…veramente espressiva sarebbe una bomba lanciata nella matematica pura.
Ma questo è impossibile.
J. Conrad, L’agente segreto.
Un sistema di misurazione cronologica come quello basato sul meridiano 0 di Greenwich può avere un suo senso solo a condizione che tutte le longitudini siano perfettamente parallele le une alle altre. Non a caso, le proiezioni cilindriche sono nate proprio per rendere isogoniche le intersezioni tra latitudini e longitudini.
Tale sistema non proietta solo un’immagine di mari e terre emerse ad usum navigantium, ma pone anche le basi per un modello cronologico lineare. Le ore vi si susseguono indistinte, come se tra esse vi fosse solo una differenza di carattere puramente sequenziale. E ciò accade perché, privando lo spazio di una qualsiasi autentica polarità, si finisce per neutralizzare ogni finalità connessa al trascorrere del tempo. Il tempo viene così ridotto a una dinamica riproducibile e, soprattutto, simulabile: una coazione a ripetere imprigionata in un meccanismo che non procede verso alcuna meta e che si preclude tutte le vie verso qualsiasi autentica estasi.
Il polo, infatti, al di là delle sue sembianze di punto geometrico, si pone anche quale terminale di convergenza, centro aggregativo in cui il tempo giunge a una sospensione e nel quale, all’essere umano, è dato elevarsi al di sopra delle contingenze, verso un destino superiore che lo liberi infine da un’esistenza determinata e tetra.
Questa è la regione per cui, in Dante, polo geografico e polo spirituale non coincidono. L’ascensione verso le sfere superiori dell’essere non può trovare il proprio slancio da un punto che deve la propria centralità a fattori unicamente astronomici o di calcolo geometrico, bensì in uno che ha la propria ragion d’essere in un sapere spirituale, capace cioè di trascendere le contingenze fisiche e astronomiche. I fattori astronomici, infatti, per quanto importanti, rappresentano pur sempre solo elementi transitori, destinati a mutare con il passare del tempo; dove invece la polarità spirituale, in virtù della simbologia a cui è legata, rimanda all’imperituro, alle realtà nascoste perché negate agli sguardi ossessionati dai limiti e dalle evidenze.
Di contro, nel caso del sistema di Greenwich, una tale argomentazione non ha però motivo di esistere, perché in tale sistema i poli nord e sud non solo sconoscono qualsiasi apertura verso i Cieli intellettuali ma, nella loro latente analogia con una qualsiasi polarità ultramondana, rimangono spesso del tutto occultati per via dell’uso da tempo invasivo e pervasivo della prospettiva plani-sferica.
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Nelle mappae mundi medievali, il nord non rappresentava la polarità superiore come nelle carte di oggi, ma stava solitamente alla sinistra dell’osservatore, mentre sul versante sommitale delle rappresentazioni cartografiche si estendeva l’Oriente, quell’Asia che iniziava con Gerusalemme e si concludeva sulla costa coincidente con l’odierna Cina e, oltre quest’ultima, non vi era che l’isola edenica sulla quale dominava il Logos universale, raffigurato nelle forme del Cristo in gloria.
Così accade, ad esempio, sulla stupenda Mappa mundi di Hereford, Inghilterra.
Un mondo privato di qualsiasi polarità, siano esse cronologiche, geografiche o simboliche, è un mondo incapace di convergere verso un portale extratemporale quindi di intraprendere un autentico pellegrinaggio; per questo, le menti che lo abitano non vedono altro che il nulla e la putrefazione dopo e oltre la morte. Per loro, la consunzione e la fine del tempo non vanno infatti mai associate a una risalita, a una qualche reintegrazione della loro anima nell’assoluto originario, ma sempre e comunque con una fine sine redemptione captivorum.
La cartografia moderna, con la sua pervasiva proiezione cilindrica, non ha influito solo sulla percezione degli spazi, ma anche e soprattutto su quella del tempo e sul destino extratemporale dell’uomo. Se passò più di un secolo prima che i naviganti «capissero il significato della carta di Mercatore», quanto più tempo è stato necessario per abituarsi, dal Cinquecento ad oggi, al nuovo ordine cronologico imposto dal mondo eurocentrico, anglo-centrico.
Sono stati necessari secoli, di fatto, prima che gli uomini dimenticassero qualsiasi centro verso cui rivolgere le proprie e più autentiche aspirazioni interiori.
Le mappae mundi medievali, perlopiù modellate sullo schema T-O, cioè su una T inscritta all’interno di un cerchio, avevano al loro centro Gerusalemme. Il loro Est era veramente orientativo, perché occupava la parte sommitale della mappa. Tale disposizione non nasceva da una ragione scientifica o esclusivamente geografica, ma da una lettura analogica dell’esistente, per cui, se la luce solare sgorgava da oriente, necessariamente, su un altro piano dell’essere, anche la luce divina doveva nascere da un oriente spirituale.
Non a caso, mappae mundi come quella di Hereford ritraggono Cristo in trono che giudica l’umanità posto proprio in cima alla mappa, ovvero da quell’«isola cinta di fuoco» che così rivela la sua vera natura di crogiolo del Logos, che col fuoco vaglia e svela l’intima natura di ogni cosa.
In queste mappe, confluiscono sapere biblico, conoscenze geografiche, simbologia apocalittica e, ancora, le leggende più significative.
L’uomo medievale non aveva infatti una concezione lineare del tempo, ma vedeva gli eventi, e con essi l’intera manifestazione, predisporsi e svilupparsi da un centro propulsore, rappresentato sul piano terreno dalla Gerusalemme terrestre.
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La cartografia rinascimentale non ha sancito solo l’inizio di rappresentazioni plani-sferiche già pronte ad accogliere i reticoli isogonici delle moderne mappe, ma ha anche iniziato quel processo di sgombero di qualsiasi polarità di ordine superiore che per millenni aveva contrassegnato i modelli rappresentativi antichi.
La centralità in seguito attribuita a Greenwich non solo è del tutto convenzionale ma, significativamente, a essa non è direttamente associata una polarità, ma solo il punto di convergenza tra i due poli e un’area nei pressi di Londra.
Perché cos’altro è, Greenwich, se non la sede di un osservatorio scientifico?
D’altronde, il sistema cronologico ruotante attorno al sobborgo londinese risale proprio all’epoca di massima espansione dell’impero britannico ed è, a tutti gli effetti, un prodotto, un residuo (una superstizione?) di tale epoca che in seguito non è stato più possibile eliminare.
Greenwich come meridiano 0 venne definitivamente accettato solo nel 1920, quando l’opposizione della Francia al nuovo sistema cronologico britannico venne a cessare. Un contenzioso, quello tra Parigi e Londra sul dominio del tempo, durato più di tre decenni, dal 1884, anno dell’istituzione dell’International Meridian Conference.
Già all’epoca, erano ben chiare le implicazioni coloniali di tale «rigorosa sistematizzazione del tempo e dello spazio». Le due contendenti avevano entrambe vaste colonie sparse in buona parte del mondo e tutto l’interesse a centralizzare sulle loro capitali il sistema cronologico planetario.
Allo scoccare del 1920, Il meridiano 0 di Greenwich avrebbe dominato tutti i planisferi del mondo, sancendo il dominio britannico sullo spazio-tempo terrestre. La chiamarono “L’ora definitiva”. Greenwich si poneva al centro di tutte le longitudini, quale funesto cratere da cui sarebbe scaturito ogni smarrimento quotidiano, l’ora prima di un tempo esclusivamente mercantile, e in quanto tale del tutto sconsacrato.[1]
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A un primo sguardo, il planisfero suddiviso in fusi orari sembra essere una proiezione perfettamente lecita e funzionale alle necessità cronologiche dell’uomo: la terra ruota attorno a sé stessa e attorno e al sole e ogni 15° di longitudine di rotazione equivale a un’ora passata sui quadranti di un orologio.
Con una tale scansione cronologica viene però a perdersi del tutto ogni convergenza delle fasce longitudinali sui due poli nord e sud; e viene anche a mancare una qualsiasi presenza di punti “extratemporali” sulla rappresentazione del globo terrestre.
In effetti, se si considerano le rappresentazioni sferiche della terra, ci si accorgerà subito che, man mano che ci si avvicina ai due poli, il tempo si fa “sempre meno” misurabile, perché si fa gradualmente più esigua la porzione di territorio sottoponibile a un qualsiasi sistema cronologico.
Solo sulla base della proiezione cilindrica di Mercatore è stato possibile dare l’illusione che le fasce orarie siano omogeneamente distribuite sull’intero globo.
In tal senso, l’impressione è che la cartografia moderna, fin dal suo primo sviluppo, non abbia tollerato l’idea stessa di extra-temporalità connessa ai poli e che, di conseguenza, abbia inteso neutralizzare la loro presenza. Essa è arrivata a tanto non già negando la sfericità della terra, bensì diffondendo nell’uso pratico e quotidiano quella percezione cilindrica e plani-sferica della terra che si è poi imposta nell’immaginario collettivo come una rappresentazione tutto sommato affidabile e, in ogni caso, utile.
E così, mentre nel Medioevo la presenza di un qualche polo era data scontata in qualsiasi rappresentazione cartografica, la modernità è giunta a occultare alle masse popolari la questione delle polarità geografiche (e di quelle simboliche) sospese al di sopra del tempo.
In tal modo, ogni cosa è stata rinchiusa in un reticolo di latitudini e longitudini nel quale ogni millimetro quadro è divenuto passibile di misurazione e mercificazione. Ecco la reale natura del tempo ad usum navigantium, tempo nel quale tutto tende alla quantificazione, e nulla deve sfuggire alle unità di misura vigenti.
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Joseph Conrad, nome nativo Józef Teodor Konrad Korzeniowski, fu un romanziere unico nel suo genere. La sua prosa può risultare poco concisa, a tratti dispersiva. Comprendere Conrad richiede la determinazione e lo slancio necessari a superare pagine e pagine minutamente descrittive e ‒ qualcuno potrebbe anche dire ‒ non degne di nota.
Sulle pagine dello scrittore anglo-polacco agisce però una forza mutevole, non prevedibile, capace di trasportare la sostanza intima di fraseggi all’apparenza poco incisivi verso l’enunciazione folgorante di concetti cristallini e taglienti sul destino ultimo dell’uomo e della storia.
Aperto in tal modo, tramite improvvise epifanie, il portale delle consuete apparenze, nei romanzi di Conrad accade spesso di riconoscere in maniera immediata le fonti avvelenate che tormentano l’esistente, le dinamiche intime che avvelenano e pervertono l’animo umano.
In La linea d’ombra (1917), il personaggio principale rivolgendosi al lettore annuncia quanto segue: «La generazione che ha inventato il proverbio ‘il tempo è denaro’ ben comprenderà la mia spiegazione. La parola ‘ritardi’ nei più segreti recessi del mio cervello risuonò come una campana impazzita, assordante, mi sconvolse tutti i sensi, si rivestì di nero, prese un sapore amarissimo, un significato macabro»[2].
Che sarà mai un ritardo nella vita dell’abisso, nell’insieme dei cicli stagionali, mai esausti, che reggono gli oceani, le correnti telluriche e i moti dell’animo umano? Eppure, proprio la parola «ritardi» si tramuta in un pungolo costante, che può condurre dritti alla follia, agli sbavanti accessi di un reparto psichiatrico, per la generazione, per la “civiltà” che ha fissato il meccanismo del tempo, ancorandolo alle squamose brume della vecchia Londinium.
In Conrad, tale affilato assalto alla lucidità umana per mezzo della follia cronometrica è un assillo imperante, ineludibile.
L’impero marittimo britannico, la cosiddetta talassocrazia, ha imposto al mondo intero la concezione cronologica più totalitaria che sia mai stata pensata e dalla quale emanano detti aberranti come quello che terrifica l’anonimo protagonista della Linea d’ombra: «Time is money». Non più un tempo congiunto allo spazio che conduce a un mondo a venire di liberata felicità né un tempo che conduce fuori dal tempo; ma un tempo quale costante occasione di acquisire potere finanziario.
Un tempo ad usum navigantium et mercantium, dunque: l’unico accettabile all’interno del totalitario spazio britannico.
In tal senso va riletto l’asciutto e fulminante incipit di La linea d’ombra: «Solo i giovani hanno di questi momenti. Non i molto giovani. No. Propriamente parlando, i molto giovani non hanno momento alcuno»[3].
Conrad non è mai frivolo, anche quando lo sembra.
Crescere, adattarsi al mondo vuole dire lasciarsi corrompere dalla cognizione del tempo che in esso vige. Significa «avere dei momenti».
L’ebbrezza della prima gioventù sgorga infatti proprio dal trasporto di vivere un giorno senza fine, il più lungo giorno dell’uomo integrato alla totalità, immerso in luci dalle gradazioni sì mutevoli, ma pur sempre nella mistica estraneità a qualsiasi rigida cronologia. Dopo, la società, con i suoi pervasivi interessi e con le sue scriteriate convenzioni, provvede a estirpare da chiunque tale ebbra e acronica spensieratezza.
L’impero dei mari britannico ha definitivamente sottratto il mondo alla sua infanzia, imponendogli un tempo totalitario, scandito al millesimo; un tempo che taglia il mondo in spicchi, fasce parallele, con la stessa premeditata freddezza di un chirurgo, o di un metodico assassino.
Il Conrad della maturità ne era ben consapevole. Non a caso, circa un decennio dopo La linea d’ombra, dedicò un intero romanzo alla vicenda di un gruppo di anarchici e “diplomatici”, ossessionati dall’idea di far saltare per aria proprio l’Osservatorio reale di Greenwich.
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«I dotti hanno diviso la quarta parte abitata della terra in sette climi, ciascuno dei quali corre parallelo all’equatore, da occidente a oriente. Questi climi non sono linee vere ma immaginarie, fissate e inventate dall’astronomia»[4].
Se messe a confronto con il sistema cronologico e cartografico vigente, queste parole di Idrīsī suonano, allo stesso tempo, remote, “inammissibili” e rivelatorie.
Anche il dominio britannico sul mare del tempo è infatti interamente basato su linee non vere, non naturali, linee d’ombra credute reali e inamovibili, che hanno reso l’intero pianeta un congegno meccanico, un dispositivo succube di ogni millimetrica misurazione.
Un’operazione iniziata tra Sei e Settecento, i secoli dell’“orologiaio matto” (e inflessibile) John Harrison, il quale escogitò gli strumenti cronometrici necessari a stabilire le linee longitudinali, prima che l’ultimo rintocco del tempo antico echeggiasse sulle nebbie di Greenwich.
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Greenwich è il non-centro, una delle matrici della dissoluzione contemporanea, la motrice e il vorticoso meccanismo che ha irrimediabilmente cancellato ogni geografia sacra dalla faccia della terra.
Londra, la città dei ponti sinistri e spettrali, non è infatti che un esteso e freddo monumento al vuoto efferato che irradia dal meridiano 0. Centro che non raccoglie, che non chiama a sé, come i pellegrinaggi di tutti i tempi; ma che repelle, disperde e si pone all’origine della follia di ogni mente assediata dalle ansie di un tempo dato per irrimediabile e privo di qualsiasi redenzione.
L’agente segreto, l’opera di Conrad più epifanica in questo senso, trova nelle vicende dell’anarchico Verloc uno stratagemma piuttosto ironico per narrare un attacco terroristico proprio all’Osservatorio reale di Greenwich; un piano rispetto al quale il signor Vladimir, mandante dell’attentato, ha idee ben precise, adamantine.
Verloc non è un semplice anarchico, ma anche un infiltrato all’interno del gruppo anarco-insurrezionalista di Londra, per conto di una non meglio precisata «Ambasciata» dalla quale proprio il signor Vladimir muove le sue pedine. Quest’ultimo, nell’ordinare l’attentato a Greenwich, non esige però un “semplice” massacro, perché lui è «una persona civile», e «non [gli] passerebbe mai per la testa di organizzare un puro e semplice macello, anche qualora ne venissero i risultati migliori».
Vladimir dichiara a Verloc infatti: «Voi anarchici dovreste dichiarare che siete assolutamente decisi a far piazza pulita di tutto l’edificio sociale. Ma come cacciare un’idea così assurda nella testa delle classi medie, in modo che equivoci non possano più sorgere? Ecco il problema. La risposta è: dirigendo i colpi contro qualcosa che stia al di là dalle passioni comuni del genere umano. Naturalmente c’è l’arte. Una bomba alla National Gallery farebbe un certo scalpore. Ma non sarebbe una cosa abbastanza seria. L’arte non è mai stata un feticcio della classe media. Sarebbe come sfondare dal retro in una casa; mentre se si vuole che il proprietario balzi in piedi sgomento, bisogna almeno sfondarne il tetto. Qualcuno strillerebbe, certo, ma chi? Artisti, critici d’arte… gente che non conta nulla, cui nessuno dà retta. Ma c’è la cultura, la scienza. Qualsiasi imbecille con un po’ di quattrini ci crede. Non sa perché, ma è convinto della sua importanza. È il feticcio sacrosanto del giorno d’oggi. Tutti questi professori sono, gratta gratta, dei radicali. Fate, dunque, che si convincano del necessario tramonto del loro idolo per fare posto al futuro del Proletariato».
Quella del signor Vladimir è ovviamente tagliente ironia: del proletariato a lui non potrebbe importare di meno; né intende sciorinare una teoria credibile e ben composta, ma solo convincere Verloc ‒ un anarchico a suo modo autentico ‒ della necessità di organizzare un attentato con tutti gli accorgimenti del caso, anche ideologici. Il luogo da colpire dev’essere al di sopra delle parti; un luogo nel quale tutti vedano un cardine imprescindibile della nuova società.
A questo proposito il signor Vladimir è, come sempre, enigmatico e chiaro al tempo stesso: «Il delitto circola costantemente in mezzo a noi, è quasi un’istituzione. No, l’atto dimostrativo deve dirigersi contro la cultura, contro la scienza. Ma non ogni scienza si presta allo scopo. L’attentato deve avere tutta l’assurdità rivoltante di una gratuita bestemmia. Poiché il vostro mezzo di espressione sono le bombe, veramente espressiva sarebbe una bomba lanciata nella matematica pura. Ma questo è impossibile. Ho cercato d’istruirla, signor Verloc; le ho esposto l’alta filosofia del suo mestiere, le ho suggerito qualche argomento prezioso. Ma fin dall’inizio della discussione, ho anche cercato l’aspetto pratico della cosa. Che ne penserebbe di un colpetto all’astronomia?»
A queste parole, Verloc reagisce però con grande smarrimento. Conrad descrive minuziosamente il suo atteggiamento impacciato e impulsivo. Lo stesso Verloc sembra peraltro rappresentare una sorta di personificazione dello stile dello scrittore anglo-polacco: impacciato, generoso, tragicamente rivolto verso la propria consunzione.
Il signor Vladimir, trascurando a tratti il suo acume sovrumano, non manca però di venirgli incontro; dandogli più circostanziate spiegazioni: «Meglio di questo non si potrebbe desiderare. Un delitto simile riunirebbe il maggior rispetto possibile della vita umana e la manifestazione più allarmante di pazzia feroce. Sfidò l’abilità di qualunque giornalista a convincere il pubblico che un membro qualunque del proletariato abbia motivi di rancore personale verso l’astronomia. La fame ci starebbe come i cavoli a merenda. Né i vantaggi si esaurirebbero qui. Tutto il mondo civile ha sentito parlare di Greenwich. Perfino i lustrascarpe sotto la tettoia di Charing Cross ne sanno qualcosa. Mi spiego?»[5].
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La centralità di Greenwich presuppone la centralità della scienza; non “delle scienze” intese come insieme di discipline messe a confronto e valide ora per l’uno ora per l’altro ambito o campo di applicazione; bensì di “una sola” scienza: una scienza assoluta e totalitaria.
Nella sua allucinata lucidità, dice bene il signor Vladimir: «l’atto dimostrativo deve dirigersi contro la cultura, contro la scienza. Ma non ogni scienza si presta allo scopo». Infatti, l’istruttore di Verloc sa bene che sarebbe anche lecito ammettere una pluralità di scienze, un dibattito tendente al concordato tra intelletti superiori; ma una tale idea di scienza viene data come sconveniente e persino impossibile nella dinamica dell’Agente segreto di Conrad. Essa viene infatti avvertita come incompatibile con una società, come quella inglese d’inizio Novecento, che ha sacralizzato l’unica scienza, la scienza del Royal Observatory, fino a renderla «il feticcio della classe media», e non solo.
Le vicende di Verloc sono un campionario delle dinamiche che guidano una società ormai tenuta ostaggio dalla più rigida cronometria e dal più assoluto dei razionalismi; e, al contempo, delle dinamiche e delle strategie – non meno razionali – che possono gettare una tale società nello scompiglio e nel marasma. Perché una società schiava di un tempo misurato al millesimo è la più esposta agli effetti del terrore di massa.
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I fatti storici sono sempre molto persuasivi, quasi ipnotici, quando assumono le sembianze della vicenda ineluttabile, impossibile da scongiurare. La centralità di Greenwich è uno dei tanti fatti inesorabili che si sono susseguiti nel corso della storia. Il Reale Osservatorio di Greenwich, attivo dal 1675 per iniziativa di John Flamsteed, astronomo e acerrimo amico di Isaac Newton, era evidentemente destinato a divenire il perno longitudinale di ogni rappresentazione geografica e, soprattutto, cronologica.
Sollevare il manto del tempo ci si accorge però facilmente di come Greenwich non è che uno dei tanti e innumerevoli punti su cui si sarebbe potuto tracciare il meridiano 0.
Prima che il dominio sul tempo venisse instaurato dalle coste di gesso e arenaria d’Inghilterra, fu necessario imporre la nuova cronometria quale meccanismo irrevocabile e inarrestabile, capace di tenere sotto scacco l’intera genìa umana.[6]
Ecco la natura del tempo Greenwich: quella scaturita da un non-centro che in quanto tale non raccoglie né chiama a sé, come i pellegrinaggi di tutti i tempi; ma che all’opposto disperde, conduce alla follia, alla negazione di ogni possibile kairós, del momento e del segno “voluto dall’alto”.
Thomas Stearns Eliot, ostinato indagatore delle apparenze più insignificanti, scorse le incisioni profonde lasciate da tale movimento centripeto sul suolo profanato della sua Waste Land.
Il fiume trasuda
Olio e catrame
Le chiatte scivolano
Con la marea che si volge
Vele rosse
Ampie
Sottovento, ruotano su pesanti alberature.
Le chiatte sospingono
Tronchi che vanno alla deriva
Verso il tratto di fiume di Greenwich
Oltre l’Isola dei Cani.
Weialala leia
Wallala leialala[7]
Proprio così: «tronchi alla deriva, verso il tratto di fiume di Greenwich». Ogni pilastro, ogni architrave, ogni elevazione verso il tetto delle stelle, con le loro virtù perenni, crolla e viene spinto «alla deriva, verso il tratto di fiume di Greenwich».
La costruzione sottesa ai meridiani e agli intervalli che governano il moto delle lancette degli orologi è quanto l’antica Albione ha imposto al mondo intero. Da lì deriva il gelido dramma dell’epoca contemporanea. La motrice inarrestabile e allucinatoria che, come un meccanismo privato dell’ombra stessa della pietà, falcia e devasta qualsiasi slancio, qualsiasi reale aspirazione a liberare l’uomo dalla sua finitezza e dai suoi fiacchi tremori.
Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono
Da queste macerie di pietre? Figlio dell’uomo,
Tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto
Un cumulo d’immagini infrante, dove batte il sole,
E l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo,
L’arida pietra nessun suono d’acque.[8]
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Scrive Idrīsī nel Libro di Ruggero: «Siccome esse [le coste della Bretagna, NdA] sono bagnate da ponente dal Mare Tenebroso, vi arrivano costantemente brume, piogge e il cielo lì è costantemente coperto, in particolare sopra le località litoranee di tale mare. Le acque di questo sono profonde e di colore buio e le onde vi si innalzano in modo inquietante. La sua profondità è considerevole e l’oscurità vi regna continuamente. Lì esiste una certa quantità di isole disabitate. Pochi sono coloro che osano avventurarvisi; e coloro che lo fanno, per quanto dotati di conoscenze e dell’audacia necessaria, fanno brevi cabotaggi senza mai allontanarsi dalla terra; e ancora, il periodo favorevole per tali spedizioni si limita ai mesi di agosto e settembre. Coloro che vi navigano fanno perlopiù parte di un popolo noto come gli inglesi, o abitanti dell’Inghilterra, isola considerevole, che comprende molte città, campagne fertili e fiumi, e di cui tratteremo ancora in seguito con l’aiuto di Dio»[9].
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L’epoca che più di ogni altra si vanta di aver debellato ogni concezione arcaica e obsoleta è la stessa che ha fatto un uso costante, sempre più diffuso e intensivo, di una proiezione geografica priva di poli, ovvero della proiezione “meno sferica” che si possa immaginare.
Il planisfero di Mercatore, infatti, così adatto alle consultazioni rapide di ogni internauta, è lo stesso che ha fatto dimenticare alle menti moderne che, tra luoghi e poli, intercorre una precisa «habitudinem», la quale li rende più o meno abitabili, più o meno armoniosi[10].
Le sproporzioni della proiezione cilindrica di Mercatore hanno poi fornito anche una base perfetta al totalitario modello cronologico che l’impero britannico ha imposto sull’intero pianeta a partire dalla fondazione dell’osservatorio di Greenwich (foundation stone laid on 10th August 1675). E chi domina sullo spazio – sia anche con modelli poco affidabili – è destinato a dominare anche e necessariamente sulla misurazione del tempo.
Non si creda però che il consolidamento di tale strapotere cronologico e spaziale non abbia richiesto a suo tempo delle suggestioni, dei trasporti geografici legati alla presunta “polarità” di un’Inghilterra quale surrogato della Terrasanta:
And did the Countenance Divine,
Shine forth upon our clouded hills?
And was Jerusalem builded here,
Among these dark Satanic Mills?[11],
Così si legge infatti tra i versi di William Blake, dove troviamo l’ennesima Nuova Gerusalemme, ma stavolta circondata da «satanici mulini».
NOTE
[1] Cfr. R. Stevenson, Greenwich Meanings: Clocks and Things in Modernist and Postmodernist Fiction in «Philologia Hispalensis», 13, fasc. 2, 1999, pp. 205-218. Centrale nella riflessione di Stevenson è l’espressione «rigorous systematisation of space and time», utilizzata in relazione ai romanzi di Joseph Conrad. Conrad, come si vedrà più avanti, è stato uno dei più profondi e inquieti interpreti della rivoluzione cronologica ruotante su Greenwich.
[2] J. Conrad, La linea d’ombra, RL, Santarcangelo di Romagna (RN), 2009, pp. 48-49; originale: The Shadow-Line (1916).
[3] Ibidem, p. 3.
[4] M. Amari e G. Schiaparelli, L’Italia descritta nel ‘Libro del Re Ruggero’ compilato da Edrisi, in «Atti della Reale Accademia dei Lincei», serie II, vol. VIII, 1876-77, p. 10. Si confronti con la versione francese di Pierre Amédée Jaubert: «La partie habitable de la terre a été divisée par les savants en sept climats, dont chacun s’étend de ouest en est, parallèllement à l’équinoxe et suit de lignes qui ne sont pas naturelles, mais délimitées et établies grâce aux connaissances des astronomes», in Idrīsī, La première géographie de l’Occident, cit., Prologue, pp. 63-64 e in Géographie de Édrisi, Tomo I, cit., Prolégomènes, p. 3.
[5] Tutti i dialoghi citati da L’agente segreto di Conrad sono tratti dall’edizione BUR, Milano, 1994, traduzione di B. Maffi, pp. 41-43 (originale: The Secret Agent, 1907).
[6] La riflessione di Conrad sul sistema cronologico di Greenwich è uno dei temi centrali di Greenwich Meanings, saggio breve di Randall Stevenson. Stevenson ha sottolineato come l’immaginario di molta narrativa di Otto e Novecento sia stata fortemente influenzata dalla nuova concezione temporale basata sul Meridiano 0, infatti «narrative temporality is one of the main channels through which history shapes literary imagination and form» (ibidem, p. 216).
[7] T. S. Eliot, La terra desolata, Il sermone di fuoco, traduzione R. Sanesi da Eliot, Poesie, RCS Libri, Milano 2004, p. 129.
[8] Ibidem, La sepoltura dei morti, p. 109.
[9] Idrīsī, La première géographie de l’Occident, cit., VI, 2, pp. 420-421.
[10] Cfr. Dante Alighieri, De Vulgari Eloquentia, I, VI, 3.
[11] W. Blake, Jerusalem (1804), vv. 5-8: «E il Divino Volto/ Risplendette sulle nostre colline nebbiose?/ E fu costruita qui Gerusalemme/Tra questi oscuri mulini satanici?».
Greenwich è uno dei saggi contenuti in Geografia medievale e smarrimento contemporaneo.
L’opera integrale è gratuitamente disponibile al seguente link:
https://www.academia.edu/126814164/Geografia_medievale_e_smarrimento_contemporaneo
oppure
https://ignotascintilla.wordpress.com/2025/01/05/geografia-medievale-e-smarrimento-contemporaneo/
