11 Dicembre 2024
Appunti di Storia

Aspettando la rivoluzione: Venezia, estate del 1922 – parte prima – Giacinto Reale

 

L’alta borghesia dimostra una completa cecità di fronte al fenomeno fascista… Fino ad oggi l’alta borghesia si aggrappava a noi, non per simpatia o per convinzione, ma solo per interesse e per paura del bolscevismo… Dico a questa massa di imbecilli… da quando in qua abbiamo detto a questa gretta, tirchia, frolla e leggera borghesia di essere i suoi difensori?

(Piero Marsich, articolo del 9 ottobre 1921)

 

Ha termine un singolare fenomeno di fascismo rivoluzionario: i “Cavalieri della morte”

 

Si può ben dire che il Fascio veneziano viene informalmente costituito ai primi di marzo del 1919, con l’adesione – comunicata su “Il Gazzettino” – di alcuni elementi di parte “nazionale” alle iniziative mussoliniane, anche se solo dopo la riunione del 23, a San Sepolcro, avrà il suo riconoscimento ufficiale da Milano.

Pure qui ex combattenti, Arditi e studenti formano il nucleo intorno al quale gli altri si agglomerano, e ad emergere è, da subito, Pietro Marsich, avvocato, interventista (non “intervenuto”, però, perché giudicato inidoneo al servizio militare, e ne nasceranno polemiche), che conosce anche d’Annunzio.

Sarà grazie a lui che il Fascio lagunare sarà il più dannunziano d’Italia (anche più di quello triestino), con concrete e diverse iniziative. Per esempio, nella fase preparatoria e iniziale, i 15-20 Legionari che arrivano in città giornalmente riceveranno una specie di diaria di 20 lire, almeno finchè non si aprirà un ufficio di rappresentanza della reggenza del Carnaro, e saranno ospitati e aiutati in ogni modo (soprattutto i non pochi inseguiti da mandati di cattura “politici”). Tra essi, un giovanotto già ben noto, ma destinato a crescere di fama, il Capitano degli Arditi, decorato di medaglia d’argento, futurista, presente a San Sepolcro, Mario Carli:

A Venezia mi fermai quattro giorni, nella speranza di poter partire con qualche piroscafo che facesse rotta verso Fiume. L’attesa fu inutile, perché proprio in quei giorni non ci furono partenze.

Nella città del sogno non mi sentivo troppo sicuro (Carli è inseguito da mandato di arresto ndr). L’arcipelago di calli, campi, campielli, salizzade e fondamenta era troppo ristretto e pettegolino perché non ci fosse qualcuno che cominciasse a familiarizzare con la mia faccia e il mio costume strano.

Così trasformato, sostituiti gli occhiali con un monocolo, io passeggiai per Venezia e sgondolai per la laguna, finchè la sera del 4 ottobre, un Ufficiale degli Arditi, Umberto Craighero, mi convinse a partire per Ancona, dove quasi certamente avremmo trovato un MAS pronto a portarci a Fiume. (1)

 

Anche in segno di riconoscenza per quanto fatto, nella prima metà del 1920 giungeranno da Fiume le armi per equipaggiare le squadre cittadine, che così potranno darsi una prima organizzazione permanente, fino ad allora mancante:

Non esisteva ancora, in seno al Fascio, un’organizzazione militare. Nei momenti di maggiore pericolo i fascisti si raccoglievano come potevano, improvvisando gruppi armati quasi esclusivamente di manganello. Quando, nel secondo semestre del 1920, la lotta diventò più dura, ed i conflitti più numerosi, ebbe inizio una prima organizzazione di squadre d’azione, senza nome fisso, ma distinte fra loro da lettere alfabetiche… Le prime squadre permanenti saranno la “Serenissima”, la “Disperata”, l’“Audace” e l’ “Ardita” con un effettivo di circa 20 squadristi ciascuna. (2)

È così che si arriva alla giornata del 22 luglio del 1920, vero battesimo del fuoco dello squadrismo veneziano. Il ricordo di un diciottenne che c’era resterà indelebile:

A Venezia, dopo aver lanciato una sfida ai fascisti veneziani, dichiarando loro che a Venezia il comunismo regna e regnerà sovrano, un numeroso corteo parte dalla Camera del Lavoro a Santa Margherita, ed al canto degli inni antinazionali giunge in piazza San Marco.

I fascisti che, raccolta la sfida, hanno deciso di non tollerare la provocazione e di non permettere mai più che la piazza San Marco, tanto sublime per le sue memorie e la sua bellezza, sia contaminata dai senza-Patria, si sono radunati in un piccolo ma compatto gruppo vicino al caffè Florian. I sovversivi, forti della loro predominanza numerica, con un drappo rosso in testa, avanzano verso i fascisti, che, immobili e silenziosi, attendono l’urto.

La distanza tra gli avversari è quasi annullata, quando, al grido di “A noi!”, gli squadristi si gettano sul nemico. La lotta è furibonda, echeggiano i primi colpi di rivoltella, sembra che i pochi fascisti non siano in grado di sostenere l’urto enorme, quando un rombo secco, metallico, con mille fischi laceranti echeggia sinistramente.

È stata lanciata dai fascisti, che stavano per essere sopraffatti, una bomba, e l’effetto è immediato. In un baleno la folla sovversiva è scomparsa, e sulla piazza rimane, padrone del campo, lo sparuto gruppo di squadristi, sanguinanti per le ferite, ma lieti per la vittoria. (3)

Episodio che, in scala infinitamente minore, non può non ricordare quello del 15 aprile dell’anno precedente a Milano, quando alcune centinaia di Arditi, futuristi e studenti attesero in piazza Duomo, e poi fugarono, un corteo socialista di varie migliaia di scioperanti che, con quella marcia sul centro cittadino volevano segnare il loro incontrastabile successo.

Anche a Venezia, da quel 22 luglio in poi, il Fascio rappresenterà una realtà con la quale la politica locale dovrà fare i conti. È un Fascio che, però, presenta delle caratteristiche sue proprie, diversificanti rispetto agli altri.

Balbo a Venezia

Innanzitutto il fondatore e capo, Pietro Marsich che, contrariamente alla maggioranza dei fascisti “della prima ora” non è né un sindacalista rivoluzionario, né un nazionalista, né un nuovo arrivato alla politica. Infatti, la sua famiglia, che è di origine dalmata, ha una forte caratterizzazione etico-politica, in senso patriottico e insurrezionale, ed egli inizia a mettersi in luce in un gruppo democratico-radicale. Manifesta anche delle asprezze caratteriali, all’ombra di una ferma intransigenza ideale e politica (pure se non è un capo-squadrista, come Farinacci e Balbo), che, nel 1922, lo porteranno ad allontanarsi dal fascismo, Il suo carattere distintivo è, piuttosto il fortissimo legame di affetto, ricambiato, con Gabriele d’Annunzio, del quale darà ripetuta prova.

È pure per questo che il Fascio di Venezia, quando, in occasione del “Natale di sangue”, arriverà in città la notizia della morte del Poeta, deciderà una iniziativa unica nel suo genere:

Nel massimo segreto, con un solo voto contrario, quello del Segretario Lanfranchi, è deciso che un gruppo di fascisti, scelti tra i più audaci e devoti alla causa fiumana, parta per Roma, e ivi, anche con il sacrificio della propria vita, faccia giustizia dei principali responsabili della morte del Comandante.

Delibera inoltre che a Venezia le squadre d’azione svolgano con la massima risolutezza atti di rivolta che potranno, in certo qual modo, aiutare l’azione del Legionari e precisa che il Comandante delle squadre, Capitano Bucca, debba al più presto tentare di sorpresa l’occupazione della Prefettura e di altri uffici pubblici. (4)

Non se ne farà niente, per le rassicuranti notizie giunte frattanto da Fiume, ma l’agitazione in città è tanta. In prima fila alcuni dei fondatori del Fascio, tra i quali una speciale menzione merita, sia pure per motivi di mera curiosità, Eugenio Genero, callista e poeta dialettale, nonno materno del noto disegnatore Hugo Pratt che lo immortalerà in una tavola del romanzo a fumetti “Corte Sconta detta Arcana”, con alcuni versi della sua poesia “Venezia mia”.

La stessa composizione del Fascio (studenti, ex combattenti, piccolo-borghesi e operai dei cantieri) fa sì che esso assuma una connotazione tipicamente cittadina, con forti tinte filo proletarie, non sia influenzato da alcuna tentazione di avvicinamento agli agrari, e si dimostri alieno dal prendere iniziative antileghiste nelle campagne.

Il fascismo veneziano del 1919 affonda perciò le sue radici in quella sinistra democratica, formata dalla “nuova” piccola borghesia cittadina, che abbiamo visto attivizzarsi alla fine dei blocchi popolari e nella mobilitazione interventista. Diciamo quindi che il primo fascismo veneziano nasce a sinistra… anche quando fu organizzato con squadre armate il controllo sull’applicazione dei calmieri, la ragione principale fu contrastare le “Guardie Rosse” che operavano con lo stesso obiettivo.

Sarebbe tuttavia errato concludere che il fascio del 1919 era già strumento della reazione padronale; l’orientamento antisocialista va sempre ricondotto all’interno degli sviluppi e delle scelte maturate prima e dopo la guerra, dalla piccola borghesia democratica che, nelle vicende dei primi mesi di pace trovò ulteriori motivi di risentimento. (5)

È questa una considerazione di carattere squisitamente politico, che, anche per la originalità della situazione che descrive, va tenuta nel giusto conto per valutare la successiva storia del Fascio lagunare.

Su un piano più strettamente “operativo”, si deve aggiungere che i primi squadristi veneziani adottano, nelle trasferte fuori città, metodiche diverse dal resto d’Italia. Niente rombanti – ancorchè malmessi – 18BL, incursioni rapide e altrettanto rapidi rientri. Essi si muovono, invece, il più delle volte in treno, e, una volta giunti a destinazione prendono contatti con i loro camerati locali per lo svolgimento soprattutto di attività (in genere poco cruente) di propaganda, che culminano nella sfilata per le vie del paese.

Regola è anche il pernottamento in loco, preceduto da una cena “sociale”, che “rinsalda ancor più i legami di solidarietà all’interno delle squadre, favorendone la capacità d’urto”.

Si può ben dire che il clima generale è ben diverso da quello delle –peraltro rare- “spedizioni in treno” della irrequieta Toscana:

Se le partenze avvenivano in treno, allora i fascisti diventavano la “gioia” dei viaggiatori. Perché, il più delle volte, non tardava ad echeggiare lo squillo assordante del campanello d’allarme, e il treno si fermava in piena campagna, per qualche scaramuccia con gli avversari e relativo scambio di cortesie.

Altre volte i ferrovieri, troppo delicati per non turbare i viaggiatori della loro presenza, se ne andavano pei fatti loro, ed allora i fascisti intervenivano, per invitarli cortesemente a rimanere. E quasi sempre imparavano a loro spese, poveri ferrovieri, che nella vita è meglio non usare certe “attenzioni”.

Nell’andata vi era la delizia dei preparativi con abbondanza di pronostici, più o meno ottimisti. I quali preparativi erano del pacifico viaggiatore bastevoli per conoscere le attrattive e le sorprese d’un vero viaggio d’avventure. Non mancava mai la lite con il sovversivo racimolato nel fondo di qualche scompartimento, con il lettore troppo assiduo di giornali “infetti”

Il ritorno, poi, era ancora più movimentato… (6)

 

In tema di trasporti, infine, va notato come assolutamente originale, perché imposto dalla configurazione geografica cittadina, sia l’uso di tipiche gondole e “sandali”:

Ma che notte… attraversammo piazza San Marco chiamandoci per nome, per non sperderci.

Io andavo avanti, sentivo un freddo dentro le ossa che mi faceva fremere ad ogni passo. Pensavo che non era molto facile giungere a buon porto con quel tempo. Avevo voglia di scaldarmi, fremevo al pensiero che quanto prima avrei potuto dare sfogo alla mia bile contro i rossi che per poco l’altra sera non ci stendevano per calle del carbone.

Vi era il sandalo che ci attendeva. Giggi il gondoliere fischiava, per avvertirci che era là ad aspettare da un bel pezzo. Quando ci fummo messi a sedere e ci staccammo dall’imbarcadero, Giggi domandò chi era che aveva il comando della spedizione, e quando seppe che ero io:

“Siete voi, signor Roberto… ho sentito che ci spiano, sarebbe meglio cambiare itinerario e giungere a Malamocco, anzichè da Canal Grande…” (7)

Sono comunque animosi e coraggiosi i primi fascisti veneziani, quanto i loro camerati nel resto d’Italia, in un contesto però non paragonabile a quello delle regioni più “calde”. Passaggio fondamentale è, anche qui, la conquista della piazza, che inizia con le contromobilitazioni in coincidenza con i cortei avversari, fino ad allora, dominatori incontrastati in città.

Non siamo al fuoco fermo che, a Firenze e altrove, echeggia non di rado nelle strade del centro, ma, il più delle volte, si tratta di risse furibonde, spesso concluse con il “lancio a mare” dell’avversario catturato. Prova ne sia che, per esempio, in occasione degli incidenti occorsi in coincidenza con il Concorso ginnico internazionale tra la fine di maggio e l’inizio di giugno del 1920, essenziale si rivelerà l’aiuto fornito ai fascisti dai ginnasti, specie quelli dalmati, che si riveleranno formidabili cazzottatori. Una ulteriore dimostrazione del fatto che si tratta di scontri essenzialmente “fisici” e sostanzialmente senz’armi.

Quando, con il passare del tempo, la situazione diventerà più incandescente e più forte sarà la voglia di non cedere alla prepotenza avversaria, sarà gradito il ricorso all’aiuto di squadristi “più rodati”, provenienti da altrove. Da Ferrara, per esempio. Nella notte tra il 10 e l’11 aprile del 1921, dalla città estense partono una trentina di giovanotti per dar manforte ai veneziani, in occasione dello sciopero generale. Al loro arrivo, però, lo sciopero è stato revocato, e allora gli ospiti, guidati dallo stesso Italo Balbo, si industriano come meglio possono per passare il tempo in attesa del treno del rientro:

La voglia di menare le mani però era ormai tanta, e quando si seppe che i socialisti avevano imbandierato di rosso la statua di Garibaldi, decisero che la bandiera andava tolta. Appena giunti in via Garibaldi, i fascisti vennero fatti segno di spari da alcune finestre, mentre di fronte a loro si parava un gruppo di Guardie Regie.

“Si udirono parecchi colpi di arma da fuoco continua Pederiali (è uno dei presenti, che racconta ndr)ma la maggior parte di essi era sparato dalle Guardie Regie per tenere dietro alle finestre persone che si sporgevano sparando, tirando giù pietre, vasi o altro”.

Alla fine, la bandiera venne conquistata e portata in piazza San Marco.

“Qui Balbo fece un discorso, appena terminato il quale, ripartimmo per la stazione. Non avevamo avuto né perdite, né feriti e nemmeno l’altra parte ne aveva avuti” (8)

 

Anche in questo caso, tutto si risolve senza né morti né feriti. Non è azzardato ipotizzare che i fascisti veneziani – i più giovani soprattutto – si trovino in uno stato d’animo simile a quello che Giuseppe Bottai, anni dopo, ricorderà per i loro camerati romani:

Spesso, anzi, il paragone con le altre province li tormentava, l’induceva ad assurdi confronti: e pareva loro di non esser degni degli esempi che ci venivano specie dalle regioni del Nord, dalla Valle Padana e dalla contigua Toscana. Avrebbero dato corpo ai fantasmi, pur di inventarselo un comunismo da combattere con le stesse armi e lo stesso ardore di sacrificio di quei loro compagni. (9)

 

A risolvere la situazione, il 15 giugno del 1921, arriva da Udine, dove è Segretario del Fascio, il Capitano degli Arditi Gino Covre, designato ad assumere il comando delle squadre veneziane.

È lui il personaggio al centro della storia che stiamo per narrare.

 

FOTO 1: Balbo a Venezia

FOTO 2: prime riunioni del fascio veneziano

 

NOTE

  1. Mario Carli, Con d’Annunzio a Fiume, ristampa Milano 2013, pag. 60
  2. Mario Marchiori Pezzato, Cronache della vigilia rivoluzionaria nella provincia di Venezia, in: Panorami di realizzazione del fascismo, vol. IV-1, Il movimento delle squadre nell’Italia settentrionale, Roma 1942, pag. 466
  3. Raffaele A. Vicentini, Il movimento fascista veneto attraverso il diario di uno squadrista, Venezia 1935, pag. 56
  4. Ibidem, pag. 88
  5. Francesco Piva, Lotte contadine e origini del fascismo, Padova-Venezia 1919-22, Venezia 1977, pag. 136
  6. Emilio Papasogli, Fascismo, Firenze 1923, pag. 108
  7. Aurelio Maria Pizzo, Rivoluzione, squadrismo in cammino, Roma 1932, pag. 43
  8. Giordano Bruno Guerri, Italo Balbo, Milano 1984, pag. 81
  9. Prefazione a: Domenico Mario Leva, Cronache del fascismo romano, Roma 1943, pag. XIV

 

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