Io mi sono dedicato a confutare il falso mito della luce da oriente nei trentasette articoli di questa serie che precedono questo attuale, ma anche nel mio libro Alla ricerca delle origini e in molte parti di quelli della serie L’eredità degli antenati. Mi sembrava di aver detto tutto al riguardo.
Recentemente, un articolo di Claudio Mutti pubblicato dieci anni fa sulla rivista “Eurasia”, ma riproposto lo scorso settembre sul gruppo Facebook “MANvantara”, mi ha fatto comprendere che questo mito, o almeno alcune delle sue varianti, sono ancora ben vive, anche nei nostri ambienti.
Ma non è soltanto questo. Forse proprio l’ampiezza con cui ho affrontato l’argomento richiede di riformulare tutta la questione in forma quanto più sintetica e chiara possibile.
In un’epoca che sembra lontana da noi, ma in realtà non lo è affatto, e continua a influenzarci in una molteplicità di modi, diciamo dal medioevo a quanto meno tutto il XVIII secolo, la vulgata orientalista aveva un predominio schiacciante. Basta guardare una carta del mondo di età medioevale, una delle famose carte a T, dove il mondo è rappresentato come un cerchio la cui metà superiore è occupata dall’Asia, e quella inferiore è a sua volta divisa in due parti simmetriche che rappresenterebbero l’Europa e l’Africa, per rendersene conto.
L’Oriente era il luogo dove si sarebbe trovato il paradiso terrestre, dove si erano svolte le vicende del presunto popolo eletto, e ovviamente il luogo dell’incarnazione, dove si era svolta la vicenda terrena ed era avvenuta la morte redentrice di Gesù Cristo. La storia umana cominciava con Adamo ed Eva, e proseguiva con i patriarchi biblici. Essendo la bibbia la parola di Dio, il suo contenuto doveva essere vero alla lettera. Chi osava avanzare dubbi, non aveva altri con cui discutere la cosa, se non i ferri dell’inquisizione e le fiamme del rogo.
La riforma protestante non rappresentò affatto una svolta, se sottrasse una metà dell’Europa al dominio della Chiesa, accentuò ancora di più l’autorità dogmatica della bibbia. L’illuminismo indusse gli stati nazionali allora in formazione a ridurre il peso dell’autorità religiosa in concorrenza con essi, ma un vero cambio di mentalità doveva ancora venire.
La vera rivoluzione intellettuale fu opera dei linguisti tedeschi del XIX secolo. Essi scoprirono l’unità fondamentale, l’origine comune delle lingue e dei popoli della maggior parte dell’Europa (con poche eccezioni, l’ungherese, il finlandese, il basco), dell’altopiano iranico, dell’India vedica.
Scoprirono anche l’estraneità rispetto al contesto, da allora chiamato indoeuropeo, dell’ebraico della bibbia, il che comportava l’implicita considerazione che il cristianesimo sulla cui origine ebraica non si possono avanzare dubbi, era un elemento estraneo infiltratosi nell’ecumene europeo (con effetti, verrebbe da aggiungere, peraltro distruttivi, avendo avuto una parte non piccola nella caduta dell’impero romano).
Le conseguenze di ciò non possono essere sottovalutate, a cominciare dal fatto che la narrazione biblica andava declassata dalla categoria del racconto storico a quella dei semplici miti.
Incorsero però anche in un errore di fondo, come vedremo.
Sempre nell’ambito di questi articoli, ho dovuto correggere su questo punto un intellettuale “nostro” di cui peraltro ho il massimo rispetto, Silvano Lorenzoni. Egli identifica l’ex Oriente lux tout court con il cristianesimo, ma io direi che questo abbaglio intellettuale è più antico e precedente all’eresia ebraica che, per disgrazia, è diventata la religione più diffusa in Europa e nel mondo occidentale.
Forse il fascino di un Oriente misterioso, esotico, carico di tesori e dottrine segrete è iniziato con la spedizione asiatica dei Greci e Macedoni al seguito di Alessandro Magno, di sicuro, i Romani una volta entrati in contatto con la grecità attraverso il circolo degli Scipioni, una grecità che non era più quella classica, ma quella ellenistica già contaminata da elementi orientali, ne erano già affetti.
Pensarono ad esempio di nobilitarsi inventandosi di discendere dai superstiti sconfitti della guerra di Troia. Noi possiamo apprezzare l’Eneide virgiliana come poema epico, invenzione letteraria, ma dobbiamo sapere che la vicenda in esso narrata non ha nessunissima base storica.
E’ un discorso che fa buon gioco a coloro a cui la nostra identità italiana da fastidio, i soliti sinistri che non hanno mancato di rilevare che alla base della nostra identità romano-italica ci sarebbe, secondo questo mito, un “immigrato turco”.
Nell’epoca della crisi dell’impero romano, si diffusero culti di origine orientale, quello di Mitra, quello di Iside, e il cristianesimo non era in origine che il meglio organizzato fra essi.
Chiarito questo punto, peraltro fondamentale, torniamo alla questione indoeuropea. C’è una cosa da chiarire in premessa. La precisazione, il dito dietro cui si nascondono i cosiddetti studiosi democratici, che quello di indoeuropeo è un concetto linguistico e non etnico, in realtà non ha molto significato. Per l’antichità, siamo pienamente legittimati a supporre una piena corrispondenza tra lingua ed etnia, salvo pochissime eccezioni. Le mostruosità di società multietniche nelle quali, ad esempio, persone di origine africana parlano una lingua germanica, l’inglese, come avviene negli Stati Uniti, sono tipiche del nostro tempo.
Le lingue (e quindi anche i popoli) della famiglia indoeuropea si dividono in due grandi rami, uno occidentale comprendente il greco, il latino, le lingue neolatine, i linguaggi germanici e celtici, e uno orientale che comprende i linguaggi slavi e indo-iranici. Il primo è detto del centum, il secondo del satem, secondo la forma tipica che vi assume il numerale cento.
La più antica lingua indoeuropea di cui abbiamo una testimonianza scritta è il sanscrito, la lingua dei Veda, i testi sacri indiani, il che indusse i linguisti tedeschi dell’ottocento a ritenere che la patria d’origine, l’Urheimat indoeuropea fosse appunto l’India. Fu anche scelta o creata una parola, Ariani dal prefisso indiano Ar- che significa nobile, elevato, per indicare le genti di stirpe indoeuropea, e che ritroviamo anche come radice di Iran, una parola che sarebbe meglio non usare, visto l’equivoco che sottintende, se non in relazione alle genti dell’altopiano iranico e alla popolazione bianca dell’India.
Era un errore, o meglio una deduzione indebita, infatti, che il sanscrito sia stata la più antica lingua indoeuropea a essere messa per iscritto, non implica che essa sia stata la più antica a essere parlata.
Che l’India possa essere stata l’Urheimat indoeuropea, diverse cose lo rendono non solo improbabile, ma inverosimile: il fatto che nonostante la sua enorme estensione il subcontinente indiano occupi un’area tutto sommato periferica dell’ecumene indoeuropeo, e soprattutto il fatto che già ben prima dell’arrivo degli Ariani, esso era fittamente popolato da popolazioni “scure” parlanti lingue del tutto diverse, di ceppo dravidico.
Il sistema delle caste, caratteristico della società indiana, fu palesemente concepito in origine per tenere separate le due popolazioni, e questo è un forte indizio a favore del fatto che gli Ariani si presentarono tardivamente in India come invasori e conquistatori.
Probabilmente, il supporre l’India come Urheimat indoeuropea era più di un grossolano equivoco, era il mito fasullo dell’Ex Oriente lux che, cacciato dalla porta, rientrava dalla finestra.
Con ogni probabilità, non vi è stata alcuna migrazione proveniente dall’India e dall’altopiano iranico verso l’Europa, ma la direzione è stata contraria, lo hanno dimostrato recenti ricerche genetiche che hanno permesso di verificare che la presenza di genoma europeo, “caucasico” (altro termine a mio parere assolutamente errato, è verosimile che le popolazioni “bianche” non abbiano avuto origine nel Caucaso, ma molto più a ovest e molto più a nord) è considerevolmente più alta nel DNA dei membri delle caste superiori rispetto a quello della popolazione generale indiana.
Tralasciamo il fatto che la fascinazione perversa dell’Ex Oriente lux è tutt’altro che morta e pronta a risorgere ad ogni occasione, pensiamo ad esempio all’esplosione di egittomania che si verificò un secolo fa in seguito alla scoperta della tomba di Tutankhamon, e certamente anche oggi l’Egitto faraonico ha i suoi fanatici.
Tralasciamo il fatto che più o meno tutto l’esoterismo o pseudo-esoterismo in circolazione è profondamente impregnato di mentalità ebraico-cristiana, pensiamo ad esempio alla massoneria, potranno pure aver rifiutato l’autorità della Chiesa, ma quando ci si propone, almeno in linea teorica, di vendicare la morte di Hiram e di ricostruire il tempio di Gerusalemme, significa che costoro sono immersi in pieno nella mentalità ebraico-cristiana.
A ogni livello, il mito fasullo e la fascinazione chimerica dell’Ex Oriente lux continuano a imperversare. Ve ne faccio un esempio che ha avuto il potere di lasciarmi letteralmente basito.
Nel 2006 il Touring Club Italiano, in collaborazione coi giornali “Il Piccolo” di Trieste e “Il Messaggero Veneto” di Udine, editò un’enciclopedia tematica del Friuli-Venezia Giulia. Nel secondo volume, dedicato alla storia, si ipotizza per i Celti un’origine mesopotamica. Se non fosse per il fatto che il mito fasullo dell’Ex Oriente lux continua a dominare imperterrito, non capiremmo da dove potrebbe essere venuta una bestialità simile.
Parliamo invece di coloro che, su basi più serie, hanno cercato di tracciare la mappa delle nostre origini, tuttavia capiamo che hanno perlopiù girato il binocolo dalla parte sbagliata.
Vi ho detto in apertura che devo totalmente dissentire dal citato articolo di Claudio Mutti, ma nel compiere l’errore di fondo che svisa completamente il discorso, Mutti che per altri versi ritengo uno studioso assolutamente rispettabile, non è certo il solo.
Basta scorrere quello che è il grande oracolo che sembra contenere tutto lo scibile ma anche tutto lo sciocchezzaio dei nostri tempi, Wikipedia, per vedere che, riguardo ad antiche popolazioni dell’Europa orientale, quali appunto Sciti, Sarmati e Alani, viene presentata la stessa ipotesi di Mutti, che non può quindi essergli imputata come una sua colpa, cioè quella di una presunta origine iranica. E quando mai sarebbe avvenuta una simile imponente migrazione dall’altopiano iranico all’Europa, e perché non ha lasciato alcuna traccia né archeologica né genetica?
Degli Slavi si comincia a parlare a partire dal VI-VII secolo, quando cominciarono a insediarsi in vaste aree dell’impero bizantino e dei Balcani lasciate spopolate dall’epidemia di peste nota come peste di Giustiniano, ma fino ad allora? Sono forse comparsi all’improvviso dal nulla?
L’ipotesi più ragionevole, poiché fanno parte del medesimo gruppo indoeuropeo satem delle popolazioni “iraniche” sopra ricordate, è che queste ultime siano i loro antenati, e che la migrazione sia avvenuta nella direzione opposta rispetto a quella implicitamente ipotizzata, cioè dall’angolo sud-orientale dell’Europa verso l’altipiano iranico e l’India, da parte di popolazioni “ariane” affini agli Slavi.
A riprova di ciò, ricordiamo che la cultura più antica identificata come indoeuropea è la cultura chiamata dagli archeologi russi Yamna o Yamnaya, stanziata – guarda un po’ – sulla sponda settentrionale del Mar Nero, tra Russia meridionale e Ucraina.
Lo stesso termine “indoeuropei”, accordando la priorità all’India, non è in realtà corretto. Euro-indo-iranici sarebbe più giusto, anche se mi atterrò all’uso ormai da gran tempo invalso.
Rimane sul tavolo una questione importante: dove andrebbe identificata o almeno ricercata l’Urheimat, la patria ancestrale d’origine degli Indoeuropei? Al riguardo, sono state proposte una quantità di ipotesi, nessuna delle quali si è dimostrata soddisfacente. Le considerazioni che vi ho fin qui esposto hanno, a mio parere, un notevole grado di certezza, ma ora, al riguardo, entriamo in un terreno più ipotetico.
Ci deve essere una ragione per la quale l’Urheimat indoeuropea è finora sfuggita a qualsiasi identificazione attendibile, e questa ragione potrebbe essere il fatto che si trova oggi sommersa.
Pare oggi definitivamente accertato che là dove oggi si trova il Mar Nero, alcune migliaia di anni fa vi fosse un lago di acqua dolce di dimensioni molto più contenute, sulle cui rive sarebbe sorta una delle più antiche civiltà umane. In seguito al crollo della diga naturale del Bosforo, si sarebbe verificata una catastrofe di grandi dimensioni, di cui i miti di Atlantide e del Diluvio Universale sono forse gli echi. La zona sarebbe stata invasa dalle acque del Mediterraneo, formando il Mar Nero così come lo conosciamo oggi.
I superstiti di questa catastrofe sul lato settentrionale del mare così formatosi, sarebbero stati appunto gli antenati degli Yamna-Indoeuropei, ma anche sul lato meridionale, anatolico, troviamo indizi importanti. Prima di tutto l’enigmatico complesso templare di Gobeckli Tepe, che appare così singolarmente antico, “fuori contesto” a cui, per la disperazione degli archeologi più conservatori, recentemente si sono aggiunti siti più antichi, come Kharantepe.
Realtà asiatiche o europee? La domanda non ha molto significato, perché fino alla formazione del Mar Nero, a sud dell’estrema propaggine meridionale degli Urali, fra i due continenti non esisteva alcuna separazione.
Al riguardo, Robert Sepher, l’autore di Species with Amnesia, ci ha rivelato un indizio importante di cui gli archeologi ufficiali si sono ben guardati dal renderci edotti. A Gobeckli Tepe sono state rinvenute statuette dai lineamenti europidi nei cui globi oculari erano state inserite a mo’ di occhi, delle pietruzze azzurre.
Pian piano, purché si sappia resistere al fascino morboso dell’Ex Oriente lux, la verità sulle nostre origini comincia a emergere.
NOTA: Nell’illustrazione, a sinistra Mondo aurorale di Silvano Lorenzoni, forse il testo che ne espone le concezioni in maniera più completa. L’identificazione da lui proposta dell’Ex Oriente lux col cristianesimo non è errata ma parziale, al centro, Species with Amnesia di Robert Sepher, il libro più importante dell’autore che ci ha svelato la verità su Gobeckli Tepe, a destra Religiosità indoeuropea di Hans F. K. Günther, un testo che, per quanto datato, assieme all’ampio saggio introduttivo di Adriano Romualdi che ne correda l’edizione italiana, e a cui ha collaborato anche Ernesto Roli, rimane fondamentale per la comprensione del mondo indoeuropeo.


