4 Dicembre 2024
Storia

Dalla “Dottrina” di Monroe ai “Quattordici Punti” di Wilson – Michele Rallo

Le origini dell’interventismo americano

negli affari europei

 

Correva l’anno 1823 quando James Monroe, 5° Presidente degli Stati Uniti d’America, enunciava la “dottrina” che da lui prenderà il nome (in realtà dovuta al suo ministro degli esteri John Adams). Secondo tale dottrina, gli Stati Uniti rivendicavano la piena supremazia sulle Americhe del Nord e del Sud, intimando alle potenze europee di non intervenire in quel’«emisfero», eccezion fatta per i territori coloniali che ancòra appartenessero loro. In realtà, poi, sarà tollerata soltanto la presenza dei cugini inglesi (dal Canada alle Malvine), mentre le altre potenze coloniali (Francia, Spagna, Portogallo) saranno direttamente o indirettamente estromesse dai loro possedimenti.

In ogni caso, all’epoca tutti erano concordi nel ritenere che la dottrina di Monroe fosse sostanzialmente una proposta di spartizione del mondo: l’America agli americani, e – come logico corollario – l’Europa agli europei. Libertà d’azione nel resto del mondo, pur con qualche binario preferenziale: l’Asia Orientale e il Pacifico per gli Stati Uniti, l’Asia Occidentale e l’Africa per le potenze europee.

Si andava avanti così per qualche decennio: il tempo necessario agli statunitensi per sbarazzarsi di alcune fastidiose presenze, soprattutto ai confini. Ultimo episodio: la guerra ispano-americana del 1898, al termine della quale gli Stati Uniti acquisivano Cuba (ufficialmente “indipendente”), il Portorico e – in Asia – le Filippine e l’isola di Guam.

Espulsa così la Spagna dal continente americano, si aveva per un momento l’impressione che USA e potenze europee si arroccassero nelle rispettive sfere d’influenza. Ma era soltanto un’impressione – appunto – perché già da qualche anno (dopo l’assassinio di Lincoln nel 1865) gli ambienti della City londinese avevano cominciato a tessere la tela di un’intesa transoceanica che accomunasse gli Stati Uniti e il Regno Unito con i suoi Dominions: cementando così, dietro il paravento di un’alleanza etnica, gli interessi finanziari e mercantili del blocco anglosassone. Alcuni anni più tardi, il sudafricano (bianco) Jan Smuts battezzerà questo blocco “federazione britannica delle nazioni” e ne esalterà la funzione antieuropea: «Tenete presente che, dopo tutto, l’Europa non è così grande e non continuerà ad apparir tale in avvenire. (…) Non è l’Europa soltanto che dobbiamo prendere in considerazione, ma anche l’avvenire di quella grande confederazione di Stati alla quale noi tutti apparteniamo.»[1]

Il progetto di blocco anglosassone faceva un deciso passo avanti con le elezioni presidenziali del novembre 1912, quando il Partito Repubblicano – dominante fin dai tempi di Lincoln – si spaccava e presentava due forti candidature contrapposte (il presidente uscente William Taft e l’ex presidente Theodore Roosevelt), consentendo così all’outsider democratico Thomas Woodrow Wilson di essere eletto.

Wilson si insediava nel marzo 1913 e poneva subito mano ad un vasto programma di “riforme”, apparentemente positive. In realtà, tutta la sua frenetica attività riformista aveva come traguardo la privatizzazione del sistema bancario, allineando in tal modo gli USA al modello finanziario che dominava la politica inglese. Nel dicembre 1913 nasceva così la Federal Reserve, banca “centrale” che stava agli Stati Uniti d’America come la Bank of England dei Rotschild stava – fin dal 1694 – alla Gran Bretagna: entrambe possedute da soggetti privati, ed entrambe titolari del diritto esclusivo di battere la moneta nazionale e di prestarla ai rispettivi governi.

Con l’elezione di Wilson, dunque, il mondo degli affari e della finanza abbandonava il Partito Repubblicano e si collegava – strettamente – al Partito Democratico. E quel mondo scalpitava, smaniava per varcare i confini, per collegarsi con altri affaristi e con altri finanzieri, per espandersi ben al di là delle frontiere disegnate dalla dottrina di Monroe. Era una forma nuova di colonialismo, un colonialismo economico; che però non contendeva ai soci inglesi i tradizionali domìni afroasiatici, ma puntava piuttosto sul “mercato” più ricco, quello dell’Europa. Con una connotazione particolare: mentre il colonialismo europeo si rivolgeva verso paesi arretrati e quasi sempre privi di una compiuta struttura statale, il neo-colonialismo americano pretendeva di imporsi a paesi altamente civilizzati e sviluppati, paesi da cui erano partiti i coloni che avevano costruito gli Stati Uniti d’America. Erano i figli, arricchiti, che si rivoltavano contro i padri.

Naturalmente, non essendo le nazioni europee disposte a farsi colonizzare col sorriso sulle labbra, occorreva attendere l’occasione propizia per intervenire nel Vecchio Continente, per gettare sul piatto della bilancia il peso della potenza americana: potenza industriale e militare, ma soprattutto economica. E l’occasione si presentava presto: il 28 giugno 1914 avveniva l’attentato di Sarajevo, e un mese più tardi era sparato il primo colpo di cannone di quella che sarebbe diventata poi la Grande Guerra, la prima guerra mondiale.

Malgrado nella sua componente etnica maggioritaria (l’anglosassone) fosse naturalmente portata a simpatizzare con i cugini britannici, la popolazione americana non si discostava dal suo tradizionale atteggiamento verso gli affari europei: un isolazionismo “storico” profondamente radicato, che in tempo di guerra si traduceva in un neutralismo assoluto, tale da rasentare l’indifferenza.

Viceversa, gli ambienti finanziari, industriali e mercantili erano legati mani e piedi con i corrispondenti britannici, che rifornivano con continue, massicce spedizioni via mare. Il loro preciso interesse era non soltanto la vittoria di Londra, ma anche – in prospettiva – la penetrazione nei mercati europei, che solo quella vittoria avrebbe potuto propiziare.

Il presidente Wilson, almeno ufficialmente, sembrava saldamente attestato su posizioni non-interventiste. In realtà, era più che favorevole ad un intervento americano nella guerra europea. Aveva tuttavia le mani legate dalle nuove elezioni presidenziali, che si avvicinavano rapidamente. Stante il neutralismo viscerale dell’elettorato statunitense, poteva essere rieletto solamente se avesse dato l’impressione o, meglio, la certezza di mantenere gli Stati Uniti lontani dalla guerra europea.

Anche dopo aver ottenuto la rielezione (novembre 1916) Wilson non poteva mutare di una virgola la sua linea diplomatica: gli americani continuavano ad essere contrarissimi ad ogni pur remota ipotesi di intervento, e il Presidente non poteva certo procedere nella direzione opposta.

Ci pensavano i tedeschi, tuttavia, ad offrire su un piatto d’argento la scusa che avrebbe consentito a Woodrow Wilson di decidere l’intervento. Con l’aumentare dei rifornimenti dell’industria statunitense all’Inghilterra, infatti, aumentavano anche i siluramenti del naviglio mercantile americano, con relative perdite umane. I tedeschi avrebbero potuto ottenere il medesimo risultato fermando le navi americane e, magari, sequestrandole. Invece, preferivano silurare e colare a picco i natanti. Non si rendevano conto (e non se ne renderanno conto neanche durante la seconda guerra mondiale) che i comportamenti brutali provocano la riprovazione e l’ostilità generale, ancorché tali comportamenti fossero stati determinati da “provocazioni” del nemico.

Il casus belli si aveva il 19 marzo 1917, con l’affondamento del cargo “Vigilantia” con tutto il suo equipaggio. L’indignazione dell’opinione pubblica statunitense era fortissima, e Woodrow Wilson poteva così chiedere al Congresso di votare l’entrata in guerra degli Stati Uniti. Cosa che avveniva il 6 aprile.

La strada per conquistare la “libertà dei commerci” era finalmente aperta. Bisognava però rassicurare gli europei (amici, nemici e neutrali), convincerli che l’invio delle armate americane nel Vecchio Continente non celava alcun proposito colonialista, ma era soltanto frutto di generosità, di propensione alla beneficenza su scala planetaria. Ecco, perciò, il ricorso ad un alibi ideologico: non per sete di potere gli USA mandavano i loro soldati oltreatlantico, ma per difendere la democrazia; non per trarne vantaggi economici, ma per liberare le popolazioni. [Refrain poi ossessivamente ripetuto in tutte le guerre americane, dal secondo conflitto mondiale alla distruzione della Libia.]

Wilson tracciava per sé stesso il profilo moralistico di un grande capo che portava la sua nazione alla guerra non già per biechi motivi di cassetta, bensì per difendere i più alti ideali di libertà, di democrazia, di giustizia, di progresso, di prosperità, di pace tra le nazioni e di autodeterminazione dei popoli. Da qui, la necessità di ideologizzare la scelta bellicista, dipingendola come un intervento per riparare i torti imposti alle nazioni dai “cattivi” di turno, quasi come la trasposizione di un film “western” su tutta intera la scena mondiale.

Il Presidente era bravissimo nell’ammantare di nobili ideali una scelta chiaramente utilitarista. Coniava alcuni slogan di sicuro impatto – «la guerra per por fine alle guerre» o ancòra «rendere sicuro il mondo per la democrazia» – e si spingeva fino a tratteggiare un panorama idilliaco per il dopoguerra: «né annessioni, né contribuzioni, né indennità di guerra».[2] Non avverrà nulla di tutto questo. Anzi, le annessioni, le contribuzioni e le indennità di guerra – applicate in modo spropositato a pro di Londra, Parigi e rispettivi clientes – contribuiranno in modo decisivo a rendere insicuro il mondo per la democrazia ed a preparare il terreno per lo scoppio di nuove guerre. E ciò, con l’aggravante di un atteggiamento che varierà stridentemente da soggetto a soggetto: costringendo – per esempio – l’Italia a rinunziare a Fiume, e consentendo nel contempo alla Francia di mutilare impietosamente la Germania, o all’Inghilterra di tentare di cancellare la Turchia dalla carta geografica. Il tutto, coronato da una robusta pennellata di sussiego e di spocchia da nuovo ricco, da novello padrone del mondo che detta benignamente ai sudditi le regole di una civile convivenza.

Tutto ciò era compreso e condensato in un vero e proprio manifesto ideologico dell’interventismo statunitense, passato alla storia come «I Quattordici Punti di Wilson». Era un “messaggio al Congresso” con cui il Presidente tentava di indorare la pillola dell’intervento; intervento che – malgrado l’imbecille comportamento tedesco avesse indignato gli americani – continuava a suscitare dubbi e perplessità, sia nell’opinione pubblica nazionale che in molti settori del Congresso. Ma i Quattordici Punti – al tempo stesso – erano anche una sorta di messaggio alle cancellerie del mondo intero, per fissare fin dall’inizio quelli che erano i dettami della pax americana, cui tutti – vincitori e vinti – avrebbero dovuto uniformarsi.

Il pistolotto iniziale era un esercizio di inventiva giustificazionista dell’intervento, basato interamente sulle affermazioni di principio (bugiarde) di cui si è già detto: «Noi siamo entrati in questa guerra perché si erano prodotte delle violazioni del diritto che ci toccavano nel vivo e che rendevano impossibile la vita del nostro popolo, a meno che non fossero sanate ed il mondo non fosse una volta per tutte posto al riparo dal pericolo di un loro ritorno. Ciò che noi esigiamo da questa guerra non è dunque nulla di particolare per noi stessi. Ciò che noi vogliamo è che il mondo divenga un luogo sicuro ove tutti possano vivere, un luogo possibile per tutte le nazioni desiderose di pace, per tutte le nazioni che desiderino vivere liberamente la propria vita, decidere le proprie istituzioni, essere certe d’esser trattate con giustizia e lealtà dalle altre nazioni, invece di essere esposte alle violenze e alle aggressioni. Tutti i popoli del mondo sono in effetti solidali in questo supremo interesse; e per quanto ci riguarda noi vediamo chiarissimamente che, se la giustizia non è resa agli altri, non potrà essere resa a noi stessi. Il nostro programma è dunque il programma della pace nel mondo.»

Ma, quando si passava a dettagliare «il programma della pace nel mondo», ecco che dalle enunciazioni fumose si passava a concreti e arroganti diktat, che prefiguravano il futuro che a Washington (e a Londra) era stato stabilito per le singole nazioni europee. Con l’avvertenza che quel programma era «il solo programma possibile».

All’Italia era dedicato il punto 9: «Deve essere attuata una revisione dei confini dell’Italia, sulla base della facilmente riconoscibile frontiera etnografica.» Più tardi vedremo come «la facilmente riconoscibile frontiera etnografica» fosse, in realtà, il meccanismo che doveva impedire il raggiungimento dei nostri obiettivi, lasciando migliaia e migliaia di nostri connazionali sotto la sovranità jugoslava.

Ma, al di là dell’arroganza con cui si fissava il destino dei singoli paesi europei, ad essere particolarmente significativo era un punto di carattere generale, il numero 3: «Soppressione, fino al limite estremo del possibile, di tutte le barriere economiche, e creazione di condizioni di parità nei riguardi degli scambi commerciali fra tutti i paesi che aderiranno alla pace e si uniranno per il mantenimento di essa.»[3]

Il solo programma possibile per la pace del mondo, dunque, era l’abolizione delle barriere economiche, dei “muri” del Vecchio Continente, al solo scopo di favorire il dilagare della produzione e dei capitali americani in Europa. Era l’anticipazione di quella che, un secolo più tardi, si sarebbe chiamata “globalizzazione”.

 

NOTE

[1] Jan Christian SMUTS:  La Federazione Britannica delle Nazioni. Discorso del generale Smuts tenuto a Londra il 15 maggio 1917.  Istituto Italo-Britannico, Roma, 1917.

[2] Thomas Woodrow WILSON:  Le Président Wilson, la guerre, la paix. Recueil des déclarations du Président des Etats-Unis d’Amérique sur la guerre et la paix. 20 décembre 1916 – 6 avril 1918.  Librairie Berger-Levrault, Parigi, 1918.

[3] WILSON:  Le Président Wilson, la guerre, la paix.  Cit.

 

Liberamente tratto dalla rubrica ‘Rievocazioni’ del mensile di Trapani ‘La Risacca’ pubblicato nel dicembre 2017

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