4 Dicembre 2024
Sapienza Orientale

I Kalasha dell’Hindu Kush: gli ultimi figli di Dioniso – Martino Nicoletti

Pagani tra un mondo fatto solo di Islam

Nel cuore della civiltà islamica dell’Asia meridionale, non lontano dal confine settentrionale con l’Afganistan, una minuscola comunità di circa 4.000 anime vive ancor oggi perpetuando antiche tradizioni e una cultura più arcaica dello stesso Islam. Sono i Kalasha, popolazione di stirpe indoeuropea che, oggigiorno, rappresenta l’ultima realtà tribale non-islamizzata dell’intero Pakistan.

L’origine dei Kalasha – stanziati alle pendici di tre strette e distinte valli che si aprono ai piedi dell’immenso massiccio dell’Hindu Kush – è da riconnettersi all’esistenza di una ben ampia enclave non islamizzata che, nel passato, occupava una vasta area compresa tra l’attuale Pakistan occidentale e il territorio afgano orientale.  Alcune leggende locali, che tuttavia non hanno trovano conferma storica e scientifica, riconducono le origini di questo popolo all’antico mondo Mediterraneo. Secondo queste leggende la stirpe Kalasha sarebbe infatti nata dalla mescolanza tra gruppi indigeni e genti di origine greca. Tutto questo sarebbe accaduto all’epoca dell’invasione dell’India da parte di Alessandro Magno e delle sue milizie: stanchi delle interminabili peregrinazioni asiatiche del monarca macedone, alcuni suoi soldati decisero di abbandonare le fila dell’esercito e stabilirsi non lontano dal fiume Indo. Qui la ricchezza del suolo, la floridezza della natura, la mitezza del clima, unita alla benevolenza e alla accoglienza delle popolazioni indigene avrebbe permesso loro di sedentarizzarsi e, in breve di, dare vita ad una propria inconfondibile civiltà. Al di là delle leggende e del loro eventuale fondamento storico, ciò che in realtà ha consentito a questo antico popolo di sopravvivere sino ad oggi, è stata la specificità delle vicende storiche che hanno caratterizzato la regione abitata dai Kalasha negli ultimi secoli. Sino all’ultima decade del XIX secolo, un insieme di popolazioni definite come Kafiri (ovvero “pagani”), erano infatti stanziate nelle regioni montagnose dell’Afganistan orientale. A causa della sistematica opera di conversione forzata messa in atto da Amir Abdur Rahman Khan di Kabul, in pochi anni la totalità dei Kafiri di questa ampia area fu costretta ad aderire alla fede islamica. A testimonianza e coronamento dell’avvenuta opera di conversione lo stesso territorio del Kafiristan (“la terra dei pagani”) fu rinominato Nuristan, “la terra della luce”. Uniche popolazioni che sfuggirono a questo destino furono le etnie abitanti il cosiddetto Piccolo Kafiristan, identificabile con la regione di Chitral ancor oggi occupata dai Kalash e, all’epoca, posta sotto la giurisdizione amministrativa delle Indie britanniche. Fu proprio grazie a questa circostanza che i Kalasha poterono continuare ad aderire al proprio credo ancestrale, che si mantiene ancor oggi in vita nonostante la pressione culturale esercitata dalle popolazioni circostanti e la consistente presenza turistica.

La religione dei Kalasha

Nell’ambito propriamente religioso, i Kalasha professano una religione dal carattere politeistico – espressione diretta di un regime socioeconomico tipicamente agropastorale – incentrata nel culto di specifiche divinità ed entità invisibili associate con l’habitat naturale. Al culmine del pantheon è collocato Disala Desan, figura di Essere Supremo che, seppur riceva un proprio culto, riveste in realtà un ruolo secondario nella attiva vita rituale dei Kalasha che, in obbedienza ad un pragmatismo di fondo, è maggiormente imperniata nel culto di quelle divinità e spiriti della natura più prossimi alle vitali e terrene necessità umane. Si tratta in questi casi di entità che si ritiene abbiano la loro dimora in luoghi precisi del territorio occupato dai villaggi Kalasha e nelle inospitali pendici montane che li circondano.  In accordo con uno schema concettuale diffuso tra i Kalasha – secondo cui ogni singolo elemento della realtà risulta suddiviso nelle due distinte sfere del “puro” (onjeshta) e dell’”impuro”(pragata) – le numerose schiere di entità invisibili che abitano il cosmo sono classificate come “pure”, se propiziabili e potenzialmente benevole, e come “impure”, se caratterizzate invece da un’indole demoniaca, distruttiva e pericolosa. L’opposizione tra la “puro” e “impuro” ha per i Kalasha un significato profondo e un valore che investe ogni aspetto della vita dell’individuo come anche ogni sua possibile relazione con lo spazio che abita. Secondo questo schema infatti “pure” sono considerate le immacolate cime innevate, scevre della presenza contaminante dell’uomo e dimora per eccellenza di potenti dei. “Impuri” sono invece i territori di fondovalle prossimi ai corsi fluviali, luoghi promiscui e ricettacoli naturali di ogni sozzura. A questo rigoroso ordine classificatorio non sono esenti neppure gli stessi esseri umani. Tra i Kalasha, infatti, “puri” sono considerati gli uomini, gli individui maschi adulti, identificati con l’attività nobile della pastorizia e associati alla porzione concettualmente “alta” delle abitazioni Kalasha. “Non pure” sono invece le donne, connesse con il mondo agricolo e con attività lavorative considerate meno dignitose. Il carattere “non puro” delle donne si manifesta in particolare in occasione del periodo mestruale e durante il parto. I Kalasha infatti, come moltissime popolazioni tradizionali dell’Asia, considerano questi due eventi naturali come apportatori di contaminazione e impurità rituale. Nel caso specifico dei Kalasha il verificarsi di queste circostanze comporta, ancor oggi, la segregazione temporanea delle donne in apposite dimore – chiamate bashali – separate dai villaggi ed edificate in prossimità dei torrenti di fondovalle.

Le feste collettive

Per quanto attiene la sfera della ritualità collettiva, la vita religiosa dei Kalasha ruota attorno alla celebrazione di alcune feste stagionali collettive che rappresentano la trasposizione religiosa di alcuni dei momenti salienti del ciclo annuale agricolo e pastorale. Joshi è il festival primaverile che ha luogo nel mese di maggio e che celebra la fine della stagione invernale e il rigenerarsi della natura nel suo insieme. La festa sancisce inoltre la partenza delle greggi verso gli alti e distanti alpeggi. Uchao rappresenta invece il rituale collettivo estivo (mese di agosto) che celebra il picco massimo nella produttività dei greggi. Con l’arrivo dell’inverno ha invece luogo la lunga e complessa festa di Chaumos (mese di dicembre), associata al solstizio invernale. Caratterizzata dalla presenza costante di musiche, danze collettive e canti alternati tra gruppi di uomini e donne dal contenuto spesso osceno e scherzosamente provocatorio, la festa di Chaumos possiede alcuni tratti tipici comuni alle feste tradizionali di inizio anno, contraddistinte dai motivi simbolici del ritorno al caos, del comportamento licenzioso ed orgiastico, dell’inversione dei ruoli sessuali e sociali. È inoltre in coincidenza di questa specifica festa che i Kalasha celebrano una serie di attività rituali di corollario, dal carattere prettamente sacrificale, che rappresentano la sopravvivenza di antichi motivi iniziatici connessi con il passaggio dalla fanciullezza all’età adulta. Onnipresenti in tutti i rituali pubblici dei Kalasha sono le bevande alcoliche. Questa etnia infatti – in abominio delle popolazioni islamizzate del Pakistan per le quali l’alcol è tabù – coltiva da secoli la vite, da cui è ricavato un vino leggero e acidulo. Fatta crescere secondo un antico sistema che prevede l’associazione delle piante di vite a robusti alberi ad alto fusto che permettano di sostenerne il tronco e di offrire spazio alle sue estensioni arboree, la vite è, negli ultimi secoli, divenuta una realtà quasi emblematica della civiltà Kalasha, un ulteriore tratto distintivo che la differenzia delle comunità islamiche sunnite che le sono vicine.

I Kalasha oggi

La vita dei Kalasha al giorno d’oggi si dibatte tra il desiderio tenace di mantenere in vita le proprie tradizioni e le necessità imposte dal mondo moderno che sta lentamente dilagando anche queste remote regioni dell’Asia meridionale. Il turismo, in pieno sviluppo in buona parte del Pakistan, ha infatti investito anche le comunità Kalasha. In questa prospettiva, infatti, i Kalasha sono recentemente divenuti una delle maggiori attrazioni del turismo etnico della regione di Chitral. In una dimensione controllata, il turismo si è sviluppato attraverso la realizzazione di spartane strutture ricettive all’interno degli stessi villaggi Kalasha, luoghi ove i turisti possono sostare per brevi periodi condividendo la vita quotidiana di questo popolo e prendendo parte alle loro stesse feste tradizionali. L’incremento della presenza di turisti e viaggiatori stranieri ha consentito ai Kalasha, in pochi anni, di divenire una risorsa vitale per il turismo nel territorio nord-occidentale del Pakistan, contribuendo inoltre al crearsi di un clima di maggior distensione tra i Kalasha stessi e le comunità islamiche dell’area. Una premessa necessaria per il superamento della secolare diffidenza che separava i seguaci dell’Islam dagli eredi degli antichi Kafiri.

Martino Nicoletti (Dottorato di ricerca in Antropologia e PhD in Multimedia Arts): antropologo, scrittore e viaggiatore, si occupa da oltre venticinque anni di etnografia e storia delle religioni dell’Asia meridionale. È autore di numerosi saggi dedicati alla spiritualità dell’Himalaya, opere letterarie, volumi multimediali e fotografici pubblicati in più lingue. Vive in Bretagna. www.martinonicoletti.com

Per saperne di più:
Augusto Cacopardo, Natale pagano: feste d’inverno nello Hindu Kush, Palermo, Sellerio, 2010

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