5 Dicembre 2024
Società

Europa, il cimitero che ha rimosso la morte – Roberto Pecchioli

Il funerale di Dario Fo ha espresso una volta ancora il peggio dell’Italia contemporanea: l’occupazione “laica” del sagrato del Duomo, la presenza della squallida compagnia di giro degli intelligentoni di sinistra, al comando di Gad Lerner e Roberto Saviano, le bandiere rosse ed i pugni chiusi di un’attempata platea grondante un rancore antico sotto la pioggia autunnale, il figlio del morto barbuto ed ultracomunista che ringrazia i compagni, gli imbarazzanti applausi alla bara che sembrano essere diventati copione obbligato dei riti funebri, la banda che ha suonato Bella Ciao ad un milite (pentito, pentito !) della Repubblica Sociale, l’elogio al defunto affidato a Carlin Petrini, quello di Slow Food. Proprio il gastronomo di Bra ha pronunciato la frase che ispira il presente scritto: “ Oggi andate a casa, e mangiate e bevete, e, se potete, fate l’amore”. Una grossolana rimozione della morte in linea con il personaggio Fo.

La riflessione che ne scaturisce, tuttavia, è sconsolante: non potendo abolire la fredda sorella, la negano con allegria di naufraghi. Il materialismo illuminato del nostro tempo bastardo vieta la speranza ultraterrena, e finisce col fare della morte uno spettacolo, quando si tratta di personalità conosciute, e negli altri casi, un accadimento nascosto, quasi furtivo. Sottratta sempre più all’ambito pubblico e collettivo della comunità, viene considerato un evento privato, condannato a consumarsi nell’emarginazione e nella solitudine. La morte, inoltre, viene ridotta a “malattia”, per cui il morente viene assegnato all’esperto, al “tanatologo”, che tratta il trapasso scientificamente, al di fuori delle emozioni, degli affetti del parentado, e senza le mediazioni rituali e sociali che servivano a elaborare il lutto.

C’è di più, ed è il fatto, sconosciuto alle epoche passate, che nell’esistenza secolarizzata la morte non riveste praticamente ruolo alcuno. Simbolo di transitorietà, come la malattia è confinata negli ospedali e negli ospizi per anziani. Cinema e televisione riflettono la vita dei sani, ed è sintomatico che i cortei funebri non attraversino più i paesi e le città, ma siano relegati nel ghetto dei cimiteri. Viviamo in una società che ha smesso di convivere con la morte, rendendola qualcosa di indicibile, perché c’è stata una regressione del sacro, del religioso e del rituale.

Anche nei dialoghi quotidiani, l’argomento morte viene evitato, schivato, preso alla larga tra sinonimi ed allusioni. Nel passato, si recitava una preghiera affinché Dio non ci riservasse una morte improvvisa, senza pentimento e sacramenti. Oggi, l’orrore di fronte alla morte (e ad ogni sofferenza) fa sì che tutti ci auguriamo un trapasso rapido e repentino. L’eutanasia, che fino a venti, trent’anni fa era considerata dall’anima popolare un delitto, è vista con favore dalla maggioranza. Pio XII, in un’omelia del 1957, disse parole umanissime e definitive, frutto della sapienza millenaria che ancora la Chiesa possedeva: “Se la somministrazione dei narcotici provoca per se stessa due effetti distinti, da una parte il sollievo dei dolori e dall’altra parte l’abbreviazione della vita, essa è lecita”. Oggi, anch’essa tace dinanzi al mistero della morte. Continua a praticare i suoi riti ed il pietoso ufficio della sepoltura, come recita la liturgia, è ancora in gran parte esclusiva dei sacerdoti, ma è assente la speranza, l’idea fiduciosa del passaggio ad un’altra dimensione, quella dell’eternità.

Il rispetto, non diciamo il culto dei morti, si è dissolto. Ciò che è rimosso per paura, incomprensione, orrore invincibile non ha titolo per essere oggetto almeno di riguardo. Carlo Petrini, ateo e materialista estraneo alla cultura popolare (cibo a parte), dinanzi alla bara di un amico, può solo invitare al sesso o alle gozzoviglie, ma è una povera reazione alla paura di qualcosa di enorme, inevitabile e di cui non si sa più riconoscere il mistero. I cimiteri non vengono più visitati con la frequenza e la discrezione di prima. Anzi, non sono pochi coloro che chiedono di spargere le proprie ceneri in mare o nell’aere. Un impresario di onoranze funebri astigiano propone addirittura, per un funerale eccentrico ed esclusivo, di unire le ceneri dell’estinto alla polvere dei fuochi d’artificio.

Segni inequivoci di un orrore del corpo umano defunto, di una distanza totale dall’ipotesi (le pari, la scommessa, la chiamò Blaise Pascal) di persistenza dell’anima, di una tragica svalutazione della stessa traccia del proprio passaggio sulla terra. Un individualismo estremo, che, di fronte alla morte, si piega in solipsismo ed in ansia di dissoluzione. Non può non balzare alla mente il quadro l’Urlo di Munch, o gli occhi sbarrati e le braccia drammaticamente levate in alto di uno dei personaggi della “Fucilazione del 3 maggio 1808” di Goya, all’alba della modernità.

Le piramidi egizie, espressione di una civiltà dalle straordinarie conoscenze ingegneristiche ed astronomiche, erano tombe, e gli etruschi nostri progenitori, che ebbero un particolare senso della morte, espressero il meglio dell’arte nelle necropoli e nelle tombe. La serenità fidente di tanti piccoli cimiteri alpini costruiti attorno alla chiesa tocca la sensibilità dei visitatori, ed una delle sette meraviglie dell’antichità era la tomba di Mausolo ad Alicarnasso, da cui il termine mausoleo, fatta erigere dalla regina Artemisia per l’amato marito. Non più necropoli, probabilmente non più cimiteri, nel futuro di questa nostra civiltà esangue che nasconde la testa sotto terra come gli struzzi di fronte a ciò che non accetta e che non può dominare con gli strumenti della scienza o “gestire” con appositi protocolli o prassi.

Da tempo, abbiamo creato il recinto del dolore e della sofferenza, respinto il fatto concreto della morte in appositi spazi chiusi, igienizzati, in cui si muovono come automi o figure oniriche degli addetti specializzati, quegli uomini e quelle donne di cui vogliamo ignorare volti e caratteri. Ci siamo persino inventati un nuovo eufemismo politicamente corretto, fine vita, per indicare quel momento drammatico e misterioso che Rabelais chiamò “il grande forse”. Poiché non possiamo abolire la morte per decreto ministeriale, né attraverso le sofisticate tecnologie attraverso le quali crediamo di essere i dominatori dell’universo, pretendiamo di “gestirla”(questo verbo così contemporaneo…).

Lo hanno chiamato testamento biologico, e consiste nel disporre di sé stessi nell’ora estrema: eutanasia, rifiuto di cure, espianto di organi. Le legislazioni europee ed occidentali, ovviamente, registrano, talora anticipano i profondi mutamenti dell’atteggiamento rispetto alla morte, ed alcuni Stati hanno già legalizzato l’eutanasia. In Belgio, anche i minori possono “scegliere” (scegliere !) di morire, mentre in Olanda una legge ora in discussione introdurrà un vero e proprio diritto alla morte. Chiunque, anche in buona salute ed indipendentemente dall’età, potrà chiedere ed ottenere la morte assistita statale, forse mutuabile, il che, tradotto dal giuridicamente e politicamente corretto, significa che lo Stato sopprimerà i propri concittadini con ogni igienica precauzione, apposita assistenza psicologica e, immaginiamo, in presenza di ministri di culto della religione o setta preferita.

Con l’occasione, si sono diffusi concetti nuovi, quali qualità di vita, vita degna di essere vissuta, per individuare limiti giuridici o giustificare la circostanza, obiettivamente enorme, di voler determinare la morte ed impadronirsene. Non vi è chi non veda, insieme con la riduzione ad animale dell’essere umano, anche la mano di interessi potentissimi. Pensiamo ai fondi pensione, alle assicurazioni contro le malattie, interessati ai loro bilanci ed al profitto degli azionisti, compromesso dalle cure e dalla sgradita sopravvivenza di troppi “aventi diritto”. In Olanda, le campagne di opinione a sostegno dell’istituzione dell’eutanasia sono state largamente finanziate da compagnie di assicurazione e fondi speculativi.

Uno scrittore americano scrisse che l’istituzione più indicativa della metafisica moderna è l’assicurazione sulla vita. Il suo piano della divisione dei rischi indica con la massima chiarezza la vera natura del tentativo di considerare la morte come un incidente. Nel Medioevo, al contrario, tra le molte paure che fecero tremare gli uomini di quel tempo, la più debole fu proprio quella della morte. Ebbe quindi ragione uno psicoanalista, ma anche sociologo come Erich Fromm, un materialista a tutto tondo, ad affermare che il nostro tempo nega semplicemente la morte, e con ciò la base ideologica dell’esistenza. Anziché percepire la morte, la sofferenza, il dolore, come le spinte più forti della vita, come la base della solidarietà umana, l’individuo è portato o costretto a rimuovere il sentimento della morte come uno scandalo. Riflessioni analoghe aveva svolto Nietzsche.

In una cultura senza Dio e contro Dio avanza l’aspirazione a dimenticare la morte, togliersi dalla vista tutto ciò che ne ricorda la presenza. Giovanni Arpino espresse tutto ciò con un paradosso: “della morte, oggi, nessuno ne parla più. Oggi chi muore è quasi accusato di tradire chi resta”. Al tempo delle nostre nonne, si moriva “di vecchiaia”, circondati però da figli e nipoti, e nessuno si sarebbe sognato di nascondere ai bambini della famiglia la salma del nonno: era il senso della vita, mancanza di rispetto per il defunto, una esperienza da fare, una sorta di iniziazione all’esistenza. Molti adulti, ormai, non sopportano neppure una visita all’ospedale, e risparmiando ogni sgradevole esperienza a se stessi ed ai figli, diventano esseri fragilissimi non più in grado di guardare in faccia la vita.

Anche la visita al cimitero in occasione della celebrazione dei defunti è scivolata via come mille altre usanze abbandonate per indifferenza. In alcune famiglie, era uso visitare almeno una tomba di quelle maltenute, senza fiori, per testimoniare una sorta di deferenza nei confronti di ogni vita spezzata. Significativo e tristissimo è che la festività di Ognissanti, cui succede il 2 novembre, dedicato ai defunti, sia stata del tutto sostituita dalla ricorrenza di Halloween, penosa certificazione della nostra dipendenza sottoculturale dagli Stati Uniti. Le forme che ha assunto sono quelle del macabro banalmente ritualizzato e soprattutto di una deriva commerciale che investe feste in costume per bambini ed adulti e paccottiglia in confezione regalo.

Il senso della festa è una raffigurazione tesa all’ esorcizzazione della morte e alla dimensione dell’occulto, del tutto ignorata dal bestiame umano che si agita al grido di “dolcetto o scherzetto”. Il simbolo della zucca intagliata deriva dal personaggio di Jack O’ Lantern, un ubriacone irlandese di cui il diavolo chiese l’anima. Nel 2016 dell’era volgare, in Italia ci sono aziende agricole che producono esclusivamente zucche ornamentali per Halloween, che migliaia di persone cercano di rendere ridicolmente paurose e terrifiche intagliandole nelle forme più strane. Tutto, ovviamente, nella più totale ignoranza delle simbologie celtiche e cristiane.

Le riflessioni fatte non intendono esprimere giudizi. Tutto ciò che concerne il senso della morte è materia troppo profonda, coinvolge l’intimo di ciascuno di noi in maniera così potente ed assoluta da sfuggire a qualunque criterio di merito. Tuttavia, l’idea di sopprimere la vita nella sua fase di malattia grave o di degenerazione fisica colpisce come un pugno nello stomaco, coinvolge in profondità il significato della vita, sconvolge chiunque non abbia dell’uomo una concezione puramente materiale o zoologica. Toglie il fiato pensare all’indifferenza per le vite che nascono, cancellate con un semplice atto di volontà nell’aborto, unita alla freddezza e sicumera con la quale la morte diventa un gesto tecnico, da compiere con l’assistenza di nuovi boia in camice bianco, persuasi di agire per il bene e, soprattutto, secondo legge.

Leggi empie ne abbiamo ormai molte, non fanno più impressione ai più, specie a quelli che urlano assassini ai cacciatori, tremano per i cagnolini o per l’abbattimento di un orso sceso sin nel centro di un villaggio. Facciamo ancora parte di coloro che di fronte alla morte chinano il capo, e non riuscirebbero a togliere consapevolmente la vita ad alcuno. Siamo anche tra coloro che vogliono continuare ad onorare chi non c’è più, seppellendolo in un luogo riconoscibile, presso cui recarsi a rinnovare quel rapporto misterioso tra morti e viventi che trascende il tempo e ci distingue dagli animali.

Ma l’uomo europeo contemporaneo si è convertito in un animale sapiente e presuntuoso che aborre i cimiteri e, rimuovendo, esorcizzando la morte che lo atterrisce, si illude di abolirla. Si volta dall’altra parte tremando, stringe gli occhi come i bimbi quando vogliono scacciare un’immagine sgradita. Si è proclamato invano padrone della vita, accontentandosi di diventare padrone della morte.

                                                

2 Comments

  • Annalisa 15 Novembre 2016

    Della rimozione della morte ne parlavo giusto l’altro ieri con amici. D’altra parte laddove il razionalismo scientista non riesce a immaginare un perché verificabile con strumenti appositi, meglio rimuovere. Alla morte possiamo dare solo una spiegazione che trascende la materia perché essa è una porta. Che si chiude, per il materialista, che si apre, per chi pensa ad essa come passaggio per una vita in altra forma. Inoltre, la paura che il tergiversare alla ricerca di libertà effimere del corpo possa essere stata una perdita di tempo (paura che anche il più scientista degli scienziati tiene in sé) completa il quadro. In questo modernismo della rimozione quella della morte è appunto complementare a quella della vita, che si vuole lunga, sana, ovattata, immobile. Chiusi in un sarcofago ben aereato, con visori per la realtà virtuale e la musica preferita potremo non vivere per un centinaio di anni per poi non morire. Per semplicemente rimanere dove eravamo sempre stati. Nel nulla eterno. La ringrazio per il bell’articolo.

  • Annalisa 15 Novembre 2016

    Della rimozione della morte ne parlavo giusto l’altro ieri con amici. D’altra parte laddove il razionalismo scientista non riesce a immaginare un perché verificabile con strumenti appositi, meglio rimuovere. Alla morte possiamo dare solo una spiegazione che trascende la materia perché essa è una porta. Che si chiude, per il materialista, che si apre, per chi pensa ad essa come passaggio per una vita in altra forma. Inoltre, la paura che il tergiversare alla ricerca di libertà effimere del corpo possa essere stata una perdita di tempo (paura che anche il più scientista degli scienziati tiene in sé) completa il quadro. In questo modernismo della rimozione quella della morte è appunto complementare a quella della vita, che si vuole lunga, sana, ovattata, immobile. Chiusi in un sarcofago ben aereato, con visori per la realtà virtuale e la musica preferita potremo non vivere per un centinaio di anni per poi non morire. Per semplicemente rimanere dove eravamo sempre stati. Nel nulla eterno. La ringrazio per il bell’articolo.

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