Il disprezzo per l’immaginario medievale relativo alla geografia e all’ordine universale può raggiungere livelli veramente paradossali.
In merito ai secoli medievali, lo storico della geografia John Noble Wilford non si è fatto scrupolo di parlare di «ristrettezza di vedute»[i]; e per uno scrittore di fama che lo scrive, chissà quanti sono coloro che concordano e approvano. Costoro non comprendono che la cartografia medievale, rea di contenere isole di San Brandano e Paradisi terrestri cinti di fuoco, non si rivolgeva alle facoltà mentali comunemente note né a modalità di pensiero vincolate alle umane deduzioni.
Non ha dunque molto senso evocare «Paradiso, mostri, ignoranza, ristrettezza di vedute» ed è inutile compiangere l’Occidente medievale «scivolato nel pantano di una stagnazione intellettuale che sarebbe durata per mille anni»[ii]. Pur con i suoi limiti e le sue particolarità, la cartografia medievale non può essere infatti intesa con i soli occhi corporei, ma richiede un intuito propriamente spirituale, uno sguardo che sappia andare oltre il tangibile.
Ciò è tanto vero che, nelle sue Etymologiae, Isidoro di Siviglia scrive: «l’ingresso del Paradiso [terrestre] è sbarrato tanto alla carne come allo spirito di trasgressione»[iii].
Nel suo Mapmakers, summa della storia della cartografia, Noble Wilford concede poi ben poco spazio a Idrīsī. Questi viene infatti menzionato una sola volta e in relazione a una delle carte a lui attribuite. Si tratta di un planisfero rotondo nel quale la terra viene rappresentata con il nord in basso e il sud in alto.
“Quali bizzarrie”, avrà pensato Noble Wilford, “possono emergere dalle brume e dai fuochi fatui del pantano medievale!”.
Eppure, tale “terra alla rovescia” era proiezione cartografica delle più consuete per la geografia islamica; non molto dissimile, in questo, dalla stessa geografia che sta alla base della Commedia dantesca, dove, dall’emisfero delle terre emerse si sale verso l’emisfero delle acque oceaniche, quindi verso la remota isola edenica[iv].
Verrebbe mai accettata, oggi, la proiezione di un mondo nel quale Europa e Nord America vengono raffigurate sotto l’Oriente, l’Africa e l’America Latina? Si potrebbe mai proibire a Greenwich di tagliare in due l’intero globo, di essere l’ago che bilancia tutte le longitudini?
Si pensi per un attimo all’impatto sulla psicologia collettiva che la raffigurazione del mondo vigente ha avuto per secoli. La colonizzazione eurocentrica tecnicamente inscritta nelle carte geografiche poste pressoché ovunque, dalle polverose aule scolastiche ai congegni di navigazione più sofisticati.
Ovviamente, ognuno è libero di trascurare le varie cognizioni medievali, sospettarvi e vedervi nient’altro che concezioni leggendarie definitivamente superate: il residuato di una cultura estinta. E infatti molti, come Noble Wilford, sono giunti a bistrattare e schernire tali idee. Rimane però il fatto che i significati legati al Paradiso terrestre, luogo ancestrale al di sopra del tempo e dello spazio, sono stati rimossi da ogni orizzonte non perché irrilevanti, ma perché la scienza moderna ha consapevolmente inteso prima bandirle, e infine relegarle sotto l’onnicomprensiva voce di “superstizione”.
Al contempo, bisognerebbe chiedersi come sia stato possibile che le «menti anguste» di cui parla Noble Wilford abbiano potuto concepire, a partire dalla vetta dell’Eden, un intelletto divino e illimitato; che poeti come Dante Alighieri, sprofondati fino al collo nel pantano medievale, abbiano saputo comporre poemi aperti a ogni sfera dell’essere: dalle più basse regioni della disperazione alle sfere celesti abitate da angeli e santi.
Basterebbero queste semplici domande per rendersi conto di quanto faziosa, bizzarra e infondata sia stata l’inversione e la falsificazione culturale operata da coloro che, nell’universo rappresentativo e simbolico medievale, non hanno saputo vedere altro che «un pantano di stagnazione intellettuale».
“Tanta orgogliosa sicumera”, si potrà pensare, “deve dipendere dall’assunto che la moderna cartografia, a differenza di quella medievale, si presenta sempre come veritiera e priva di fuorvianti convenzioni”.
Ma sarà ciò effettivamente vero?
La tanto diffusa proiezione cartografica di Gerardo Mercatore non sembra infatti immune a varie e arbitrarie convenzioni prospettiche.
Rispetto all’epoca dei Mercatori, nel Medioevo era ben più diffuso il “vizio” di distinguere tra le varie sfere dell’essere e di giudicare ogni cosa in relazione all’ambito di cui si voleva trattare. Nonostante ciò, la geografia medievale fu comunque un luogo eletto per l’interpolazione di elementi legati alla simbologia trascendente e, in alcuni casi, a conoscenze propriamente misteriche.
Dante non potrebbe essere più chiaro rispetto alla distinzione tra conoscenze fisiche e conoscenze metafisiche.
Nel suo unico scritto di carattere geografico, la Quaestio de Aqua et Terra, egli s’impegna a «non eccedere l’ambito della natura fisica», dal momento che tutto ciò che riguarda l’ambito prettamente geografico «si aggira» esclusivamente «tra enti mobili, cioè tra l’acqua e la terra, che sono corpi fisici»[v].
Sta al lettore giudicare se un tale modo di procedere sia o meno sintomo di una qualche «stagnazione intellettuale».
Altro “vizio” tipico della scienza medievale è quello di considerare sì ogni cosa in relazione all’ambito di cui s’intende trattare; ma, al contempo, di non sancire a tutti i costi l’esistenza di compartimenti stagni tra i vari saperi e i livelli gerarchici a loro connaturati; perché gli intellettuali dell’Età Media, e Dante è certamente tra loro, aspiravano sempre a ricondurre tutto all’unità.
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La Quaestio de aqua et terra è un trattatello teso a dimostrare che le acque oceaniche non possono essere «eccentriche», ovvero che non possono avere un centro diverso da quello attorno a cui si dispone anche la terra ferma. Ma, come detto, le premesse e le conclusioni dell’opera sono destinate a veicolare una conoscenza valida per un campo di indagine ben preciso: quello geografico e, secondo i parametri dell’epoca, scientifico.
La regola aurea della scienza medievale è la complementarità.
Si può decidere di parlare di qualcosa nello specifico, ma tutto è comunque destinato a concorre a un’armonia superiore: tutto deve necessariamente risolversi in un ordine universale che può essere più o meno chiaro e rivelato all’essere umano, ma che nondimeno c’è e – come di un superstrato implicito in ogni cosa – va sempre tenuto in conto.
Nella Quaestio, troviamo prova inequivocabile di un tale modo di procedere.
Nello scrivere di «quod non est extra materiam materialem», Dante intende infatti sottolineare proprio la duplice validità delle sue conclusioni: da un lato, una validità riferita alle circostanze geografiche, fisiche; ma, da un’altra prospettiva, al lettore viene affidato il compito di ricollegare quanto detto sulla geografia terrestre al piano universale e analogico; piano, quest’ultimo, che nella Quaestio è però destinato a rimanere implicito.
Secondo Dante, l’apparente gibbosità che il profilo del mare presenta al largo non può essere considerata prova del fatto che la terra sia policentrica, ovvero che il globo terrestre abbia più di un asse quindi più di un nucleo. Negare l’unicità del nucleo terrestre significherebbe, infatti, privare l’intero pianeta di un asse e di un suo preciso equilibrio legato ai poli.
Ciò va inteso anche in relazione al fatto che le polarità, per Dante, sono piuttosto mutevoli e sempre adattabili all’argomento in discussione. Un aspetto raramente puntualizzato nei vari commenti alla Divina Commedia riguarda infatti le due distinte polarità, quella rappresentata dall’asse Gerusalemme-Purgatorio, da una parte, e quella legata ai due poli, artico e antartico, dall’altra.
Negli ultimi versi dell’Inferno, Virgilio dice a Dante:
«E se’ or sotto l’emisperio giunto,
ch’è contrapposto a quel che la gran secchia
soverchia, e sotto ‘l cui colmo consunto
fu l’uom che nacque e visse senza pecca».[vi]
Per «colmo consunto» bisogna qui intendere, se non solo il calvario, sicuramente il territorio della Palestina, regione nella quale nacque e visse Gesù, che verrebbe così a costituire il punto più elevato dell’emisfero boreale.
Allo stesso tempo, pochi versi dopo, ovvero nel primo canto del Purgatorio si legge:
«I’ mi volsi a man destra, e puosi mente
a l’altro polo, e vidi quattro stelle
non viste mai fuor ch’a la prima gente.
Goder pareva ‘l ciel di lor fiammelle:
oh settentrional vedovo sito,
poi che privato se’ di mirar quelle!
Com’io da loro sguardo fui partito,
un poco me volgendo a l’altro polo,
là onde il Carro era già sparito».[vii]
In questo passo, Dante dice chiaramente che, dalle spiagge dell’isola Purgatorio, deve volgersi alla sua destra per vedere, in lontananza, l’altro polo; il termine altro va qui riferito, come fanno pressoché tutti i commentatori, al polo antartico, opposto a quello dell’emisfero boreale. Ma bisogna anche rilevare un aspetto centrale di questo passo, spesso rimasto tra le righe. Non va dimenticato infatti che la Commedia è il poema da leggere «sotto ‘l velame de li versi strani»; e in questo caso essa sembra offrire proprio uno dei numerosi enigmi attorno a cui ruotano i suoi misteriosi versi.
Dicendo «mi volsi a man destra, e puosi mente a l’altro polo», Dante sembra enfatizzare non solo l’opposizione tra polo nord e polo sud, ma anche il fatto che il polo spirituale, ovvero il Purgatorio sul quale è appena approdato, non coincide con il polo geografico o magnetico dell’emisfero meridionale. In tal senso, l’altro polo a cui egli fa riferimento potrebbe essere proprio il polo sud, polo geografico e magnetico, che viene detto «altro» per marcare la differenza con il polo spirituale sul quale dante è venuto a trovarsi dopo aver completato la risalita attraverso gli inferi.[viii]
Ciò è ancora più vero se si pensa che, nel Medioevo, il termine “polo” non indicava, come accade oggi, solo un punto geografico; ma anche la proiezione assiale che, in verticale, si eleva dalla terra verso il cielo.
Tali distinzioni richiamano all’attenzione un aspetto fondamentale per comprendere non solo la Divina Commedia, ma anche la stessa mentalità medievale, nella cui prospettiva, poli geografico-astronomici e poli spirituali non potevano coincidere. Infatti, mentre i primi si poneva al centro delle rivoluzioni planetarie e dei cieli siderali, i secondi fornivano una base per ogni sviluppo propriamente interiore e, appunto, spirituale.
La netta distinzione tra cieli cosmici e cieli spirituali è d’altronde chiaramente definita in uno dei canti iniziali del Paradiso, lì dove, in relazione ai beati del cielo della luna, si dice:
Qui si mostraro, non perché sortita
sia questa spera lor, ma per far segno
del la celestïal c’ha men salita.
Così parlar conviensi al vostro ingegno,
però che solo da sensato apprende
ciò che poscia fa d’intelletto degno.[ix]
Le due terzine non potrebbero essere più chiare rispetto a quanto si diceva poc’anzi sulla distinzione tra i cieli della cosmologia e quelli degli intelletti celesti. I beati del cielo della luna non si manifestano infatti lì perché abbiano dimora nella sfera lunare, ma solo per «far segno» del grado di perfezione spirituale che hanno raggiunto. E Dante non intende lasciare equivoci su questo aspetto; ovvero sul fatto che l’intelletto umano («vostro ingegno») ha bisogno di immagini sensibili («sensato») per comprendere ogni concetto astratto e intellettuale (tutto ciò che si fa «d’intelletto degno»).
In questo senso, l’ascensione spirituale viene significata tramite l’immagine delle sfere planetaria per un processo poetico per così dire ermetico, ma essa non si riduce affatto a una risalita attraverso le sfere cosmico-planetarie.
A ogni modo, queste brevi note confermano quanto si diceva in precedenza e cioè che una è la polarità nord-sud, altra è la polarità Gerusalemme-Eden.
Si tratta di una precisazione che purtroppo non sempre trova lo spazio dovuto nei commenti alla Commedia.[x]
In tale prospettiva, va poi precisato che non sembra esservi in Dante un’opposizione, un reale antagonismo tra i poli terrestri e quelli spirituali. Nel senso che tutto ciò che riguarda la geografia, prima, e la cosmologia, dopo, si limita semplicemente a fornire delle immagini al codice poetico della Commedia, la quale ne ha bisogno per far segno dei suoi contenuti propriamente filosofici e biblici.
Non avrebbero altrimenti senso passi come l’omaggio alla bellezza e alla virtù delle «quattro fiammelle», tradizionalmente identificate con la croce del sud, ma anche riferite alla cosiddetta «virtù delle stelle»; un aspetto, anche questo, che si presta tanto a una lettura etica e interiore, quanto a un’interpretazione legata alla scienza medievale.[xi]
Dante, infatti, delle stesse virtù siderali da un punto di vista scientifico, tratta nella parte finale della Quaestio de aqua et terra: si tratta della stessa virtù delle stelle che grande importanza rivestirà anche per i filosofi medievali dediti all’alchimia.
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L’impianto geografico della Divina Commedia, che è tutt’uno con la sua simbologia spaziale, si regge, da un lato, sulla centralità di Gerusalemme che occupa una posizione eminente («colmo consunto») sull’emisfero delle terre emerse e, dall’altro, sull’isola-monte Purgatorio che svetta invece come un faro solitario al largo del tenebroso emisfero delle acque.
Tali poli non possono però ricevere attenzione alcuna nella Quaestio de aqua et terra, poiché questa si concentra esclusivamente su questioni geografiche e in parte cosmologiche.
In questo senso, la Quaestio pone al centro della propria rappresentazione «il polo del mondo» ovvero il polo che si può, almeno per approssimazione, fare corrispondere con l’artico: punto attorno al quale, secondo le cognizioni medievali, si raccoglievano tutti i continenti e veniva per via assiale proiettato il moto rotazionale dei pianeti nonché la disposizione degli astri dell’emisfero settentrionale.[xii]
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Nelle mappe medievali, l’Eden veniva spesso raffigurato all’estremità del mondo orientale; proprio lì si trova, ad esempio, nella celebre mappa di Hereford[xiii].
Da un punto di vista prettamente simbolico, si potrebbe dire che l’Eden non si trova né a est né a ovest. L’apparente collocazione estremo orientale, comunque sommitale rispetto a tutte le terre emerse, sembra infatti alludere a un punto, più simbolico che fisico, sul quale l’opposizione Occidente-Oriente viene a esaurirsi, per risolversi nell’assoluta centralità del Paradiso terrestre quale luogo primordiale quindi all’origine di qualsiasi sviluppo autenticamente spirituale.
Così non fosse, non lo si potrebbe più considerare il centro.
D’altronde è questa la ragione per cui Dante colloca il Purgatorio – ovvero l’isola del Paradiso terrestre – al centro dell’emisfero delle acque, il quale secondo la spiegazione del Virgilio dantesco era un tempo ricoperto da terre emerse, ma si inondò di acque oceaniche per schermirsi dalla caduta di Lucifero:
Da questa parte cadde giù dal cielo;
e la terra, che pria di qua si sporse,
per paura di lui fé del mar velo[xiv].
Allo stesso tempo, bisogna anche mettere in discussione la perfetta coincidenza tra emisfero delle acque dantesco e l’emisfero australe delle odierne cognizioni geografiche. Visto che l’isola del Purgatorio viene posta agli antipodi rispetto alla Gerusalemme terrestre. Sappiamo infatti che, per Dante, l’intera massa continentale si estendeva dal fiume Gange alle colonne d’Ercole e che essa aveva forma di «mezzaluna»[xv]; di contro, l’emisfero oceanico dantesco occupa sì l’emisfero australe, ma, anche una parte di pianeta oggi annessa all’attuale emisfero boreale.
I medievali non potevano certo concepire un oceano esclusivamente meridionale, dal momento che gli bastava lanciare uno sguardo verso nord o verso occidente per vedere la massa oceanica, tanto dalle coste atlantiche europee quanto da quelle africane.
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Per l’uomo medievale, disseminare le mappe di simboli e di segni, anche enigmatici o mitologici, era un modo per ricordare all’osservatore che, accanto agli elementi naturali, permane la possibilità di accedere a una realtà ulteriore.
Tra le onde del mare, si celavano pertanto «Terrae repromissionis sanctorum» che si promettevano raggiungibili a chi sapesse scorgerle oltre gli elementi visibili; un’indole dedita allo studio e all’approfondimento poteva rendere tali Terrae con immagini più raffinate e sublimi; mentre le anime votate alla contemplazione potevano farsene un’immagine più semplice, legata ai cicli leggendari che di secolo in secolo si andavano arricchendo.
È certamente quest’ultimo il caso di San Brandano e della sua Navigatio, nella quale comunque, al pari del Purgatorio dantesco, non manca una potente simbologia numerica legata al numero sette[xvi].
La cartografia moderna ha invece inteso eliminare ogni traccia di sacro e di simbologico dalle proprie mappe. Questo è stato in realtà uno dei suoi compiti principali. Essa ha decretato il passaggio ‒ passaggio drastico, prodottosi nell’arco di pochi secoli ‒ da una proiezione sapienziale, a una proiezione delle terre emerse basata solo ed esclusivamente sulla schematizzazione degli spazi rappresentati. Un reticolo uniforme, un campo neutro teso a neutralizzare ogni possibile rimando leggendario o biblico che potesse scaturire dall’immaginario legato ai luoghi rappresentati.
Ma tale modalità rappresentativa ha effettivamente offerto una versione più attendibile della sfera planetaria?
La risposta può essere tanto sì quanto no, perché mai come in questo caso, il punto di vista è fondamentale.
Va infatti ricordato che raramente, oggi, vengono consultate mappe sferiche. Questo sorprenderà chiunque sia abituato a concepire il mappamondo imposto dalla proiezione di Mercatore come perfettamente affidabile; ma, di fatto, la riduzione dell’intera faccia della terra a un piano di meridiani paralleli ha concorso – più di qualsiasi altra leggenda medievale – a imprimere a livello collettivo l’immaginario di una terra nella quale i rapporti tra le distanze sono concepiti come rapporti tra punti privi di una tensione verso specifiche polarità.
Le carte isogoniche mancano infatti di quel prezioso promemoria che sono i poli. Perché proprio la tensione delle linee di riferimento verso i poli ci ricorda che né lo spazio né tantomeno il tempo sono lineari, ma che a tutto si connette una ciclicità.
“Che differenza fa?”, si potrà chiedere qualcuno.
La proiezione di Mercatore ha imposto una concezione del mondo non solo antisferica, ma come non mai neutra, utilitaristica, «ad usum navigantium et mercantium»; e ciò perché, volente o nolente, si è prestata a fornire una base alla concezione lineare dell’evoluzione illimitata che tanto è piaciuta alla modernità, ma che, purtroppo, rappresenta l’esatto opposto di un qualsiasi approccio sapienziale.
La conseguenza inevitabile di tutto ciò è la mercificazione del tempo.
D’altronde, «il tempo è denaro» è uno dei pochi adagi veramente rappresentativi dell’evo moderno, l’era che si crede libera da ogni “angustia intellettuale” è che, curiosamente, è giunta ad affidare la misurazione del suo tempo a un sistema di parallele. Aver imposto un fuso orario a ogni singola fascia longitudinale presuppone infatti, necessariamente, che ogni singola fascia oraria non converga più verso alcun polo.
Il modello vigente fa infatti quanto è in suo potere per celare una verità tanto innegabile, quanto difficile da integrare per il modello stesso; e cioè che, ai poli, il tempo non può esistere.
Inoltre, lo stesso modello vigente, con il suo reticolo di coordinate isogoniche, va nella direzione esattamente opposta a quella indicata da Dante.
Nella Quaestio de Acqua et terra non esiste infatti alcun punto del globo che possa dirsi eccentrico («ecentricus»), ovvero convergente su un centro a sé stante; ma ogni punto, sia esso sulla superficie della terra o dell’acqua, deve necessariamente essere concentrico («concentricus»), e quindi in rapporto radiale con il medesimo nucleo centrale[xvii].
Ma nel momento in cui longitudini e latitudini non convergono più su nessun polo, come accade sul planisfero di Mercatore e nel sistema di fusi orari di Greenwich che ne è figlio, accade che a ogni fascia longitudinale venga assegnato un numero primo (le ore), e di conseguenza che ogni fascia oraria faccia riferimento, almeno concettualmente, a una sua specifica polarità.
Ciò significa che, nel sistema plani-sferico dei fusi orari, ogni fascia di terra e di oceano diviene «eccentrica». Se si applica lo stesso discorso della Quaestio dantesca, ci si accorge infatti che lì dove manca un nucleo unico e, di conseguenza, un unico asse attorno al quale è sfericamente distribuita la superficie terrestre, accade che ogni fascia oraria “si arroga” il possesso di un suo centro specifico, di una sua specifica polarità.
In tal senso, nel sistema delle fasce orarie convergente sul meridiano di Greenwich (ora zero), vi sono – almeno concettualmente – tanti poli quante ore.
Se tale proiezione è funzionale all’«usum navigantium et mercantium», allo stesso tempo, essa viene però a sancire la disintegrazione dei poli i quali, proprio come due atomi, si disperdono nella conflagrazione delle mappe isogoniche.
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Aspetto piuttosto bizzarro della vicenda geografica degli ultimi cinque secoli: per quanto pensata per la comodità dei naviganti, la rivoluzionaria proiezione di Mercatore, inizialmente, non fu affatto ben accolta dai navigatori stessi. I capitani e i timonieri che si ritrovarono tra le mani le prime carte tracciate secondo il modello plani-sferico non le trovarono affatto di semplice lettura. Ciò viene ammesso persino dagli araldi della rivoluzione di Mercatore, i quali sono costretti a ricordare che passò un secolo abbondante prima che i marinai «capissero il significato» della proiezione cilindrica.[xviii]
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Quanto all’Isola di San Brandano, nota anche come Isola Fortunata, le leggende medievali non sono affatto interessate a darne minuziose descrizioni geografiche.
La Navigatio Sancti Brandani è un testo estremamente misterioso.
Esso sembra avere lo scopo di trasmettere verità bibliche e spirituali, sì, ma con un linguaggio adatto alla cultura e all’immaginario di una civiltà che, dalla mitologia celtico-druidica, si apprestava a passare alla rivelazione biblico-evangelica.
Vi sono inoltre diverse interessanti assonanze tra la geografia medievale islamica e i cicli leggendari irlandesi. Anche San Brandano e i suoi frati approdano, infatti, sulla stessa isola delle pecore visitata dai Mughrarin di Idrīsī[xix]; ma a differenza degli avventurieri del Libro di Ruggero, i frati irlandesi non trovano la carne delle greggi amara e immangiabile. Anzi, su ordine dello stesso abate Brandano «prendono dalle greggi le vittime necessarie a celebrare la festività».
A questo proposito c’è un particolare assolutamente degno di nota: perché la festività in questione è «il Sabato di Pasqua».
Il cristianesimo celtico delle origini, e con esso la compagnia di San Brandano, seguì infatti per diversi secoli la tradizione ebraica per determinare la data della Pasqua, facendola coincidere almeno per approssimazione con l’equinozio di primavera.
Il dissidio con il cattolicesimo romano su questo aspetto si protrasse fino all’epoca di San Colombano di Bobbio (VI-VII secolo) e oltre.[xx]
Ad ogni modo, alla fine dell’affannoso periplo, la compagnia di Brandano è destinata a raggiungere un’isola ben precisa, la quale gode di un particolare stato di benedizione: tale è la «Terra Repromissionis Sanctorum».
Questa terra, promessa e sperduta tra le vaste distese oceaniche, riunisce aspetti legati a Genesi a immagini e simboli riletti secondo la sensibilità dell’epica irlandese ovvero di quei cicli noti come Immrama ed Echtrai i quali narravano, rispettivamente, o avventurosi viaggi in mare oppure epiche ricerche di una qualche terra promessa[xxi].
Il Basso Medioevo collocava convenzionalmente tale isola in coincidenza con le Insulae Fortunatae (attuali Canarie); così come accade nella Mappa Mundi di Hereford. Eppure, studiosi accorti rammentano che, fino alle soglie tra antichità e Medioevo, i commentatori localizzavano le Insulae Fortunatae, tipo a cui l’isola di San Brandano appartiene, in Estremo Oriente.[xxii]
In ogni caso, nel testo della Navigatio, il mistero della «Terra Repromissionis Sanctorum» e della sua ubicazione è soprattutto legato al percorso provvidenziale che è necessario compiere per poterla raggiungere; infatti, essa è «la terra che hai a lungo cercato, ma che tuttavia non sei riuscito a trovare prima, perché Dio desiderava prima mostrarti molti suoi segreti nell’immenso oceano»[xxiii].
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Nella Quaestio de aqua et terra, Dante spiega la tendenza della terra a elevarsi in alture e monti con l’argomento dell’attrazione magnetica della «virtù delle stelle». «L’agente virtuale», scrive il filosofo fiorentino, «deve trovarsi in quella regione celeste che copre la terra emersa; e, siccome questa s’estende dalla linea equatoriale a quella che il polo dello zodiaco descrive intorno al polo del mondo, è chiaro che la virtù elevante si troverà in quelle stelle che sono nella regione celeste racchiuse da questi due circoli, sia che sollevino la terra per via d’attrazione a quella guisa che il magnete attiva il ferro, sia per via d’impulsione producendo vapori impellenti, come accade in certe particolari montuosità»[xxiv].
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Secondo un luogo comune vecchio ormai secoli, il Purgatorio sarebbe un’invenzione del Medioevo; in ogni caso, un retaggio della civiltà cattolica.
Tale convinzione si è andata consolidando via via che il cristianesimo si è scisso in diverse confessioni, perché convinzioni (e convenzioni) di questo tipo sono di solito legate agli interessi delle parti confessionali in disputa: sono ovvero argomenti di propaganda.
Il «Terzo luogo» di Lutero non fa eccezione in questo senso[xxv].
Il Purgatorio, quale dimensione extra-temporale a sé, è certamente un’invenzione arbitraria della sensibilità devozionale cattolica, perché luogo destinato a scongiurare l’idea di una dannazione immediata e senza appello. Il monte-isola descritto nella Divina Commedia è però, altrettanto certamente, immune dal tarlo dell’invenzione arbitraria, slegata dalle Scritture.[xxvi]
Tanto la geografia quanto la mappatura dell’aldilà, nel Basso Medioevo, avevano un loro preciso senso del rispetto nei confronti delle Scritture. Di fatto, lo stesso Purgatorio dantesco non è altro che il percorso di purificazione necessario per fare ritorno all’Eden. E il giardino dell’Eden, non è necessario insistere su questo punto, non solo è parte integrante delle Scritture, ma ne costituisce uno degli aspetti più gravidi di conseguenze dal punto di vista delle cognizioni geografiche medievali.
Inoltre, per comprendere la necessità della sopravvivenza dell’Eden lungo tutta la geografia medievale, è necessario comprendere la concezione dello spazio vigente nell’Età Media.
Come suggerito da Jérôme Bâschet, infatti,
«il Medioevo ignora la nozione di spazio nel significato da noi inteso ossia in quanto spazio infinito, assoluto, continuo e omogeneo. A essa, preferisce la nozione di luogo, definito come ‘contenitore delle cose di cui è luogo’. L’estensione non è dunque un dato primario, indipendente dagli oggetti in essa contenuti perché, anzi, il luogo non potrebbe esistere senza gli oggetti che esso circonda. Persino la parola spatium non designa altro che l’intervallo fra due oggetti. Locus est ubi sit, dice Isidoro di Siviglia: ‘il luogo è dove si è’, dove si trova l’oggetto di cui si parla. Questa formula che, nella sua concisione, è sufficiente a definire il pensiero medievale dell’estensione, ci ricorda lo scarto che è necessario operare in rapporto alla nostra stessa visione, sempre essenzialmente newtoniana. Di conseguenza, poiché il Medioevo non concepisce l’estensione in maniera neutra e omogenea, è senza dubbio preferibile ‒ per lo meno quando si tratta di rappresentazioni ‒ limitarsi a parlare di luogo piuttosto che di spazio, e di localizzazione piuttosto che di spazializzazione»[xxvii].
La geografia medievale vede e comprende l’aldilà e si apre alla trascendenza non come un’impossibilità vagheggiata o come qualcosa di inconcepibile, ma come luogo eletto, nel quale le anime dimorano nell’alveo dell’intelligenza divina dalla quale sono scaturite.
Si tratta di un luogo che è anche “tempo”; un tempo che trova la propria realtà oltre il tempo ordinario.
Quello medievale, infatti, più che un aldilà è in realtà un “mondo a venire”; “mondo” che è difficile da vedere per chi, come noi, si trova ancora a fare esperienza della realtà esteriore e che «soverchia gli occhi de la mente umana», rimanendo celato fintantoché «l’anima è legata e incarcerata per gli organi del nostro corpo»[xxviii].
Con ciò non bisogna però credere che l’idea di un mondo ulteriore fosse sic et simpliciter immediatamente comprensibile a chiunque nello stesso Medioevo.
Non a caso, le leggende sui viaggi attraverso ‘il mondo di là’ vengono narrate nei termini di fatti straordinari, lunghe ed estenuanti peregrinazioni che solo alla fine accedono a una meta. Una meta che, molto spesso, ha proprio le sembianze dell’Eden ovvero quel giardino dell’intatta armonia, all’interno del quale l’uomo ritrova il suo stato originario e incorrotto nonché l’integrità necessaria a contemplare i cieli spirituali.
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Qui non si tratta di tentare “revisionismi”, di sognare o immaginare astruse restaurazioni di modelli geografici o cronologici appartenuti al passato; e neanche di farsi illusioni sul possibile ritorno di ideali collettivi che sembrano anzi destinati a essere interiorizzati da un numero sempre più esiguo di soggetti.
Non si tratta neanche di mettere in discussione la “funzionalità” del sistema di Greenwich per finalità prettamente pratiche. Esso è anzi fin troppo ben architettato, al punto da essere stato assolutizzato nell’arco di pochi decenni, che poi sono gli anni precedenti e successivi alla Prima guerra mondiale.
Ma proprio nell’assolutizzazione di tale sistema consiste la questione e il problema fondamentale. La diffusa convinzione che non esistano, o che non siano mai esistiti, modelli alternativi e meno schematici di misurare lo spazio e il tempo.
Quelli emergenti dai secoli medievali europei sono certamente modelli cronologici e spaziali più eclettici e sicuramente più ispirati di quello oggi vigente; ma etichettarli come “superati” e residui di bizzarre superstizioni non aiuta a comprenderli.
In questo senso, bisognerebbe una volta per tutte stabilire cosa sia effettivamente «una mente angusta». È «angusta» la mente che riesce a concepire delle possibilità ulteriori rispetto a quelle prettamente terrene oppure è quella che le esclude categoricamente?
Da questo punto di vista, è certamente un bene che il linguaggio geografico medievale sia stato completamente espulso dalle convenzioni cartografiche odierne. Solo in tal modo esso può infatti offrirsi, oggi, come una concreta possibilità di ricerca e approfondimento, e rivelare i propri significati essenziali.
NOTE
[i] J. N. Wilford, I signori delle mappe, La storia avventurose dell’invenzione della cartografia, traduzione di G. Lonza, Garzanti, Milano, 2018, p. 53 [Ed. or. The Mapmakers, 1981].
[ii] Ivi.
[iii] Il passo riguardo la cintura di fuoco che circonda il Paradiso terrestre. Il passo in latino completo dice: «Cuius loci post peccatum homninis aditus interclusus est; septus est enim undique romphea flammea, id est muro igneo accinctus, ita ut eius cum caelo pene iungat incendium. Cherubin quoque, id est angelorum praesidium, arcendis spiritubus malis super rompheae flagrantiam ordinatum est, ut homines flammae, angelos vero malos angeli submoveant, ne cui carni vel spiritui trangressionis aditus Paradisi pateat» (Dopo il peccato, all’essere umano fu proibito l’accesso a questo luogo: l’ingresso è, infatti, completamente chiuso da una spada ardente ossia è sbarrato da un muro di fuoco così alto che il suo incendio arriva quasi fino al cielo. Anche dei Cherubini, ossia delle sentinelle angeliche, sono posti al di sopra della spada incandescente: le fiamme allontanano gli esseri umani e gli angeli buoni allontanano gli angeli malvagi, perché l’ingresso del Paradiso sia sbarrato tanto alla carne quanto allo spirito di trasgressione); in Isidoro di Siviglia, Etimologie o Origini, XIV, III, 3-4, Vol. II, a cura di A. Valastro Canale, UTET, Torino, 2004, pp. 166-169.
[iv] Wilford, I signori delle mappe, cit., fig. 3.
[v] «Quod tractatus presens non est extra materiam materialem»; «quia inter ens mobile scilicet aquam et terram, que sunt corpora naturalia», D. Alighieri, Quaestio de Aqua et Terra, XX, 60 (TdA, basata sulla traduzione di G. Boffito). Come noto, la Quaestio è stata al centro di un’interminabile disputa circa l’attribuzione a Dante. Nel Commento alla Commedia (terza edizione) di Pietro Alighieri, figlio del poeta fiorentino, vi è però un chiaro riferimento alla Quaestio come opera dantesca. Ciò dovrebbe essere sufficiente a placare qualsiasi residua polemica; cfr. Pietro Alighieri, Commentarium 3, Inf. XXXIV, 97-128 e F. Mazzoni, La «Quaestio de aqua et terra», in «Studi danteschi», 34, 1957, pp. 163-204, poi in Id., Contributi di filologia dantesca, I, Sansoni, Firenze, 1966, pp. 36-79.
[vi] Inf. XXXIV, 112-115.
[vii] Purg. I, 22-30.
[viii] Nel Medioevo, le cognizioni sul magnetismo legato ai poli nord e sud erano molto più approfondite di quello che si suole pensare; lo prova la Epistola de Magnete (1269) di Pierre Pelerin de Maricourt noto anche come Petrus Peregrinus.
[ix] Par. IV, 40-42.
[x] Sull’apporto della visione tolemaica in Dante, in particolare rispetto alla precessione degli equinozi, cfr. il Commento di Ernesto Trucchi a Purg. I, 22-27. Sulle distanze in gradi, rispettivamente, da Gerusalemme a Polo Artico e da Purgatorio a Polo antartico cfr. il Commento di Natalino Sapegno a Purg. I, 23: «l’antartico, che dal Purgatorio si vede alto sull’orizzonte circa 30 gradi, tanto quanto da Gerusalemme quello artico».
[xi] Cfr. Purg. I, 25-27.
[xii] Ibidem, Cap. XIX, in particolare per i rapporti e le distanze tra «polo del mondo», «zenith del circolo equinoziale» e «zenith del circolo zodiacale».
[xiii] W. L. Bevan, H. W. Phillott, Mediæval Geography, Alpha Editions, 2019, p. 25: « In the Hereford map Paradise is represented as an island, a conspicuous position at the head of the map, or in other words, at the extreme easterly point of the habitable world […]. In the Hereford map, Paradise is represented as an island of circular form, surrounded by a strong and lofty world, from the top of which flames burst forth».
[xiv] Inf. XXXIV, 121-123.
[xv] Cfr. Alighieri, Quaestio de Aqua et Terra, XIX.
[xvi] Rilevante è la presenza delle Fortunatæ Insulæ nella Mappa mundi di Hereford, infatti «A zone of Islands fringes the continent of Africa from N. Atlas eastward. The first of these bears the inscription Fortunatæ Insulæ: sex sunt: insule Sancti Brandani. Under the title Fortunatæ Insulæ the ancient geographer included the Madeira and Canary groups, the delightful climate of which seemed the realization of the myth of Elysium the abode of the blessed. The same association of ideas led our cartographer to fix upon them as the scene of St. Brandan’s discovery, described in the old legend as the ‘fayrest countree eestwarde that ony man myght se, and was so cleere and bryght that it was an hevenly syght to beholde; and all the trees were charged with rype fruyte and herbes full of flowres: in whiche londe they walked XL dayes; but they could se none ende of that londe; and there was alwaye daye and never nyght; and the londe attemperate ne to hotte ne to colde’. St. Brandan is reputed to have flourished in the middle of the sixth century, the date of his burial in Clonfert Abbey placed at 576. The legend of his voyage first assumed a definite form towards the close of the 11th century, when the Latin prose narrative was probably composed», da Bevan e Phillott, Mediæval Geography, cit. pp. 106-107.
[xvii] Quaestio de Aqua et Terra, X-XII.
[xviii] Wilford, I signori delle mappe, op. cit., p. 99: «I naviganti, tuttavia, non capirono subito il significato della carta di Mercatore o, specificamente, della sua proiezione […] La maggioranza dei naviganti ignorò Mercatore per quasi un secolo. Poi capirono, e da allora si adeguarono».
[xix] Idrīsī, La première géographie de l’Occident, a cura di H. Bresc, A. Nef, traduzione di P. A. Jaubert, Flammarion, Parigi, 1999, IV,1, pp. 267-268: «Ils [Al-Mugharrirûn] atteignirent ainsi l’île des moutons, dans laquelle il y a tant de moutons qu’on ne peut les compter tous. Ils paissent sans berger et sans que personne ne les surveille. Ayant mis pied à terre dans cette île, ils y trouverènt une source d’eau courante et un figuier sauvage. Ils prirent et tuèrent quelques moutons, mais la chair en était tellement amére qu’il était impossible de s’en nourrir» (“Loro [i Mughrarin] Raggiunsero così l’isola delle pecore, nella quale ci sono così tante pecore che non si possono contare tutte. Esse pascolavano senza pastore e senza che qualcuno che le sorvegliasse. Dopo aver messo piede a terra su quest’isola, loro vi trovarono una sorgente d’acqua corrente e un fico selvaggio. Loro presero e uccisero alcune pecore, ma la loro carne era talmente amara che era impossibile nutrirsene”, TdA). Va inoltre segnalato come Idrīsī, la prima volta che menziona i Mughrarin, li indica come una loro fonte diretta sulle isole dell’Oceano atlantico, in particolare sulla misteriosa e letale «Isola dei due frati maghi», ibidem, p. 128 e Géographie d’Édrisi, Tomo I, cit., p. 200. Nella versione curata da Bresc e Nef, la parola Mughrarin è traslitterata con Mugharrirûn, mentre nella traduzione originale di Jaubert il termine appare invece come Maghrourin.
[xx] Anonimo del X secolo, Navigazione di San Brandano, a cura di E. Percivaldi, La navigazione di San Brandano, Il Cerchio, Rimini, 2009, p. 96: «Et ibi mansuerunt usque in sabbatum sanctum Paschae. Preambulantes autem illam insulam invenerunt diverses turmas ovium unius coloris id est albi ita ut non possent ultra videre terram prae multitudine ovium. Convocatisque fratribus suis Sanctus Brendanus dixit illis: ‘Accipite quae necessaria ad diem festum de grege’». È da notare come, per secoli, il computo della data della Pasqua fu terreno di scontro tra la chiesa irlandese e quella romana. Come ricorda la stessa Percivaldi, infatti: «Gli irlandesi calcolavano la data della Pasqua seguendo la tradizione ebraica, che la pone il giorno 14 del mese di Nisan, corrispondente a marzo-aprile, in pratica (…) la Pasqua celtica era celebrata il 25 marzo ossia all’equinozio di primavera. La Chiesa romana invece già nel primo concilio di Nicea (325) aveva stabilito la data della Pasqua, vietando espressamente la coincidenza con la Pasqua ebraica in opposizione al giudaismo» (ibidem, p. 195).
[xxi] Dall’Introduzione di Elena Percivaldi, ibidem, p. 42: «Oltre che con i Paradisi presenti nelle varie tradizioni, la Terra repromissionis Sanctorum della Navigatio presenta evidenti attinenze con l’aldilà celtico, in particolare con l’irlandese Tír na n-Oc, la Terra del giovane eterno, che corrisponde ai Campi Elisi classici e al Valhalla germanico»; cfr. A. Rees, B. Rees, L’eredità celtica, Mediterranee, Roma, pp. 261-271.
[xxii] Cfr. D. Balestracci, Terre ignote strana gente, Storie di viaggiatori medievali, Laterza, Roma- Bari, 2008, p. 314; che a sua volta cita come fonte l’Anonimo del IV secolo, Descrizione del mondo e delle sue genti, Salerno, Roma, 2005. Sull’identificazione delle Isole Fortunate con le Canarie, grande peso ha avuto Plinio il Vecchio, Naturalis Historia VI, 202-206.
[xxiii] «Ecce terra quam quesisti per multum tempus. Ideo statim non potuisti invenire quia Deus voluit tibi ostendere diversa sua secreta in oceano magno», in La Navigazione di San Brandano, cit., pp. 182-183. Il testo della Navigatio Sancti Brandani qui citato, tratto dall’edizione curata da Elena Percivaldi, è il Codex 14 f° 1r-IIv, conservato presso la Biblioteca Municipale di Alençon e proveniente dall’Abbazia di Saint Eurolt, Normandia.
[xxiv] Quaestio de Aqua et Terra, op. cit., XXI, 73: «Et cum ista terra detecta extendatur a linea equinoctiali usque ad lineam quam describit plus zodiaci circa polum mundi, ut superius dictum est, manifestum est quod virtus elevans est illis stellis que sunt in regione celi istis duobus circulis contenta, sive elevet per modum attractionis, ut magnus attrahit ferrum, sive per modum pulsionis, generando vapores pellentes, ut in particularibus montuositatibus».
[xxv] Cfr. Martin Lutero, Articoli di Smalcalda, II, 2.
[xxvi] Sarebbe anche interessante comprendere meglio se l’isola Purgatorio descritta nella Commedia, con la sua ubicazione di assoluta centralità nell’emisfero delle acque e i suoi sette cerchi concentrici, non possa trovare anche elementi di congiunzione con la simbologia legata alla mitologica isola di Atlantide.
[xxvii] J. Bâschet, I mondi del Medioevo, i luoghi dell’aldilà, in Arti e storia nel Medioevo, I, Einaudi, Torino, 2002, p. 324.
[xxviii] Convivio, II, IV, 17.
In copertina: D. Alighieri, Quaestio de Aqua et Terra, dall’Edizione Principe, 1508, fig. 2.
Geografia medievale e proiezione di Mercatore è uno dei saggi contenuti in Geografia medievale e smarrimento contemporaneo.
L’opera integrale è gratuitamente disponibile al seguente link:
https://www.academia.edu/126814164/Geografia_medievale_e_smarrimento_contemporaneo
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