8 Ottobre 2024
Archeostoria Heuneburg Religione

Ex oriente lux, ma sarà poi vero? (sesta parte)

Di Fabio Calabrese
Entriamo ora nel vivo del nostro aggiornamento, considerando le più recenti scoperte archeologiche che ci consentono di disegnare una mappa dell’Europa antica assai più civile di quel che finora si era perlopiù supposto, e soprattutto per nulla debitrice a influssi orientali o mediorientali.
Pare una sorta di legge del contrappasso, come abbiamo visto nella quinta parte, è soprattutto della Germania che abbiamo avuto occasione di parlare, questa Germania vista dagli autori classici (e dalla propaganda “alleata” dell’una e dell’altra guerra mondiale) come l’epitome della barbarie, mentre se si vanno a guardare le cose da vicino si scopre una realtà ben diversa, questa Germania che ci è cara subito dopo la nostra patria, per aver subito più di altri popoli europei l’ingiustizia e la calunnia.

Ricominciamo proprio dall’orizzonte tedesco, questa volta però non riguardo al periodo tardo neolitico o età del Rame in cui si situano i circoli megalitici di Externsteine e di Gosek nonché il disco di Nebra, ma il periodo della colonizzazione celtica, per parlare di una nuova scoperta avvenuta nei pressi della città-fortezza di Heuneburg, che è già il sito celtico più conosciuto in quella che è oggi terra tedesca.

Heuneburg nella Germania sud-occidentale è uno dei siti celtici più importanti dell’Europa continentale, è stata nel passato una grande città-fortezza, ebbene proprio qui secondo quanto riferisce il sito on line di notizie archeologiche Antikythera del 25 agosto 2013, nell’estate del 2010 è stata fatta una scoperta sensazionale, che oggi viene resa nota: non distante dal sito, nel letto del torrente Bettelbühl, è stata ritrovata una ricca camera funeraria sotterranea dove era inumato il corpo di una donna evidentemente di elevata condizione, che i ricercatori hanno subito soprannominato “la principessa celtica”, oltre ai resti di un bambino probabilmente figlio della stessa. La sepoltura ha circa 2600 anni, risale al 600 avanti Cristo, e anche in questo caso il fango l’ha preservata in condizioni ottimali.

Come riporta Antikythera:
«La camera sepolcrale è non solo ben conservata – ma anche completa. Nella maggior parte dei casi, gli archeologi si trovano a scavare tombe che furono depredate da anni ladri fa. Ma qui, pile di sepoltura di oggetti in oro, ambra, e fusioni in bronzo sono state scoperte a fianco degli scheletri della principessa e di un bambino non identificato».

Per comprendere meglio l’importanza della scoperta, è utile leggere il passo seguente:
«Poiché gli anelli del legno permettono di datare gli altri elementi nella camera di sepoltura, i ricercatori ora sperano di ottenere una nuova comprensione della storia e della cultura celtica.
Il risultato potrebbe cambiare la nostra visione dei Celti. Gli scrittori Romani descrissero in particolare il popolo eterogeneo [qui ci dev’essere un errore di traduzione, probabilmente si voleva dire “straniero”] come barbaro, eccellente soltanto in guerra e violenzaI ricchi membri della società [di Heuneburg] conducevano una vita di lusso: gioielli etruschi in oro, vino greco e stoviglie spagnole, erano tutti scambiati qui. La tomba della principessa celtica supporta l’ipotesi che il suo popolo fosse interessato alla cultura e alla comodità».

Naturalmente, sarebbe stato molto strano se qualche importante novità non ci fosse venuta anche dalle Isole Britanniche, in particolare da Stonehenge. Come abbiamo visto in precedenza, quello che si trova nella piana di Salisbury nel Wiltshire, non può più essere considerato un singolo monumento megalitico, ma un complesso archeologico che comprende, oltre alla Stonehenge vera e propria, le tracce dei due Woodhenges e del Bluehenge, il circolo di pietre blu poi spostato all’interno dell’anello dei sarsen, e le numerose sepolture che ci hanno permesso di raccogliere informazioni che ci consentono ora uno sguardo del tutto inedito sull’Europa preistorica. Ora scopriamo che questo vasto complesso presenta una continuità di insediamento umano che risale all’età mesolitica. 

In data 3 maggio 2013, Il fatto storico, altro importante sito di notizie archeologiche on line, riferisce di uno studio compiuto da David Jacques della Open University: uno scavo effettuato in una località nota come “Il campo di Vespasiano” ad appena due chilometri dal monumento megalitico, ha rivelato le prove di una continua occupazione umana fin dal 7.500 avanti Cristo, in piena età mesolitica, cinque millenni prima di quanto si pensasse, dell’epoca dell’erezione del complesso megalitico.

In realtà, questa non è una notizia che ci coglie del tutto impreparati. Se vi ricordate, ve l’avevo segnalato nelle precedenti parti di questo saggio: esisteva già la prova della presenza umana a Stonehenge in età mesolitica, consistente in un chicco di grano carbonizzato risalente a quell’epoca, rinvenuto da Tim Darwill e Geoff Wainwright, due altri ricercatori che hanno studiato a lungo il sito; ora abbiamo la prova, e non si tratta di un fatto secondario, che l’insediamento umano nella zona è stato continuo attraverso i millenni.

Non si tratta come si è pensato finora, di una cultura neolitica che si sovrappone a una mesolitica, magari intervallate da millenni di abbandono del sito, bensì una si evolve nell’altra. Secondo David Jacques è probabile che il sito fosse intensamente frequentato già in età paleolitica da cacciatori-raccoglitori, perché ricco di acque e di abbeveratoi che attiravano la selvaggina, ma questo naturalmente è più difficile da provare.

Tuttavia, quella che probabilmente è la notizia più importante di questo 2013 che pare essere stato un vero anno di grazia per l’archeologia europea, non viene da lì ma dalla Scozia.

Il 3 agosto 2013, stando al quanto riferisce sempre Il fatto storico, i ricercatori dell’Università di Birmingham hanno portato a termine l’analisi di una serie di dodici fosse di età mesolitica risalenti a ottomila anni fa rinvenute nel sito scozzese di Warren Field, che sembrerebbero costituire un calendario lunare, nientemeno che il più antico calendario conosciuto al mondo, e un calendario notevolmente sofisticato per l’età preistorica.

Riporto uno stralcio del brano de Il fatto storico:
«La capacità di misurare il tempo è uno dei raggiungimenti umani più importanti, e capire quando il tempo venne “creato” è critico per comprendere lo sviluppo della società».
Vince Gaffney, a capo degli scavi, spiega: «Le prove suggeriscono che le società di cacciatori-raccoglitori in Scozia avevano sia la necessità che la sofisticatezza di registrare il tempo negli anni e di correggere lo slittamento stagionale dell’anno lunare; questo successe quasi 5.000 anni prima dei primi calendari noti in Medio Oriente. Ciò mostra un passo importante verso la ‘costruzione’ del tempo e dunque della storia stessa».

Un po’ come gli allineamenti di Stonehenge, infatti, sembra che le fosse del sito abbiamo una disposizione con correlazioni astronomiche alquanto sofisticate:
«Il sito si allinea anche al solstizio d’inverno, in modo da fornire ogni anno una correzione astronomica al calendario: i mesi lunari sono infatti più brevi di 11 giorni rispetto ai mesi solari, dunque bisognava avere una sorta di Capodanno per far riallineare il calendario lunare con l’anno solare e le sue stagioni».

Non male questi Britanni preistorici, e a proposito, vi ricorda niente il nome di Vince Gaffney? Ma sì, è sempre lui, l’archeologo britannico che lavorando sempre per l’Università di Birmingham, nel 2010 ha scoperto le tracce di Woodhenge, il circolo di pali di legno vicino a Stonehenge.

Un’altra invenzione fondamentale per la civiltà umana, la misurazione de tempo, sembra essere avvenuta in Europa millenni prima che in Medio Oriente, così come pare certa la priorità europea nella scoperta dei metalli e della scrittura. Veramente, se non fosse sostenuto dal pregiudizio biblico, da una vera e propria deformazione ideologica e da una politica censoria e manipolatoria delle informazioni, il pregiudizio, lo strabismo mediorientale non potrebbe reggere.

Un aspetto dell’impostazione da me sostenuta che probabilmente sarà stato motivo di sorpresa per molti, e che dimostra come in definitiva non sia possibile sfuggire alle implicazioni anche politiche del nostro discorso, è il fatto che le prove a nostra disposizione non solo dimostrano che l’Europa e non il Medio Oriente è stata anche nella remota antichità il cuore e il motore della civiltà umana, ma che, come abbiamo visto nella terza e quarta parte di questo scritto, un elemento di provenienza europide si trova all’origine delle grandi civiltà extraeuropee. Questo vale certamente per le civiltà asiatiche, ed è testimoniato da u
na costellazione di popolazioni estinte e di popoli relitto di netta impronta europide: i Kalash, gli Hunza, i Tocari dell’Asia centrale, gli Jomon e gli Ainu del Giappone, ma anche per le Americhe vi sono forti indizi che puntano nella stessa direzione e tracce di un antichissimo popolamento europide avvenuto ben prima di Colombo e dei Vichinghi, probabilmente in epoca preistorica, quando, in età glaciale, il livello degli oceani era più basso di quello attuale e un’ininterrotta banchisa artica si stendeva dal continente europeo all’Islanda e da questa alla Groenlandia.

La più antica cultura litica americana, la cultura Clovis, presenta una netta affinità con quella solutreana dell’Europa dell’età glaciale e nessuna somiglianza con le industrie litiche della Siberia, da cui si suppone siano provenuti gli amerindi. Abbiamo popolazioni “indie” stranamente “bianche” come i Mandan del Nordamerica, oggi estinti, e gli Aracani del Sudamerica, tuttora viventi e che – guarda caso – abitano la zona attorno a Tiwanaku, la “Stonehenge sudamericana”. Come se non bastasse, ci sono leggende diffuse presso tutte le popolazioni amerindie di maestri civilizzatori dalla pelle bianca, presenti prima dell’arrivo dei conquistadorese che spianarono loro la strada: Quetzalcoatl, Viracocha, Gucumatz.

Vogliamo fare ora una riprova al contrario e vedere come stanno le cose là dove un’influenza europide, “bianca” non è ipotizzabile?

Qual è stata ad esempio la situazione dell’Africa subsahariana, dell’Africa nera in un qualsiasi momento tra il paleolitico e l’inizio della colonizzazione europea?

Quando gli Europei giunsero in Africa nel XIX secolo, rimasero colpiti dal fatto che i neri africani erano sotto ogni riguardo dei selvaggi, che non mostravano alcun indizio di un’organizzazione sociale più complessa di quella tribale né di una cultura riconoscibile come tale. Pregiudizi razzisti dettati dall’etnocentrismo europeo, come i sostenitori di quella castrazione intellettuale che oggi si chiama “politicamente corretto” vorrebbero farci credere? Assolutamente no! Nei confronti delle grandi civiltà asiatiche, viaggiatori ed esploratori che provenivano dallo stesso ambiente e soffrivano dunque, se mai è esistito, dello stesso “pregiudizio etnocentrico”, hanno assunto atteggiamenti ben diversi; non solo, ma gli stessi giudizi sui neri africani sono stati espressi quasi negli stessi termini dai viaggiatori e mercanti arabi ben mille anni prima, un millennio durante il quale, evidentemente, l’Africa nera non ha mostrato alcun segno di evoluzione.

«Gli esploratori europei, parecchi secoli dopo, avranno le stesse impressioni. Gli Europei hanno scritto che gli Africani sembravano avere un’intelligenza molto bassa ed un lessico piuttosto povero per esprimere pensieri complessi. I Bianchi apprezzavano alcune tribù per la fabbricazione di ceramica, la forgiatura del ferro, le sculture in legno e le costruzione di strumenti musicali. Ma più frequentemente, gli Europei erano scioccati dalla nudità, dalle loro abitazioni superficiali e poco igieniche. I Bianchi notarono che i Negri non avevano inventato ruote per la macinazione di mais o per i trasporti, non avevano fattorie di animali, nessun testo scritto, nessuna moneta e nessun sistema numerico.
I Bianchi che esplorarono la Cina erano razzisti come quelli che esplorarono l’Africa, nonostante questo le loro descrizioni dei cinesi e della Cina furono molto diverse da quelle che furono fatte, da loro stessi e dagli arabi, sui Negri». 

Queste parole sono un piccolissimo estratto del libro Race Evolution and Behavior di J. Philippe Rushton, docente di Psicologia alla University of Western Ontario di Londra, Ontario e Canada. Non si tratta, come forse a qualcuno verrebbe da pensare, della solita “sparata razzista”, ma di uno studio serio di un ricercatore qualificato su come l’appartenenza razziale condizioni il comportamento umano e che, nonostante questo, è stato ferocemente boicottato, ne è stata impedita la pubblicazione, ed è infine uscito on line in edizione ridotta e in forma semiclandestina.

Un caso analogo, di cui ha parlato La Repubblica del 17.6.2006, è quello di Bruce Lahn, docente di genetica dell’Università di Chicago. Questi avrebbe individuato due geni connessi con lo sviluppo del cervello nella nostra specie, che sono di origine recente e spiegano l’incremento delle nostre dimensioni craniche e capacità intellettive avvenuto nelle ultime decine di migliaia di anni, ma questi geni non si ritroverebbero in tutte le popolazioni umane, si troverebbero nei bianchi e negli asiatici, ma nei neri no. Boicottato in tutte le maniere dall’establishment scientifico, Lahn è stato costretto ad abbandonare le ricerche.

Capite dove arriva
la gabbia mentale della “political correctness” democratica? Non si mette alla gogna un’ideologia, una teoria, un’opinione. Si impedisce la ricerca, si vuole che non sia consentito porsi domande intorno a certi temi, perché in realtà si sa benissimo che risposte serie basate sulla realtà invece che sull’astrazione ideologica non potrebbero far altro che confutare i dogmi dell’uguaglianza o della riducibilità di tutte le differenze a fattori ambientali e sociali, dell’inesistenza o dell’irrilevanza delle razze. DEMOCRAZIA SIGNIFICA ESATTAMENTE IL CONTRARIO DI LIBERTÀ.

Io vorrei ora esprimere qualche parola di apprezzamento per il nostro bravo Alfonso De Filippi, che recentemente ha scovato on line e tradotto un saggio che mette sotto una luce nuova tutta la questione dell’orientalismo: Ebrei, Islam e orientalismo di Irmin Vinson, già apparso sulla rivista statunitense National Vanguard.

Precisiamo che almeno in prima battuta Vinson usa il termine “orientalismo” in quella che dovrebbe essere l’accezione più corretta, ossia “studio del mondo orientale” e non come ho fatto io, nel senso di ideologia/dottrina esaltatrice dell’oriente, anche se, a mio giudizio e per mia esperienza, l’una cosa sfocia fin troppo facilmente nell’altra. Vinson prende  le mosse da una polemica fra il critico letterario arabo Edward Said autore del saggio Orientalism e lo scrittore ebreo americano Martin Kramer, autore dello scritto, che è una risposta al primo, The Jewish Discovery of Islam. Secondo Said gli occidentali non avrebbero alcun diritto di occuparsi di orientalismo, perché in ogni caso prigionieri di un’ottica coloniale, eurocentrica e islamofoba. La risposta di Kramer è di certo sorprendente e molto rivelatrice: riconosce la “fondatezza” delle accuse di Said riguardo agli orientalisti europei e “cristiani” ma non nei confronti degli orientalisti ebrei che hanno tenuto sempre un atteggiamento di apertura verso l’islam e – detto fuori dai denti – di viscerale ostilità nei confronti dell’Europa.

Vinson fa notare che «Similmente agli anti razzisti, l’anti Orientalismo del Said ci nega il diritto di vedere il mondo attraverso i nostri occhi», allo stesso modo di tutti gli storici di sinistra che maledicono l’eurocentrismo.

Gli fa eco Kramer, come Vinston ci racconta.

Gli studiosi ebrei scrissero con simpatia sull’Islam allo scopo di attaccare indirettamente l’Europa. Mentre dichiaravano di attenersi a un’oggettività disinteressata essi miravano a smantellare quelle categorie che aiutavano gli Europei ad autodefinirsi, e mettendo in dubbio certe generalizzazioni riguardo ai musulmani essi speravano di impedire analoghe generalizzazioni sugli Ebrei. Il bersaglio principale era la fiduciosa fede degli Europei nella propria superiorità culturale, e, dato che l’Europa cristiana si autodefiniva nel contrasto con l’Islam, essi avrebbero attaccato l’Europa esaltando suo oppositore (l’Islam) e mettendo in dubbio le linee di confine tra l’Est e l’Ovest e tra Islam e Cristianità che formavano parte di quella auto rappresentazione dell’Europa per essi insopportabile… Gli studiosi ebrei dissimulavano la loro animosità verso l’Europa nelle loro dotte pagine piene di simpatia verso l’Islam.

Il Kramer mostra del coraggio nel valutare gli effetti della sovversione culturale da lui operata: «Il rispetto verso l’Islam che gli ebrei hanno fatto tanto per diffondere non solo è rimasto in Europa ma servì come base per la tolleranza europea verso i musulmani dopo la guerra. Le sinagoghe fatte a somiglianza delle moschee erette dalle comunità ebraiche nel secolo decimo nono prepararono l’Europa ad accettare le vere moschee che le comunità islamiche vennero a erigere in tutto il continente nel ventesimo secolo».

Bernard Lewis, il più noto dei moderni orientalisti ebrei, recentemente profetizzò sulle pagine del Die Welt che “l’Europa sarà islamica entro la fine del secolo”; e di questa catastrofe demografica il Kramer rivendica il merito agli studiosi islamofili ebrei. Ciò può essere senz’altro un “onore” troppo grande per ammuffiti tomi di quasi dimenticati orientalisti ebrei, ma la promozione ebraica dell’Islam, almeno, fornisce una seppur parziale spiegazione del massiccio venir meno della volontà di sopravvivenza degli Europei che ha permesso la crescente invasione islamica che ancora una volta muove all’assalto del nostro continente, questa volta senza incontrare (almeno fino ad ora) qualsiasi significativa resistenza. E non vi può essere dubbio che la vecchia visione occidentale dell’Islam come qualche cosa di alieno e ostile, una reazione ragionevole alla lunga storia delle invasioni musulmane, è stata quasi interamente sradicata. Quando la NATO decise di aiutare i terroristi musulmani nel Kosovo bombardando i Serbi a Belgrado, questa decisione, nominalmente occidentale, fu un chiaro segnale del venir meno di un’antica auto rappresentazione culturale. Ogni considerazione sul fatto che i Serbi sono europei e i Musulmani alieni ed estranei era svanita.

Non è forse chiaro? Chi di voi avrà letto le tesi di Silvano Lorenzoni sulla CONVERGENZA DEI MONOTEISMI ne sarà rimasto forse sorpreso, ma alla luce di questa testimonianza si vede bene che lo “scontro di civiltà” fra giudeoamericanismo e Islam è semplicemente una baruffa in famiglia fra “fratelli abramici” uniti da un’ostilità viscerale verso l’Europa come la vicenda della ex Jugoslavia ha ben dimostrato.

Martin Kramer è anche il curatore della raccolta poetica “Almansor” dell’autore ebreo tedesco (formalmente convertito) Heinrich Heine, e in questa raccolta (ispirata a un’omonima commedia di Heine il cui protagonista è un mussulmano di Spagna anch’egli convertito per convenienza), c’è un brano molto significativo in cui egli invoca il crollo della moschea di Cordova trasformata in chiesa sulla testa dei fedeli cristiani mentre rimpiange la dominazione islamica. Cristiani qui sta per Europei, di un’Europa che nonostante sia stata invasa da una religione venuta dal Medio Oriente, ha resistito alla semitizzazione interiore come all’aggressione esterna islamica. Il conflitto non è stato e non è religioso ma, in primo luogo, razziale, e Vinston non lo nasconde:  

«[La Reconquista] è stata letteralmente una guerra razziale contro i Mori, condotta da spagnoli, francesi e portoghesi, la cavalleria della Comunità bianca. In termini semplici, comprensibili a tutti, indipendentemente dall’appartenenza politica, è stata la fine di una dominazione straniera».

Occorre però rimarcare che il fattore razziale inteso in senso biologico non è onnipotente, ed è possibile generare uno stravolgimento di quella che dovrebbe essere la sensibilità razziale per via puramente culturale, e il più tragico esempio in questo senso è rappresentato dall’ebraizzazione psicologica indotta dal calvinismo che ha trasformato la Puritania anglosassone nella mostruosità di USraele.

Bisogna anche notare che questo discorso, che ci obbligherebbe a una sorta di continuo autodafé per evitare ogni sorta di etnocentrismo, è condotto da marxisti, ebrei e islamofili in totale malafede; infatti esso è richiesto SOLO A NOI, per disarmarci psicologicamente, renderci il proverbiale vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro.  

L’Islam è assolutamente etnocentrico e intollerante. L’Ebraismo? Non ne parliamo! Ma qui c’è un equivoco fondamentale su ciò che si debba intendere per tolleranza e comprensione dell’altro. Lo ricordava persino un vecchio liberale come Jean François Revel:
«La nostra civiltà ha inventato l’autocritica in nome di un corpus di principi valido per tutti gli uomini a cui devono quindi ispirarsi tutte le civiltà, nell’autentica uguaglianza. Essa perde la sua ragion d’essere se si abbandona questo punto di vista. I persiani di Erodoto pensavano che tutti avessero torto fuorché loro; noi altri occidentali moderni siamo prossimi a pensare che tutti abbiano ragione fuorché noi. Ma questo non è un progresso dello spirito critico, sempre auspicabile, è il suo abbandono totale»1.

Vinston cita a un certo punto, per criticarla, un’affermazione dell’allora presidente francese Jacques Chirac, pensata evidentemente per ingraziarsi l’elettorato di origine allogena: “Le radici dell’Europa sono tanto cristiane quanto mussulmane”. Sono tentato di dare ragione a Chirac: l’Islam c’entra con le radici dell’Europa tanto quanto il Cristianesimo, cioè per niente. Le radici dell’Europa sono elleniche, Romane, celtiche, germaniche: la chiarezza e profondità di pensiero della filosofia greca, la costruzione giuridica e amministrativa Romana, la fantasia mitopoietica celtica, le tradizioni germaniche di fedeltà e di onore, e tutto il resto è nulla.
1.     Cfr. Jean-Francois Revel, La conoscenza inutile, Longanesi, 1989.

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