Fascismo, fascismi. Annosa questione, anche perché ricorrente permane la domanda mediata dal titolo del bel libro di Maurice Bardèche, edito in Italia a metà degli anni ’60, Che cos’è il fascismo? Contenitore vuoto, come sostanzialmente l’intende Renzo De Felice oppure un insieme di forze, sovente disparate fra loro e tenute unite dalla figura carismatica di un capo – José Antonio e poi Francisco Franco (un conservatore abile a sfruttare l’animo ardente dei falangisti, privati del loro fondatore, fucilato nel novembre del ’36 dai ‘rossi’) – dalla guerra in atto, soprattutto dopo che s’è aperto il Fronte dell’Est, da alcuni temi, come appunto l’anticomunismo, una idea di giustizia sociale, un senso ‘religioso’ dell’esistenza, temi buoni per tutto e tutti e, per coloro che ne fanno critica, buoni per nessuno.
Fascismo come unicum italiano e non merce d’esportazione. Inimitabile. Notorio è l’intento del De Felice di scindere contenuto uomini vicende, senza diritto di replica, tra il Fascismo e il Nazionalsocialismo – irrecuperabile neppure sul terreno neutro su cui dovrebbe fondarsi la critica storica. Del resto egli – ultimo nostalgico del Duce – si sforza di evidenziare come Mussolini poco stimasse e diffidasse di tutti coloro che l’avevano accompagnato alla conquista del potere – caso emblematico Italo Balbo di cui temeva il fascino esercitato dalle sue transvolate e l’autonomia polemica (alcuni azzardano che nei cieli di Tobruk, il 28 giugno del ’40 con l’abbattimento dell’aereo su cui Balbo rientrava dopo un’ispezione sul fronte libico, si consumasse il definitivo regolamento dei conti.
Di più: mentre al Partito veniva affidata l’immagine fisica del Regime con le strutture organizzative le federazioni le manifestazioni pubbliche con i suoi riti i simboli saluti romani l’inquadramento della gioventù – si dirà impero di cartapesta, otto milioni di baionette, i gerarchi a saltare nei cerchi di fuoco, Achille Storace tronfio –, Mussolini si appoggiava alla burocrazia del vecchio stato liberale, anonimo ed efficiente, fatto di uomini onesti, certo, ma che con il Fascismo poco o nulla ebbero a che fare. Oltre a dare fiducia al sovrano e alla sua corte infida e di potenziali traditori. Di questo le conseguenze si paleseranno con la tragedia del 25 luglio e poi, ancor più devastante, con l’8 settembre del ’43. Alberto Beneduce si trovò a gestire l’IRI, pur provenendo dal socialismo moderato e fra i massimi esponenti della massoneria, e Arturo Osio, che aveva militato nella sinistra del partito popolare, guidò la Banca Nazionale del Lavoro. Insomma un Mussolini senza il Fascismo, anzi contro – sempre attenendosi a Renzo De Felice e alla sua ‘autorevolezza’ di storico riconosciuto.
Di questa autorevolezza, del circoscrivere il Fascismo quale fenomeno italiano, sono interpreti gli amici Giacinto Reale e Roberto Mancini – il primo legato al Fascismo del ’19 e delle vicende dello squadrismo, di cui è cultore accanito e competente. Dopo la Marcia del ’22, in nome dell’ordine e stabilizzazione del Paese, mandato in soffitta. Una fiammata irriverente spavalda ma che incise ben poco – purtroppo – negli anni del Ventennio per tornare, ardente e presto divenire cenere dispersa al vento, nelle acque gelide e livide di Salò. Mentre il secondo si riconosce in quel ‘Fascismo di sinistra’ (termine che aborro) che fu anima nobile e tenace, pur se tardiva voce nei tempi cupi ed esaltanti della R.S.I. Minoritario se non inascoltato – e, qui, basterà pensare a Ugo Spirito e ai teorici della Corporazione proprietaria al convegno di Ferrara del maggio ’32, rapidamente sconfessati. Con affetto stima e condivisione mi duole ricordare loro che amano-amiamo un ‘Fascismo impossibile’…
Roberto Mancini ha iniziato l’esperienza di scrittore (gli articoli non fanno qui testo) cimentandosi nella narrativa – Il sopravvissuto è romanzo di una vita in cui vanno ad intrecciarsi le vicende del protagonista, Matteo, giovane fiducioso di poter cambiare il Fascismo ‘da sinistra’ con il crollo delle illusioni, la guerra la prigionia il ritorno in patria ne sono le tappe dolorose. L’irruente passione dell’autore di voler dire quello che pensa – Nietzsche confessa che in ogni suo libro vi è qualcosa di ‘suo’ – fa sì che il confine tra il saggio e il racconto si renda troppo esile, l’uno invade il campo altrui, il tratto s’appesantisce a tutto danno di una vicenda esemplare – esemplare perché fu storia di tanti italiani (merito questo innegabile, cioè averla ricordata in un’Italia dove s’invita a fare i conti con una memoria condivisa, ma di fatto si perpetuano e l’ inganno e il silenzio colpevole e la mistificazione.
Segue il romanzo La guerra è finita, libro che ho condiviso nella stesura – la vicenda di due giovani, tanto diversi fra loro, che dopo l’8 di settembre si arruolano nella X MAS-btg. Lupo ne vivono la breve e intensa avventura la prigionia e il dopo-guerra. Mi esimio, per falsa modestia, di trarne giudizio. E, ancora, ritrovando il saggio, a lui più congeniale, Oltre destra e sinistra: il socialismo fascista, con mia prefazione. Un buon libro, forse un po’ didascalico (gli insegnanti, lo so bene, anche quando vanno in pensione, non dismettono certa arroganza da cattedra e registro, una certa posa da saputelli), ma documentato e sentito.
Da pochi mesi, dopo un certo travaglio editoriale (il libro porta il logo della Ritter), è uscito Josef Tiso, sottotitolo ‘con il popolo e per il popolo’. Un lavoro di nicchia, alla ricerca di quei ‘fascismi sconosciuti’ (titolo di un’opera a cura di Maurice Bardèche, 1969) che non furono di fatto Fascismo – infatti, nel volume in questione, Tiso e le vicende della Slovacchia non sono citate. Un omaggio, quello del Mancini, al suocero della minoranza d’origine ungherese che, nel travaglio di quelle aree geografiche si videro spartite e disperse secondo la logica del vincitore sul vinto. E, comunque, un lavoro che riempie un vuoto conoscitivo per chi si sforza di capire cosa fu l’Europa fra le due guerre mondiali il conflitto 1939-’45, prima che scendesse cappa mefitica sul nostro continente la parola ‘fine’ tra quelle macerie di Berlino, difese da poche centinaia di Waffen-SS in gran parte francesi e dai ragazzini della Hitler-Jugend con il panzerfaust, quando sul Reichstag venne fatta sventolare la bandiera rossa dietro la quale avanzavano le orde mongole.
E’ nel 1939 che l’Assemblea di Bratislava proclama l’indipendenza della Slovacchia – sollecitata da Hitler, che aveva convocato appositamente a Berlino monsignor Tiso, ‘un prete duro, dall’aspetto taurino’, a capo del Partito popolare slovacco, e a cui avrebbe voluto imporre un telegramma di richiesta al Terzo Reich di intervenire in aiuto del suo paese, con l’intento di smantellare ciò che restava della Cecoslovacchia e trasformarla nel Protettorato di Boemia. Tiso, acceso nazionalista, si destreggiò in modo da dare alla dichiarazione d’indipendenza una immagine di autonomia, anche se di fatto la Wehrmacht entrò a Bratislava e occupò i centri nevralgici del paese. Del resto Hermann Goering aveva espresso l’interesse verso il territorio slovacco quale ulteriore base per la Luftwaffe e la futura spinta verso Oriente. Poi la guerra contro il bolscevismo. I soldati slovacchi si batterono con valore. Arrestato l’8 giugno del ’45 dalle autorità militari americane, Josef Tiso viene consegnato a quelle sovietiche. Il 15 aprile 1947, dopo il classico processo-farsa, condannato a morte e impiccato il 18 aprile. Ignota la tomba ove è stato sepolto.
Il libro di Roberto Mancini non si risolve in un semplice percorso storico, breve come furono le vicende della prima indipendenza dello stato slovacco – dal 1939 al ’45 – e di monsignor Tiso che espresse il richiamo identitario del popolo slovacco, il forte afflato religioso, ma si spinge a cercare di rispondere alla domanda da cui noi stessi abbiamo preso le mosse per questo intervento. Fascismo, fascismi. No, Tiso e il suo movimento non furono ‘fascismo’ – un percorso più prossimo al franchismo, alle dottrine sociali della Chiesa, un accento forte di antisemitismo con il mondo rurale da una parte e la sua diffidenza contro la borghesia, la cui componente ebrea aveva un ruolo dominante, causa d’usura sfruttamento e conseguente endemica povertà). Temi questi – ed altri, come l’anticomunismo, ad esempio – comuni appunto a ciò che s’è detto dei ‘fascismi sconosciuti’. Essere sconosciuti indica, però, la possibilità d’essere svelati e riconosciuti ed accolti. E’ questa una strada percorribile e gli esiti sicuri? Da parte nostra non abbiamo mai chiesto a chi ci era a fianco – ieri come oggi – quale fosse il colore del fazzoletto al collo l’eventuale tessera l’appartenenza ma l’andare oltre essere contro e ‘faccia al sole e in culo al mondo’…
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