5 Dicembre 2024
Linguistica

Forme dell’espressione – Marco Calzoli

La parola è costituita da una forma (suono, grafia) detta SIGNIFICANTE e da un contenuto (l’informazione veicolata) detta SIGNIFICATO.

Gli universali linguistici indicano proprietà o correlazioni di proprietà che si suppone contraddistinguano ogni lingua storico-naturale, del presente come del passato. Si distinguono in universali assoluti e in universali implicazionali.

Gli universali assoluti sanciscono la presenza (o l’assenza) di una particolare proprietà in ogni lingua storico-naturale, senza fare riferimento a nessun altro parametro, e senza stabilire correlazioni fra tratti differenti. Non lasciano spazio alla variabilità: consentono di identificare un unico tipo linguistico, cui afferiscono tutte le lingue del passato e del presente. Sono per esempio:

 

  • Tutte le lingue hanno le vocali orali
  • Tutte le lingue distinguono tra vocali e consonanti
  • Tutte le lingue hanno categorie pronominali implicanti almeno tre persone e due numeri.

Forniscono informazioni sulla natura profonda del linguaggio umano. Rimandano al condizionamento che la lingua subisce oggettivamente, cioè in rapporto alla conformazione fisica dell’apparato fonatorio e alle costrizioni neurologiche e psicologiche che intervengono nell’atto comunicativo.

Gli universali implicazionali pongono in relazione due o più proprietà, vincolando la presenza di una di esse alla presenza dell’altra. Affermano che un tratto linguistico può realizzarsi in una lingua solo se nella medesima lingua è attestato anche un altro tratto linguistico. Per esempio, si è osservato che nelle lingue con preposizioni, il genitivo di norma segue il nome reggente, mentre nelle lingue con posposizioni lo precede.

Gli universali indicano una serie di requisiti che ogni lingua deve soddisfare: con ciò paiono proiettare sulla concreta realtà linguistica proprietà essenziali del linguaggio (= facoltà mentale e cognitiva comune a tutti i membri della specie umana). Non si possono spiegare unitariamente tutti gli universali. Visto che la funzione primaria della lingua (=prodotto sociale di una specifica facoltà mentale, il linguaggio) è essenzialmente quella di associare una forma a dei contenuti per favorirne l’espressione e il fine ultimo di ogni lingua è la comunicazione, premessa indispensabile per ogni interazione tra le comunità umane: allora gli universali possono essere concepiti come strategie comunicative così efficaci da essere condivise da tutte le lingue (approccio funzionale).

I tre principi in grado di giustificare la presenza o l’assenza di particolari strutture linguistiche sono:

 

  • Economia: tendenza a snellire il più possibile l’apparato formale di un sistema linguistico, pur preservando intatte le sue potenzialità comunicative (ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo da parte del parlante)
  • Iconicità: tendenza a riprodurre, sul piano della struttura linguistica, le sequenze in base a cui viene organizzata, a livello mentale, le informazioni da trasmettere. Il discorso viene articolato in modo tale da riflettere fedelmente la concettualizzazione dell’esperienza che avviene nella mente del parlante.
  • Motivazione comunicativa: la lingua ha come traguardo essenziale la comunicazione quindi la struttura complessiva della lingua e i continui adattamenti che la contraddistinguono si pongono il fine ultimo di adeguare il sistema alle esigenze comunicative del parlante. È proprio questo fattore a spiegare l’universale secondo cui tutte le lingue hanno categorie pronominali implicanti almeno 3 persone e 2 numeri (è la dotazione minima per poter imbastire un sistema pronominale in grado di svolgere le funzioni cui è preposto).

 

Tutto questo è un discorso relativo alla struttura della lingua. In ogni lingua naturale vi sono universali. Skinner invece ha studiato il linguaggio dal punto di vista funzionale e lo ha inteso come un comportamento rivolto verso l’ambiente. Ogni comportamento può essere modificato attraverso degli stimoli adatti. Per esempio quando parliamo o scriviamo usiamo le parole per ottenere certi effetti nell’ambiente. Uno di essi è esprimere un bisogno o chiedere aiuto. È la prima funzione linguistica che il neonato apprende e, nel bambino con deficit della comunicazione, soprattutto quello autistico, c’è una grave compromissione di questa facoltà. Mediante rinforzi adeguati è possibile modellare in meglio la capacità del bambino autistico, che anziché esprimere i bisogni urla, piange, rompe oggetti: attraverso una adeguata terapia comportamentale egli imparerà a esprimere delle richieste anziché a urlare scompostamente.

Con l’espressione classi di parole si intende l’insieme delle parole di un lessico i cui membri condividono una o più caratteristiche dal punto di vista del comportamento morfologico o sintattico. Questa nozione è presente sotto molti nomi nella letteratura: classe o categoria lessicale, classe o categoria grammaticale e parte del discorso.

Per l’italiano distinguiamo classi variabili, soggette a delle modificazioni morfologiche (verbi, nomi, aggettivi, articoli, pronomi) e classi invariabili, non soggette a modificazioni morfologiche (avverbi, preposizioni, congiunzioni, interiezioni). Dal punto di vista lessicale abbiamo classi aperte che ammettono l’entrata e l’uscita dei membri della classe (verbi, nomi, aggettivi, avverbi) e classi chiuse, più costanti (articoli, pronomi, preposizioni, congiunzioni).

La parola in funzione della classe di appartenenza mostra al contempo caratteristiche specifiche su più piani della lingua. Ad esempio in italiano il nome è flesso per genere e numero, preceduto da articoli e modificato da aggettivi.

Nelle lingue del mondo la classe del nome e quella del verbo non cambiano mai.

Le parole possono appartenere a più classi. Nell’italiano questo fatto non è frequente poiché le parole appartenenti a classi diverse si distinguono generalmente dal punto di vista morfologico. Frequente invece nell’inglese, che ha una scarsa morfologia.

Nell’ambito di una singola classe è possibile individuare sottoclassi o sottoinsiemi.

Esiste una convergenza tra le categorie ontologiche (come le cose e i fatti del mondo) e le categorie linguistiche (i nomi e i verbi). Per rendere in modo semantico queste convergenze, Lyons ha elaborato una classificazione tripartita delle categorie ontologiche principali, in cui le categorie, chiamate entità, sono distinte in base al loro ordine:

 

  • Primo ordine: Persone, luoghi, cose
  • Secondo ordine: Azioni, eventi, processi, situazioni
  • Terzo ordine: Fatti possibili.

 

Le entità di primo ordine sono cose che esistono nel tempo, le entità di secondo ordine sono cose che accadono o hanno luogo nel tempo, le entità del terzo ordine sono cose fuori dal tempo e dallo spazio.

Le entità di primo ordine tendono a essere nomi, quelle di secondo ordine, invece, verbi, ma esistono nomi che si riferiscono a entità di secondo ordine.

Quando compiamo un atto di riferimento o designazione, identifichiamo o delimitiamo un certo particolare oggetto e lo introduciamo come un partecipante del discorso, quando compiamo un atto di predicazione, asseriamo il verificarsi di un evento in cui tale oggetto e coinvolto o, se gli oggetti sono più di uno, stabiliamo delle relazioni tra di essi.

Nel sottolineare la natura multifunzionale di tutti i testi in rapporto ai tipi testuali (nessun testo, infatti, ha solo un genere espressivo: per esempio un romanzo svolge anche una funzione comunicativa e non solo estetica), Hatim propone un’analisi basata su tipi testuali predominanti e sussidiari: “they constantly shift from one typological focus to another”. Queste considerazioni sulla natura ibrida dei testi e la loro polifunzionalità sono estendibili anche al testo tradotto in generale.

Possiamo considerare quindi la traduzione come un prodotto transculturale (se pensiamo anche alla mediazione linguistico-culturale e alla localizzazione). Il trasferimento di una forma e di contenuto implica un confronto che certamente produce un adattamento di alcuni elementi alla cultura d’arrivo; sempre più spesso però il prodotto finale è un testo che non è assimilabile alla cultura d’arrivo (targetculture bound) ma neppure ancorato alla cultura di partenza (source-culture bound); piuttosto si tratta di un ibrido che è un chiaro prodotto di una dimensione transculturale. Di conseguenza ciò che è importante è la scelta della strategia culturale da adottare. Alla capacità di raffronto differenziale tra strutture testuali, il traduttore deve quindi aggiungere una competenza testuale di tipo transculturale, e quindi la capacità di lavorare sui testi ibridi anche in termini di tipi e generi testuali.

Il testo ibrido può dirsi il risultato di un compromesso, una mediazione, un prodotto transculturale. II concetto di ibridismo nasce nell’ambito degli studi post-coloniali ma si può far risalire al dialogismo e all’interdiscorsivismo di Bachtin (1965) e si utilizza oggi soprattutto per fare riferimento ai testi letterari prodotti in un clima multiculturale. Invece ci si riferisce qui all’ibridismo del testo tradotto come al prodotto di un’operazione di mediazione grazie alla quale il traduttore cerca di trasmettere la cultura del testo di partenza operando opportuni adeguamenti affinché il testo sia «accettabile» nella cultura di arrivo, nel senso di adeguato al nuovo lettore sul quale dovrà sortire Io stesso effetto pragmatico del testo di partenza pur non rinunciando a trasmettere i modelli culturali ai quali si è ispirato il testo fonte. I testi promozionali e le loro traduzioni in lingue diverse sono un ottimo esempio di ibridismo.

Nord (1991) faceva un raffronto tra una serie di fattori intra ed extra-testuali individuati nel testo di partenza e successivamente nel testo di arrivo, allo scopo di suggerire quelle differenze che devono guidare il traduttore nella scelta di tipo di traduzione da operare. Queste “divergenze” possono riferirsi alle loro rispettive funzioni testuali, ai diversi mittenti e destinatari, al variare del tempo e del luogo della ricezione del testo, del mezzo di diffusione e infine dello scopo sottostante alla produzione e alla successiva traduzione. Per esempio Alice in Wonderland di Lewis Carrol: l’ora del tè nella versione portoghese non coincide con quella del testo originale, ma va rilevato che una completa domesticazione avrebbe potuto portare alla sostituzione del tè con il caffè, per esempio.

Solo in rari casi si arriva ad una completa domesticazione o stranierizzazione:

 

  • Addomesticamento (domesticazione – traduzione target-oriented): strategia di rendere il testo strettamente conforme alla cultura della lingua in cui viene tradotto
  • Estraniamento (stranierizzazione – traduzione source-oriented): strategia per mantenere il testo di arrivo quanto più aderente al testo di partenza.
  • Ibridismo: mediazione tra queste due strategie (superamento dei concetti di traduzione source-oriented e target-oriented). La rielaborazione culturale di un testo tradotto è quindi un’operazione profonda; pertanto, occorre lavorare sul testo in profondità dal macro- al micro-, individuando quei fattori linguistici ed extra-linguistici che possono non funzionare nella cultura d’arrivo: questi riguardano norme e convenzioni ma anche altri aspetti formali e funzionali, nonché specificità culturali.

Oggi abbiamo a che fare anche con il testo elettronico. Le peculiarità del testo elettronico sono:

  • Link ipertestuali: immediatezza e fruibilità, pertanto il documento è più leggero e meno pieno di digressioni. Il tutto rende la lettura circolare piuttosto che lineare.
  • La pagina corrisponde alla schermata, vi sono confini diversi e il lettore scorre lo schermo in orizzontale e in verticale per prendere visione di tutto il contenuto. Talvolta, i testi lunghi vengono spezzettati in più pagine.
  • Il rigo deve essere contenuto nella schermata per quanto possibile; quindi, è particolarmente breve rispetto al rigo di una pagina tradizionale.
  • Paragrafo: anche questo deve essere più breve, allora la lettura deve non affaticare l’occhio. Le colonne e i riquadri sono sempre posti in verticale così da limitare l’espansione in orizzontale.
  • Titolo: bisogna prestare molta attenzione perché è la prima cosa ad essere notata.
  • Relazione tra parole e immagine/ segnali iconici: alcuni sono internazionali, altri vanno tradotti.

 

Quindi ci ritroviamo davanti a testi interattivi in cui tutte queste caratteristiche devono essere rispettate e che di conseguenza tenderanno ad influenzare le scelte traduttive.

Il testo interattivo è un ottimo esempio di ibridismo tra generi diversi. Ma non solo. Lo è stata anche la tragedia.

La Lettera di Dante a Cangrande della Scala mostra come tragedia e commedia prendano strade diametralmente opposte. Proprio il titolo della Divina è definito commedia poiché disegna un movimento ascetico del protagonista invece che una catabasi. Un brano di Livio erroneamente male interpretato in epoca medioevale porta alla conclusione che due opere di Seneca e Terenzio sarebbero state scritte per una sola voce (quella del poeta), con la conseguenza della separazione ideologica del teatro da una parte e della tragedia dall’altra.

Nel teatro elisabettiano, invece, la tragedia tornerà a legarsi con il teatro trasferendo però anche le iconografie letterarie quali:

 

  • La ruota: ruota della fortuna che gira
  • L’albero: simbolo dell’umanità, in particolare rami secchi e radici inaridite
  • Specchio: Amleto invita a specchiarsi per svelare la vera natura dell’essere.

 

Queste immagini permangono ancora adesso nel nostro teatro. Ma il teatro elisabettiano perse l’immediatezza tipica del medioevo, arrivando a assumere un significato del tragico che non si limita alle sole sfortune individuali, lo stesso senso della vita era adombrato da un velo tragico. Ma nello stesso istante assume anche un senso specifico grazie alla scoperta dei drammi di Seneca (1560): da questa ridefinizione la tragedia diventa di nuovo un’opera tragica per il teatro. Da qui partì un lungo dibattito su quali opere potessero ritenersi tragiche. Il vero poema drammatico seguirebbe in toto le regole aristoteliche ma queste ora si scontrano con un gusto (elisabettiano e giacobita) profondamente cambiato.

Principali oppositori del gusto rigidamente neoclassico del rinascimento furono Scalingero e Castelvetro, che mostrarono la mala interpretazione dei testi di Orazio e Aristotele. Castelvetro diede vita a Poetica d’Aristotele vulgarizzata: si configura come uno dei testi principali nella formazione del gusto occidentale. Le tesi principali di Castelvetro trovarono fondamento nel testo Difesa della poesia di Sidney dove le rigide regole aristoteliche vengono rivestite di fascino e vengono rese più appetibili, ribadendo che lo scopo di unità di tempo e luogo deve convergere verso l’unità d’azione.

Vengono poi posti altri veti come la netta separazione tra la tragicità e il comico. Questa separazione è destinata a corrodersi fino ad affermarsi come caratteristica portante del teatro elisabettiano con Shakespeare, che per altro aveva violato tutte le regole del neoclassico. I motivi che spingono i drammaturghi sono di ordine pratico, dovevano misurarsi con il gusto ineducato del pubblico, che prediligeva la tragicommedia. La direzione indicata da Shakeaspeare indica forme teatrali aperte. Non si possono considerare i drammi del maestro inglese e nemmeno le sue più oscure commedie senza scorgere il debito simbolico del medioevo.

Retrospettivamente la differenza tra precetti neoclassici e messa in opera del teatro elisabettiano appare schiacciante. I problemi di analisi critica neoclassica si basano essenzialmente sulla presa alla lettera dell’opera aristotelica che analizzava con occhio critico rivolto al suo tempo e in particolare alle opere di Sofocle e non investiva il dramma greco nel suo complesso. Gran parte della poesia drammatica, da Milton a Goethe, si configura come un tentativo di risuscitare l’ideale greco. È una grande fortuna che Shakespeare sia rimasto immune da questo fascino greco che può derivare da un’ignoranza totale dei classici.

La teoria neoclassica troverà posto nel teatro di Elisabetta e Giacomo I con Chapmann e Jonson che tentarono di conciliare le due istanze: neoclassico e popolare. Chapmann tra tutti gli elisabettiani è il più vicino a Seneca e la sua latinità è rivolta a una Roma decadente, mentre Jonson parla di una Roma nel suo periodo aureo. Nelle tragedie di Chapmann manca un disegno unitario, dove spicca con maggiore enfasi il suo pessimismo politico. La stessa sorte tocca a Jonson dove i suoi tentativi di riconciliare queste due parti si fanno farraginose e maldestre.

Dal tentativo di portare avanti questa riconciliazione tra ideali classici e elisabettiani derivò in Dryden una complessa concezione del dramma. Le inclinazioni lo portavano a rispettare l’unità dei classici. Allo stesso tempo egli fu profondamente sensibile allo spirito di Shakespeare e attratto dall’esuberanza e dalla vivacità del teatro elisabettiano. Era così pronto ad accettare una mescolanza di modi comici e tragici. Infatti nella prefazione della sua opera Tutto per amore afferma che i confini della tragedia neoclassica sono troppo angusti per la tragedia inglese prendendo ad esempio Shakespeare. Poi cambia opinione producendo un saggio che si configura come faticoso tentativo per dimostrare che la tragedia shakespeariana non contrasta con in principi aristotelici ma essi sono necessariamente conformi ad una adeguata rappresentazione della natura.

Il testo letterario in genere, non solo la tragedia, per essere pienamente compreso deve essere letto e, in seguito, anche interpretato dal critico. A volte l’arte viene giudicata come incomprensibile, frutto di pura ispirazione: allora critica avrebbe poco o nulla da fare in questo caso. Se l’arte non si possa ripetere e vivesse nel solo momento della ispirazione, il critico non avrebbe nulla da aggiungere. Ma non è così storicamente, per esempio il concetto sfuggente del Sublime è spiegato con un trattato.

Quindi anche elementi che sembrano più lontani dalla possibilità di essere analizzati dalla critica hanno sempre punti verso quest’ultima. Arte e critica/metodologia nascono come figlie di medesime direttive storiche e culturali, ideologie dominanti, non sono separate dalla storia. L’arte pone in essere necessariamente lo stesso discorso che fa il critico, ma nell’artista il discorso è implicito, nel critico avviene una esplicitazione delle idee e dei sentimenti. Per Heidegger, interpretare è dire il non detto.

Il primo libro di critica letteraria è la Poetica di Aristotele, libro in cui lo Stagirita cerca di definire gli assi portanti, alcune delle principali direttive che fanno di un testo scritto un’opera letteraria. Stabilisce la differenza dei generi, differenza tra genere alto e genere basso per cui determinati generi come tragedia e epica trattano sempre temi alti e linguaggio aulico. Invece la commedia deve essere dominata dal basso (con lingua quotidiana, i personaggi peggiori e più osceni di noi, i temi triviali). Secondo Aristotele erano regole fisse che non potevano essere infrante, altrimenti l’opera non sarebbe stata adatta.

L’arte doveva applicare uno schema imitativo/retorico: esistevano determinati parametri nella tragedia (3 unità): luogo, durata, azione. Il tragediografo del classicismo doveva rispettare le regole sia di unità di luogo, durata, azione sia della separazione dei temi (la tragedia solo temi alti, la commedia solo temi bassi). Con Shakespeare il teatro rivoluziona le regole.

In questo contesto la critica dell’uomo si limitava a vedere se le regole fossero rispettate, le nuove tragedie venivano viste e controllate secondo le regole della poetica aristotelica. Si era all’interno dell’idea di arte come normatività: la buona arte doveva rispettare delle regole canoniche. Era correlata l’idea di critica come dea di critica come VERIFICA della applicazione delle regole.

Ma queste idee egemoniche erano messe in discussione da elementi subalterni della società. Per esempio Giordano Bruno diceva che vi erano tanti generi quanti vi erano gli autori. Le norme non esistono, ogni poeta può creare di diritto un proprio genere, sempre diverso da quello della tradizione.

Una ideologia fatta di norme era legata a una società fatta di norme da non infrangere. Vi era connessione fra fare arte e quello che succede a livello sociale. È necessaria una rivoluzione sociale per avere anche un’arte che infrange norme e pensa ad un mondo possibilmente senza norme, magari facendo tragedie che non rispettano i canoni di quelle greco-romane.

Shakespeare pose le basi del cambiamento. Ma è dai romantici in poi si cambia radicalmente. La critica capisce che non basta andare a verificare se le norme sono state rispettate ma si tratta anche di capire come nell’arte emergano le sensibilità dei contemporanei. Crebbe l’interesse per le fonti della opera letteraria. Potevano rimanere i generi tradizionali (commedia e tragedia vengono ancora utilizzati), ma si potevano anche scrivere senza usare le regole della tradizione.

Dal Settecento emerse il termine ‘’ermeneutica’’. Nel Cinquecento significava la spiegazione dei passi più difficili o oscuri di un’opera letteraria. Invece dal Settecento iniziò a significare anche l’interpretazione delle caratteristiche psicologiche dell’autore attraverso l’opera d’arte. In sostanza come l’opera d’arte rispecchi la sensibilità dell’autore. Con i romantici si cominciò a credere che non esistesse un modello oggettivo di arte, qualcosa che fosse inevitabilmente bello. Prima si credeva che qualsiasi tragedia fatta con le 3 unità fosse bella. Allontanandosi dalle regole canoniche della tradizione, si cominciò a credere che ogni momento storico e luogo avessero le proprie regole e che l’arte andasse giudicata sulla base di queste regole proprie, che sono in divenire, che cambiano con il mutare dei tempi.

L’opera d’arte è fatta dal momento del mondo. Ogni momento del mondo avrà opere d’arte differenti perché ogni momento avrà una diversa idea di bello o interessante.

Oggi noi pensiamo ancora come i romantici. È lo Storicismo: diversi momenti storici hanno diverse idee e sensibilità. Entra in ballo la coscienza del divenire: l’idea che le cose cambiano se si hanno sensibilità diverse.

Questo accadde per via del cambiamento della società, la società cambiava, qualcosa avveniva a livello sociale e questo qualcosa, il progresso sociale, permetteva il cambiamento del paradigma ideologico. Nel 1789 avvenne la rivoluzione francese: stava morendo il sistema economico che aveva dominato il mondo per più di mille anni, l’ancien régime, qualcosa di nuovo si stava profilando, si propose alla storia il capitalismo con il conseguente abbandono del millenario feudalesimo: si affacciò alla ribalta una nuova classe sociale, la borghesia. La borghesia aveva il potere economico già tre secoli prima, però adesso, scalzati i re, voleva anche quello politico. La borghesia non accettava più i nobili che stanno al potere per discendenza, ma fece valere il merito e la volontà popolare.

La parola chiave era Movimento: si affacciano nuove idee e contemporaneamente crollano le idee considerate ‘’eterne’’ dell’armamentario ideologico che aveva la classe aristocratica, che sta colando a picco.

Lungo questa via si arriverà a capire nell’Ottocento che la STORIA LETTERARIA sia PARTE DELLA STORIA. L’innovazione sta nel cercare di capire come nella letteratura troviamo il riflesso dello spirito di sentire di un intero popolo, attraverso le opere dei loro artisti.

Nel 1550 nacque l’estetica. Questo significa che la filosofia non è sola, si può arrivare alla verità non solo attraverso la logica ma anche attraverso i sensi. Si comincia a dire che se abbiamo sensi diversi arriviamo a verità diverse. L’idea stessa di verità assoluta inizia a decadere (insieme a bellezza e moralità). Certamente, in questo senso, il rinascimento trova la propria formulazione più piena nel romanticismo.

Più avanti diventerà egemonico un nuovo genere letterario: il romanzo, e non è un caso che succeda in questo periodo. Il romanzo è un genere che distrugge regole e non crede ad un sistema fisso per raccontare, evidentemente il romanzo si afferma definitivamente in un momento in cui le norme stanno crollando.

Facciamo un esempio: il romanzo Pamela di Richardson. Egli scrisse un’opera su una cameriera con destino tragico: prima non si poteva, in quanto i personaggi umili avevano un destino tragico tipico degli aristocratici, i personaggi bassi dovevano solo far ridere (commedia). Con questo romanzo il sistema dei personaggi che rispecchiano norme canoniche, si ruppe. Una cameriera solo ora può avere un destino tragico perché una nuova classe sociale, fatta anche di persone non nobili che fino ad allora non avevano avuto il centro della scena in letteratura, la reclama.

A partire dal Settecento il nuovo pubblico borghese voleva informarsi sul mondo. Si avvicendava un mercato nuovo di informazione con giornali, con romanzi. Il pubblico era costituito specialmente da donne che volevano leggere soprattutto romanzi.

Gli autori del tempo compresero che il rischio era di arrivare al puro relativismo, quindi si stabilirono nuove regole, sostituendo quelle aristoteliche passate di moda, con qualcosa di adatto ai tempi. Kant diceva che ciò che il senso comune ritiene bello è arte. Erano lontani da Aristotele ma c’era ancora l’idea di salvare gruppi di senso: l’arte è ciò che la maggioranza di noi ritiene bello, non c’è un’arte per ognuno di noi. Oppure i romantici proveranno a creare nuove norme dicendo che la grande arte è quella che parla dei popoli (spirito di un popolo).

Con il romanticismo scompare idea di imitazione. L’artista non deve per forza imitare la natura o un modello (greco-romano) che imitava la natura ma deve imitare le sue idee e il suo mondo interiore. Nasce infatti il concetto di genio. I romantici cercano i loro antenati, emerge Shakespeare, grande antenato dei romantici.

La critica ha ancora qui per i romantici il compito di muoversi insieme al lavoro del genio: il genio produce l’opera d’arte e la critica ha il compito di aumentare la partecipazione del pubblico all’opera stessa (non dimenticando che le regole possono essere distrutte ma sono ancora là). La critica ci aiuta a capire le sensibilità: il perché l’autore decide di infrangere le norme.

Il romantico Schiller scrisse saggio sulla poesia ingenua e sentimentale. Egli diceva che nella Poesia ingenua vi è il rapporto con la natura che avevano gli antichi, potevano imitarla perfettamente, avevano un rapporto più ingenuo (infanzia del mondo), erano più direttamente legati alla natura. Ma i romantici non potevano oramai fare più come gli antichi. Per i romantici il rapporto con la natura era perso, non sarebbero mai stati ‘’grandi’’ come gli antichi, ma aggiungeva che i romantici potevano essere grandi in altro modo: mediante la Poesia sentimentale. L’arte poteva essere riflessione e lamento su quanto perduto, sul quel rapporto con la natura che non poteva essere più diretto. Si delineava una differenza tra antico/classico e moderno senza creare più gerarchia bensì solo diversità d’importanza.

Per i classicisti e i neoclassicisti i valori del mondo classico erano ancora esportabili e esprimibili, potevano ritrovarli e anche ritrovare l’arte degli antichi. Si trattava di IMITARE non solo a livello artistico ma anche a livello etico e politico. C’era in qualche modo un’idea di perfezione in una parte del nel passato che potevano ancora recuperare.

Invece per i romantici e per l’uomo di oggi il passato non è quello a cui possiamo tornare, è un passato perduto e diverso da noi, qualcosa che non possiamo comprendere più, ci giunge come rovina e incomprensibilità. Non c’è modello di perfezione nel passato o nella ragione che possa essere definito una volta e per sempre ma solo sensibilità diverse e idee da adattare a climi e momenti diversi.

L’idea centrale del romanticismo e della modernità è che NON ESISTE UN MODELLO politico, artistico, etico o filosofico che possa essere applicato direttamente. Norme fisse assolute non possono esistere. Di conseguenza l’arte non può più essere IMITAZIONE, se non c’è un modello assoluto e tutto dipende dal clima, dal tempo, dalla sensibilità. Ma ci saranno altri obiettivi. Quali? Ognuno darà la propria risposta.

 

Marco Calzoli

 

 

Bibliografia

 

  • B. Di Sabato, E. Di Martino, Testi in viaggio. Incontri fra lingue e culture, attraversamento di generi e di senso, traduzione, Torino 2011;
  • N. Grandi, Fondamenti di tipologia linguistica, Roma 2014;
  • E. Jezek, Lessico. Classi di parole, strutture, combinazioni, Bologna 2011;
  • B. Skinner, Verbal Behavior, New York 1957;
  • G. Steiner, La morte della tragedia, Milano 2021.

 

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