Lo lavano, lo pettinano, lo radono e gli mettono un fazzoletto sotto la mascella per non deformargli il viso. Poi lo mostrano al mondo, non ci devono essere dubbi, il “Che” è morto. Morto ma non vinto, perché l’immagine di quel cadavere è troppo potente ed evocativa. Saranno i tempi ricchi di idealismo, sarà che la violenza era considerata ancora un modo per risolvere le grandi questioni e giustificata se serviva a portare equilibrio e giustizia nel mondo, saranno stati quegli occhi ancora pieni di volontà, quella volontà che aveva negli anni plasmato come un’opera d’arte, sarà stato che quel corpo ormai senza vita ispirò la pietà e il rispetto anche ai suoi nemici e un segno di speranza ai suoi compagni di lotta o a chi doveva continuare a compiangerlo o rinnovarne le gesta, ma d’improvviso Guevara assunse le sembianze di un martire e divenne il Cristo di Villagrande. Coricato su quella lastra di cemento ricordò a tutti il Cristo del Mantegna. Non sappiano con precisione perché scelse la Bolivia come terreno di lotta. In quanto straniero non era ben visto da una popolazione con una tradizionale forte identità nazionale accentuata dalla propaganda governativa, avrebbe dovuto immaginare il deciso sostegno militare statunitense, i contadini non appoggiarono la guerriglia anche perché il governo di Barrientos aveva intrapreso una politica di sviluppo economico favorevole ai contadini e concesse estensioni di terra ai quechua e agli aymara e, infine, il partito comunista boliviano, filosovietico, non lo aiutò. Per alcuni[1] in Bolivia stava preparando una scuola d’addestramento per guerriglieri, per portare in un secondo tempo queste forze a combattere in Argentina. Comunque sia Ernesto Guevara viene catturato l’8 ottobre del 1967 nella quebrada del Yuro, a pochi chilometri dal villaggio di La Higueira, dopo un conflitto a fuoco. Nonostante fosse ferito ad una gamba, con il fucile fuori uso e il corpo consumato dall’asma e dalla fatica, ancora incute timore. Per giustiziarlo viene estratto a sorte, fra i volontari, un giovane sergente dell’esercito, Mario Terán. Chissà cosa avrà pensato prima di sparargli, quanto alcol avrà ingurgitato prima di premere il grilletto, chissà quali incubi l’hanno attraversato negli anni a venire. Ernesto Guevara muore alla vigilia del ’68 e forse non avrebbe potuto scegliere momento migliore. In fondo “la cosa peggiore che può accadere a un rivoluzionario è vincere una rivoluzione”.[2] I giovani di tutto il mondo avevano ora un esempio da imitare. Non molti lo sanno, ma Ernesto Guevara fu un’icona anche di molti movimenti di estrema destra ed ebbe rapporti di stima con Peròn (ammiratore di Mussolini e creatore di uno stato e di una ideologia ispirata al fascismo italiano) e Nasser (che tra l’altro aveva combattuto al fianco dell’Asse durante la Seconda guerra mondiale). Jean Cau, noto pensatore conservatore che gli dedicò un bellissimo libro in cui ne raccontava le gesta e i motivi della sua “passione per il Che“[3]. Negli anni Sessanta, una parte dell’estrema destra guardava al “Che”, a Fidel Castro e ai movimenti di liberazione del Terzo Mondo in chiave antirussa e antiamericana. Non è un caso che al momento della sua morte, avvenuta il 9 ottobre 1967, i primi a onorarne la sua figura furono i comici del Bagaglino, cabaret romano di destra, e la prima biografia italiana (da cui verrà tratto anche un film) di Che Guevara, El Che Guevara. Vita e morte del vagabondo della rivoluzione[4], venne scritta da Adriano Bolzoni, un ex volontario della Repubblica di Salò. È necessario esaminare due aspetti, uno umano e uno politico-ideologico, che giustificano un tale interesse apparentemente innaturale ma che in realtà ci illumina su come le questioni politiche e ideologiche sono più ricche di sfumature e non così schematiche come vorrebbero farci credere. Gli uomini si valutano non solo per le loro idee politiche ma anche per il loro atteggiamento di fronte alla vita. Guevara ha rappresentato un eroe romantico, un guerriero poeta, un moderno don Chisciotte, un uomo che non avuto pietà dei suoi nemici ma che non ne ha mai chiesta per sé stesso. Ha condotto una vita frugale e spartana, ha rinunciato alla comoda vita borghese a Cuba, dopo la rivoluzione, per andare a combattere in Congo e in Bolivia per inseguire il suo sogno, proseguire la sua lotta all’imperialismo americano e liberare i popoli dalla dittatura del denaro e dallo sfruttamento capitalista e latifondista. Ha dimostrato grande forza d’animo e una volontà di acciaio per affrontare col suo problema d’asma tante privazioni e sacrifici. Come spiega Gabriele Adinolfi: “Non si può non onorare un uomo che abbandona cariche, onori, privilegi per andarsene a vivere tra i monti, nei boschi con i suoi compagni di lotta, passando giornate intere con qualche goccio d’acqua e, se dice bene, una galletta, un uomo che sogna e che resta fedele al suo sogno mettendo carne, muscoli, nervi al suo servizio, non può non essere onorato. Lo detta chiaramente quel sentimento della vita, dell’onore e del sacro che è alla base dell’Idea del mondo”. Dal punto di vista ideologico, la questione è più complessa e interessante. Risulta impossibile dogmatizzare il suo pensiero.
Guevara nasce da una famiglia borghese da cui riceve una formazione cattolica. Il suo stare dalla parte degli ultimi e dei diseredati risentì anche di questa educazione. Il suo nemico principale era il capitalismo predatorio, il culto del denaro e la mercificazione di ogni aspetto della vita. Quando si sostiene che Guevara fosse un comunista è necessario chiarire che il suo era semmai un socialismo sudamericano nazional-popolare che univa patriottismo e giustizia sociale, ed in cui è del tutto assente il materialismo storico e dialettico. Il suo fu quindi un socialismo nazionale, umanista e idealista che contrapponeva ai fattori economici e sociali la costruzione di un “uomo nuovo” i cui valori erano l’amor di patria, il senso della comunità e lo spirito di sacrificio. Il suo percorso personale lo portò a mettere in dubbio tutti i dogmi del marxismo-leninismo in quanto il motore della storia non era più la lotta di classe ma l’uomo, che egli concepiva in modo certamente diverso dai comunisti ortodossi.[5] Guevara pensava, a differenza dei marxisti, che l’avanguardia rivoluzionaria non fosse il partito e la classe operaia, ma l’esercito ribelle, l’élite combattente e guerriera, che rappresentava così la coscienza del popolo. La sua concezione internazionalista era umanitaria, ecumenica, interclassista e quindi assolutamente estranea al marxismo leninismo e al pensiero di Mao, ed è mutuata da Martí, il quale: “….era nato, aveva sofferto ed era morto per l’ideale che noi adesso stiamo realizzando, e non solo: Martí fu il mentore della nostra rivoluzione, l’uomo alla cui parola è stato sempre necessario ricorrere per interpretare giustamente i fenomeni storici che stavamo vivendo, l’uomo alla cui parola e al cui esempio bisognava rifarsi ogni volta che nella nostra pratica si voleva dire o fare qualcosa di importante”.[6] Inoltre il ‘Che‘ riteneva che non era sufficiente una equa distribuzione delle ricchezze ma era necessaria una pianificazione centralizzata fondata su criteri sociali, politici ed etici, una morale rivoluzionaria, una educazione e un clima di alta tensione ideale capace di forgiare una nuova gioventù rivoluzionaria anti individualista e anti edonista, dimostrando così la sua presa di distanza dal «socialismo reale» e la ricerca di un’altra via. Pensava, insomma, che era necessaria una vera rivoluzione interiore, che esaltasse i valori più alti dell’uomo. Gli incentivi morali avevano quindi tanta importanza, se non di più, degli incentivi materiali. Una tale visione dell’uomo è in contrasto con il comunismo che mette al primo posto le dinamiche economiche e che è profondamente materialista. “La nostra missione – egli afferma – è quella di sviluppare l’uomo e ciò che di nobile vi è in ciascuno”.[7] Stessa concezione, d’altra parte, l’aveva anche Josè Antonio, secondo cui «la Falange spagnola non può considerare la vita come una mera serie di fattori economici. Non accetta l’interpretazione materialista della storia. Lo spirituale è stato ed è la molla decisiva nella vita degli uomini e dei popoli». Per José Antonio il «movimento falangista … deve avere un carattere e un senso ascetico, poetico e militare”. Il programma politico della Falange spagnola prevedeva, nel contesto di una forma corporativista dello Stato, la riforma agraria con la distribuzione della terra ai contadini, la nazionalizzazione delle banche e del credito, la nazionalizzazione delle grandi industrie e il sostegno alla piccola industria artigianale e familiare. Non rigettava il socialismo, reazione naturale alle ingiustizie del capitalismo, ma ne negava l’interpretazione materialista dell’uomo, della vita e della storia e il suo internazionalismo. Scrive Massimo Fini: “Perché ci piaceva tanto, perché ci piaceva più di tutti? Perché il “Che”, con i suoi ideali, con il suo agire totalmente disinteressato, nobilitava e mascherava alcune inconfessabili pulsioni della mia generazione: la voglia di violenza, la voglia di guerra. La nostra, infatti, era la prima generazione che non aveva fatto la guerra, che non l’aveva nemmeno vissuta. Era la prima generazione per la quale la guerra, a causa della bomba atomica, era diventata il tabù supremo, il male assoluto, l’innominabile. Ma noi, come tutti i giovani, amavamo la violenza, rimpiangevamo la guerra, anche se non potevamo dirlo nemmeno a noi stessi. E il “Che” legittimava se non la guerra perlomeno la guerriglia, se non le armi almeno i bastoni e i cubetti di porfido. Se avesse incontrato nella sinistra extraparlamentare Ernesto “Che” Guevara sarebbe piaciuto molto meno a quella ortodossa. I comunisti rimproveravano a Guevara una certa vaghezza ideologica (mi ricordo in proposito degli sprezzanti giudizi di Giorgio Amendola) e, soprattutto, il fatto che avesse abbandonato un potere che aveva appena conquistato. Al positivismo marxista la romantica rinuncia di Guevara pareva inconcepibile, blasfema, un segno di debolezza di carattere, senza contare poi che Guevara, con il suo passare da una rivoluzione all’altra, sembrava incarnare troppo da vicino quella “rivoluzione permanente” teorizzata da Trotzskij. E Trotzskij allora era tabù per i comunisti che, nonostante il rapporto Kruscev del ’56, rimanevano profondamente, intimamente stalinisti. Insomma, ai comunisti ortodossi Guevara non piaceva proprio per quei motivi per cui noi lo amavamo”.[8]Non è quindi un caso se non tardò molto a rompere i suoi rapporti con l’Unione Sovietica. I motivi furono molti. In primo luogo, la delusione per il ritiro dei missili da Cuba durante la crisi dei primi anni ’60. In secondo luogo, egli riteneva che il sistema sovietico fosse inefficiente, pieno di sprechi e di burocrazia. In terzo luogo, riteneva che quel sistema portasse all’alienazione dell’uomo e del lavoratore (“Da molto tempo l’uomo cerca di liberarsi dall’alienazione per mezzo della cultura e l’arte. Egli muore ogni giorno durante le otto e più ore in cui agisce come merce, per poi risuscitare nella sua creazione spirituale”)[9]. Infine, durante un discorso in Algeria nel 1965, sostenne che l’Unione Sovietica si comportava come i paesi capitalisti sfruttando i popoli più poveri e sottosviluppati. “Se l’internazionalismo proletario guidasse gli atti dei governi di ogni paese socialista (…) sarebbe un successo. Ma l’internazionalismo è sostituito dallo sciovinismo (della grande potenza o del piccolo paese) o la sottomissione all’Urss (…). Questo distrugge i sogni onesti dei comunisti del mondo». Il viaggio di Fidel in Unione Sovietica, nel 1963, e il suo accordo con Krusciov per trasformare Cuba nello zuccherificio del mondo comunista fu un colpo mortale per i piani industriali ed economici del “Che”, il quale voleva far uscire Cuba dalla monocoltura dello zucchero in quanto si rischiava di perpetuare la dipendenza da un paese straniero, anche se era l’Urss e non più gli Usa. In una lettera del 1965 ad Armando Hart (ministro cubano della cultura), critica duramente il «conformismo ideologico» che a Cuba si manifesta nella pubblicazione di manuali sovietici per l’insegnamento del marxismo: “Non ti lasciano pensare: il Partito l’ha già fatto al tuo posto e tu devi solo digerire la lezione». Nelle “Note critiche” al “Manuale d’economia politica dell’Accademia delle scienze dell’Urss” aveva già elaborato una critica dello stalinismo: “Il terribile crimine storico di Stalin fu l’aver disprezzato l’educazione comunista e istituito il culto illimitato dell’autorità”. Ormai deluso dall’Unione Sovietica e dal suo dogmatismo ideologico rilancia il primato della politica. Guevara si indigna per le ingiustizie in America Latina, combatte contro l’imperialismo capitalista e americano, procede all’esproprio delle società straniere, vuole una riforma agraria che ripartisca la terra fra i contadini (con la riforma del ’59 il governo rivoluzionario cubano nazionalizza tutti i possedimenti agricoli di estensione superiore ai 400 ettari), crede nella guida delle aristocrazie guerriere, punta a una rivoluzione morale e vuole con l’indipendenza economica raggiungere la libertà politica, evocando gli stessi valori dell’ autarchia fascista. Questi elementi spiegano perchè il “Che” abbia riscosso successo e ammirazione anche “a destra”, visto i tanti punti originali del suo socialismo nazionale. Superficialmente era di “sinistra”, ma in un senso più ampio era un esteta e un combattente, più che al proletario di Marx si avvicina a D’Annunzio, Lord Byron o al super uomo di Nietzsche. Fu un avventuriero, un idealista e un solitario. Scrive in una lettera ai suoi genitori: “Molti mi diranno un avventuriero, e lo sono; solo che di un tipo diverso, di quelli che rischiano la pelle per dimostrare le proprie verità”[10]. Nel 1955 si unì a Castro “per un vincolo di romantica simpatia e la considerazione che valeva la pena morire su una spiaggia straniera per un ideale così puro[11].” Non era certo un pacifista, amava guerra e armi, unico strumento con cui combattere il Potere, non certo chiacchere, riunioni, partiti politici o sindacati e libere elezioni. È stato più un rivoluzionario sociale che ideologico, nel comunismo ha trovato uno strumento politico per la sua sete di giustizia sociale ma per molti aspetti ne è stato un eretico per il suo idealismo. Fu un sacerdote laico della rivoluzione che ha combattuto in nome di una visione del mondo in una logica tutta evoliana per cui “la vera patria sta nell’idea“. Incarnò un socialismo retorico e patriottico il cui famoso slogan fu “patria o muerte”. Senza necessariamente aderire al suo impianto ideologico, è difficile non sentire la giustezza della lotta di liberazione dei popoli latino americani dall’oligarchia americana e capitalista e non ammirare la sua etica eroica. “Vogliamo un’Argentina socialmente giusta, economicamente libera e politicamente sovrana[12]», diceva Peròn. E sembra di sentire Guevara. Comunque la si pensi, la peggiore mancanza di rispetto nei suoi confronti è il proliferare di gadget e magliette con la sua effige, l’aver commercializzato la sua immagine e averne fatto un prodotto di mercato di quel capitalismo che ha sempre combattuto fino a morire. Guevara ha diagnosticato bene le problematiche dell’America Latina, anche se forse non tutte le soluzioni proposte erano adeguate in quanto non arrivò a comprendere il valore della Tradizione. La morte prematura lo ha forse fortunatamente sottratto dalle responsabilità del potere e della sua utopia, del suo sogno applicato alla realtà. Come per Josè Antonio e Codreanu, la morte gli ha dato gloria e vita eterna, l’ha reso immortale. “Il suo destino, a differenza di quello di molti suoi contemporanei, era quello di morire come avrebbe voluto e di vivere la vita che aveva sognato”[13].
BIBLIOGRAFIA ORIENTATIVA
ANDREA VIRGA, CUBA. DIO, PATRIA E SOCIALISMO, NOVAEUROPA EDIZIONI, 2017
ERNESTO GUEVARA, I DIARI DELLA MOTOCICLETTA, MONDADORI, 2021
JEAN CAU, UNA PASSIONE PER IL CHE, VALLECCHI, 2003
JUAN DOMINGO PERON, L’ORA DEI POPOLI, IL BORGHESE, 2013
GEORGE CASTANEDA, COMPANERO, MONDADORI, 1999
FEDERICO GOGLIO, PATRIA O MUERTE. CASTRO, GUEVARA E LE ORIGINI NAZIONALISTE DELLA RIVOLUZIONE, RITTER, 2014
MARIO LA FERLA, L’ALTRO “CHE”. ERNESTO GUEVARA MITO E SIMBOLO DELLA DESTRA MILITANTE, STAMPA ALTERNATIVA, 2008
NOTE
[1] José Luis Alcázar. Ñacahuasu, la Guerrilla del Che en Bolivia.
[2] Cau Jean, Una passione per il Che, Vallecchi, Firenze, 2004
[3] J. Cau, Una passione per il Che, Vallecchi, Firenze, 2004
[4] Bolzoni A., El Che Guevara. Vita e morte del vagabondo della rivoluzione, Trevi, 1967
[5] In un intervento all’Onu, nel dicembre ’64, afferma: `” La mia storia di rivoluzionario è breve: comincia realmente sul `Granma’ (il battello su cui erano imbarcati gli 82 rivoluzionari che vanno a liberare Cuba dalla dittatura di Batista) e continua tuttora. Non ho mai appartenuto al partito comunista fino ad oggi che sto a Cuba”
[6] Guevara, Apologia di Martí, 28 gennaio 1960 in Scritti, discorsi e diari di guerriglia, Einaudi Editore, p. 747
[7] Guevara, Curiamo i feriti, in Scritti, discorsi e diari di guerriglia, Einaudi editore 29 aprile 1962, p.112
[8] M. Fini, Il Che, ultimo mito del ’68, 26 ottobre 2018
[9] Guevara, Il socialismo e l’uomo a Cuba, marzo ’65, in Scritti, discorsi e diari di guerriglia, Einaudi editore, p. 716
[10] Guevara, Lettera ai genitori, 1° aprile 1965, in Scritti, discorsi e diari di guerriglia, Einaudi editore, p. 1455
[11] Guevara, La guerriglia a Cuba, 4 dicembre ’59 in Scritti, discorsi e diari di guerriglia, Einaudi editore, p.10
[12] I 20 punti del “Manifesto del Partido justicialista” furono enunziati nel 1950 da Perón.
[13] J.G. Castañeda, Compañero, Vita e morte di Ernesto Che Guevara, Mondadori, Milano, 1997, p.426


