologia, del continente o del super-continente di cui molti hanno fantasticato.

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