5 Ottobre 2024
Arte Pittura

Ardengo Soffici. A cura di Emanuele Casalena

(Rignano sull’Arno 1879 – Vittoria Apuana 1964)

 

Lacerba fu rivista eretica nel panorama nazionale, già il titolo dava la stura al pensar dei ribelli, quando comparve a Firenze nel gennaio del 1913. L’Acerba era stato un poema allegorico di tal Cecco d’Ascoli ( Francesco Stàbili) scritto nel XIII sec. in aperta polemica con “le favole”( così le chiamava) della Divina Commedia di Dante Alighieri e in difesa dell’astrologia. Cecco fu infatti astrologo erudito e praticante con un occhio alla sapienza araba, ma per il suo esoterismo pseudo scientifico, finì arso vivo a Firenze nel 1327 con l’accusa d’eresia senza aver potuto ultimare la sua fatica lirica, rimasta al V libro, fu vittima indiretta del guelfo bianco fiorentino. Anche Lacerba era in odor d’eresia, Papini aveva abbracciato la Teosofia secondo gli insegnamenti teorico-pratici di R.Steiner che si estendevano, in particolare, all’universo artistico, ma aveva afferrato la seconda anima della nuova fede, quella ferocemente antiborghese. A Firenze proprio il duo Soffici-Papini si mise alla guida del movimento  almeno indirettamente, entrambi valutavano in positivo il suo diffondersi letto come “un ritorno di bisogni spirituali e religiosi” contro l’impero del male del positivismo materialista. Già “Il Leonardo”, al quale collaborarono, era il mormorio intellettuale del ruscello teosofico in Italia al pari del gruppo le Giubbe Rosse, in entrambi si coltivava una ricerca dell’esoterismo cristiano coniugato al neoplatonismo del Rinascimento.

Torniamo a noi, i redattori della pubblicazione gigliata, nata da una costola della “Voce”, erano Ardengo Soffici, Giovanni Papini, Aldo Palazzeschi, Italo Tavolato ai quali si aggregheranno, con il loro contributo esplosivo,  i futuristi F.T. Marinetti, U. Boccioni, C.Carrà e L.Russolo. Ebbe vita breve Lacerba  spegnendosi il 22 maggio del ’15, due giorni prima  dell’entrata in guerra dell’Italia e la partenza al fronte di redattori e collaboratori, ma in quell’infanzia viva fu una delle riviste più importanti del panorama europeo al pari della tedesca “Der Sturm” o della francese “ Les Soirées de Paris”.

Soffici e Papini volevano una casa con le finestre spalancate perché l’aria rarefatta dell’Italietta giolittiana, fosse investita da nuove idee sia interne che portate dal vento dell’Europa, ossigeno per costruire una cultura dirompente contro il mammolismo borghese. Una fucina di libertà espressiva da scodellare nel piatto con l’apporto dei grandi della letteratura e dell’arte internazionale da G. Apollinaire a Max Jacob a H. Des Pruraux, Rémy de Gourmont, C.Nevinson, Hélène d’Oettingen ed altri. Si riproducevano  disegni e dipinti di Soffici, Boccioni, Carrà, Cézanne, Picasso, Archipenko, Férat, Rosai, Severini, Sant’Elia, un mantra di artisti d’avanguardia sconosciuti ai più del muffo provincialismo, in rotta di collisione col bello e col ben fatto delle accademie ma anche col rassicurante romanticismo degli svenevoli sentimenti. Lacerba era una due cavalli, Soffici & Papini scalatori dell’albero della libertà del quale gustavano e donavano frutti della lirica e dell’arte figurativa, scrutando tra i  suoi folti rami nuovi orizzonti, ma soprattutto facendosi alpinisti della ricerca di valori assoluti dello spirito contro la materia.

Copertina del 1° N. di Lacerba datato 1 gennaio 1913

 

Si dice che entrambi si recassero alle sedute del pittore mago argentino Alejandro Shulz Solari (Xul Solar) studioso di glossopoiesi, linguaggi artificiali, che influenzò non poco  la loro produzione artistica e letteraria. A. Soffici, in proposito, scrisse per Lacerba un testo, Raggio, denso di principi teosofici, riproposto in seguito sulla rivista Ultra con il titolo di  La teosofia nel futurismo. L’ingresso dei futuristi idolatri dell’ultra moderno, assassini del chiaro di luna e della Nike di Samotracia in virtù dell’apologia del nuovo mito, la velocità della macchina, parve un assurdo, ma ciò che fondeva le due anime era l’accesa rivolta antiborghese in nome della tradizione spirituale o del violento rinnovamento ma anche dall’acceso interesse comune verso le dottrine dell’esoterismo, non importavano le differenze, avanti tutta contro il quieto vivere d’una società impostata sul monoteismo del denaro. Certo questi due spiritacci dissidenti entreranno in conflitto dopo un acceso confronto tra recupero, non accademiuco, della tradizione e dinamismo iconoclasta verso il passato, fino alla scomunica marnettiana del ’14. Resterà terra comune il forte interventismo contro il governo dei vili, con l’apertura del primo conflitto mondiale, Lacerba sposterà i suoi articoli soprattutto sui temi bollenti della politica e del patriottismo insurrezionale perché l’Italia accettasse la sfida della Storia chiudendo finalmente il cerchio del suo Risorgimento.

Ardengo era nel mezzo del cammin di nostra vita, e di strada ne aveva fatta tanta dalle campagne della piccola frazione rurale  di Bombone nel Comune di Rignano sull’Arno dov’era nato. Una famiglia di agricoltori benestanti, implosa nella povertà a ragion del padre Giovanni, preso dal fascino vanesio di trasferirsi a Fireze nel 1893, delapidando, in poco tempo, tutti i suoi averi e morendo di lì a poco A quell’adolescente, appassionato fin da bambino d’ arte, toccò di mollare gli studi per guadagnarsi di che vivere come “giovane di studio” presso un noto avvocato fiorentino ma senza soffocare, nelle angustie del pane quotidiano, la sua vocazione naturale. Occorreva temperare la tecnica per acquisire poi competenze nel dipingere, per questo si iscrisse all’Accademia di Belle Arti fiorentina  frequentando la  Scuola libera di Nudo  avendo per maestri Giovanni Fattori e Telemaco Signorini. Ma la cosa importante fu legarsi d’amicizia col gruppo di giovani artisti frequentatori del caffè Gambrinus quali l’emiliano spritualista Giovanni Costetti, il futuro secessionista Armando Spadini, lo scenografo Umberto Brunelleschi, Giovanni Graziosi col quale condivise lo studio di via degli Orti Oricellari, il postmacchiaiolo Cesare Vinzio. Non solo colori però ma anche interessi letterari cullati, da autodidatta a sera, leggendo autori francesi come Flaubert, Baudelaire, Verlaine o il maledetto Rimbaud, moschettieri del naturalismo d’Oltralpe, tanto divorati da creargli il desiderio di recarsi in Francia dal novembre 1900 con gli amici Costetti e Brunelleschi. Furono sette anni duri per mettere companatico nelle baguettes disegnando illustrazioni anche umoristiche per riviste francesi, però Parigi valeva ben una messa in quel ribollir di idee, ricerche, sperimentazioni in rapida sequenza dall’Impressionismo agli albori delle grandi avanguardie. A scuola del Louvre, dei musei e delle gallerie d’arte il bagaglio di Ardengo si riempiva di osservazioni, spunti, riflessioni che arricchiranno la sua vena di critico d’arte di ritorno sull’Arno. Aveva conosciuto il pot-pourri dei pennelli parigini da P. Cézanne, suo nume di riferimento, al Picasso e Braque del cubismo analitico, a Max Jacob, al fauve Matisse, al poeta G. Apollinaire fino ai “greci” A. De Chirico e suo fratello A.Savinio e tanti altri artisti, letterati, poeti, giornalisti.

La versatilità dei suoi interessi lo spinse a misurarsi su vari campi di battaglia, non solo mostre dei suoi dipinti, già a Parigi,  ma anche testi di critica d’arte, poesia, traduzioni ( vedi Kierkegaard e il maledetto Rimbaud), saggi, elzeviri caustici, ecc. Un corredo di tuoni e fiamme che lo vedrà protagonista nella vita culturale fiorentina dalle pagine de La Voce di Prezzolini poi dell’autonoma Lacerba e dopo il conflitto mondiale sui fogli del mussoliniano Popolo d’Italia.

Parlando di uomini e donne d’ingegno italiani dei primi anni del secolo breve ci viene alla mente la parola fermenti, in senso figurato, per cogliere lo stato d’inquietudine per la volontà di innovazione in ogni campo,  uno spirito ribelle, testardo nel cercare una via nazionale nelle arti come nelle scienze, partendo dalla spalla salda della tradizione ma proteso  a costruire un ponte tra questa e il mondo fluido moderno.

Soffici fu in questo un’acuta vedetta oltre che attore protagonista con le sue pere, a lui si deve la scoperta di geni nell’arte altrimenti sconosciuti ai gretti cultori della “bella pittura”, basti ricordare la prima mostra italiana degli Impressionisti, da lui curata a Firenze nel 1910. Ecco, scoprir geni era un’altra sua vocazione perché diceva “ E’ forse meno difficile essere un genio che trovare chi sia capace di accorgersene”, così l’Italia parruccona conobbe, attraverso i suoi saggi, artisti del calibro di Degas, Cézanne, Picasso, Braque , Medardo Rosso, Fattori e movimenti quali l’Impressinismo, il Cubismo, i Macchiaioli. Fu questo il suo apporto culturale a La Voce al suo ritorno dopo la crisi del settimo anno con l’amante Parigi. La rivista fondata, nel 1908, da G. Prezzolini promuoveva il rinnovamento socio-culturale della fresca Patria assai indietro nei tempi per riforme e innovazioni rispetto all’orizzonte europeo. Vi convivevano sementi diverse poste su un terreno comune, viscerale  l’antipositivismo da combattere con l’idealismo, lo spiritualismo laico, l’irrazionalismo, il misticismo esoterico e quant’altro pur d’annientare il bieco materialismo borghese. Soffici svolgeva il ruolo di critico d’arte avendo sulle spalle anni di aprendistato nella cultura effervescente della Ville Lumière, a quel tempo centro del mondo. Famosa la sua stroncatura delle biennali d’arte veneziane del 1909-1910 definite “cimitero dell’arte e della pittura italiana” perché avulse da ogni rinnovamento o sperimentazione, totalmente slegate dal panorama internazionale.  Idem andò giù duro contro la mostra milanese dei futuristi del 1911, tanto aspre le sue critiche da procurargli qualche sganassone da parte di Boccioni, Marinetti e Carrà, con relativa rappresaglia dei vociani a Firenze, salvo riappacificarsi col movimento ai tempi di Lacerba grazie alla mediazione del poeta futurista Aldo Palazzeschi. Sono di questi anni suoi scritti Ignoto toscano, opera prima di un Ardengo autobiografico, Arlecchino,bozzetti di un mondo oltre il tempo e la storia, L’Impressionismo, del ’15 il Giornale di bordo e BIF§ZF+18 Simultaneità e Chimismi lirici di sperimentazione poetica in chiave futurista.

Ma la bomba futurista aveva illuminato l’aria non solo in Italia, impossibile non fare i conti con l’unica grande avanguardia prodotta dalla nostra Patria, essere o divenire, questo il dilemma vissuto dagli intellettuali nostrani, il bulldozer di Marinetti & C. travolgeva tutto, dissodava terre brulle coperte di brina, scagliava lontano cumuli di luoghi comuni, aprendo un’autostrada da costruire con feroce volontà di cambiamento. Così anche Soffici cadde in tentazione organizzando, tra l’altro, la prima mostra futurista a Firenze nel 1913 presentando lui stesso diverse sue composizioni.

 

   

                       

Ardengo Soffici, Composizione, 1913

                            

A. Soffici, nature morte encrier, 1913

C’è molto Picasso con retrogusto di Cézanne, simultaneità dei piani, scomposizione degli oggetti, spicchi di giornale senza i papiers collés, manca il dinamismo della lezione boccioniana, l’anticlassicismo del tempo che scorre con la velocità dei soggetti, perché Soffici è troppo ancorato alla sua Toscana, quella della grande esposizione fiorentina del 1896 dedicata all’Arte e ai Fiori dove incontrò, quindicenne, oltre alla Primavera di Botticelli il realismo di Bonnat e il genio di un suo maestro Telemaco Signorini presente con L’Angelo della vita, ne restò fulminato, quella pittura simbolista gli ricordava il georgico Millet suo pittore preferito. In fondo Ardengo era un foscoliano con radici profonde nella poetica della sua Toscana,  vocato al recupero del grande Quattrocento, nonostante la sua febbre alta per tutte le avanguardie   Dalla pittura ricca di germi francesi, dall’Impressionismo al poker Degas, Cézanne, Böcklin, Puvis de Chavannes, s’era ora infilato il basco di Picasso inforcando il cavallo di Boccioni, quella sua stagione possiamo definirla cubo-futurista.

Ardengo Soffici, Il bagno, olio su tela, 1905, collezione privata

In questa grande tela, Il bagno, unica superstite di una serie realizzata per il grand Hotel delle terme di Roncegno, vediamo tre giovani bagnanti, tema assai caro a Cèzanne, Puvis de Chavannes e Renoir, ed una mamma intenta ad immergere il figlioletto in una pozza. L’ambiente naturale ci appare simile ad un cartone per una scenografia all’aperto, realizzato a campiture ampie, sicure, attento a creare prospettiva partendo dal particolare dei fiori, in primo piano, per scemare pian piano fino ai monti azzurri del fondo. I soggetti non interagiscono, ciascuno intento  al suo daffare ma la costruzione delle figure ci rimanda ad esempio al neofita del Battesimo di Cristo di Piero della Francesca ( la donna al centro del dipinto) e  Fanciulle in riva al mare di Pierre Puvis de Chavannes ( La ragazza di spalle). La Francia donava al giovane bohémienne toscano i suoi frutti compreso il sintetismo del papà dell’arte contemoranea Paul Cézanne acuto, solitario, indagatore dell’essenza delle forme partendo dalla semplice quotidianità per arrivare al  principio “classico” della geometria e delle proporzioni madri d’ogni cosa.  Il nostro ripercorre anche soggetti cari al maestro di Aix-en-Provence, dai paesaggi alle nature morte o a quei giocatori di carte in un bistrot di paese dopo una giornata di lavoro. Quelli di Soffici sono contadini, seduti al tavolo d’ un’osteria, con lunghe pipe nella bocca intenti a vincere una partita a briscola con accanto un fiasco di buon vino per annaffiarsi la gola. E’ un fotogramma che indaga sulla vita minuta a tratti rapidi, essenziali, entrando dritto nel fatto, la bocca dell’uomo sullo sfondo accenna una smorfia, ha messo giù la carta, azzarda, quello di fianco cala un 6, presa o attesa, chissà? Pur nel silenzio quasi metafisico quell’attimo insignificante si fa opera d’arte, fissa fuori del tempo l’esserci di quel momento oltre la storia di ciascuno, perchè la bellezza arcana della vita si manifesta 24 h al giorno ed è un eroe chi riesce a viverle con gioia e curiosità ben al di là delle costruzioni dei teoreti. Il naturalismo era già per lui il grande insegnamento lasciatoci dalla la civiltà mediterranea, il pozzo dal quale attingere acqua per dissetare la propria ricerca del vero, non quello astratto, ma quello che s’incarna in ogni tessera della vita.

 

Piero della Francesca, Il Battesimo di Cristo, 1440-50

        

Pierre Puvis de Chavannes, fanciulle in riva al mare,1879

 

 

Finalmente l’Italia entra in guerra contro il virus letale della Kultur germanica, l’interventismo ha vinto la sua battaglia, Ardengo lascia la sua casa studio di Poggio a Caiano e parte volontario come quei briganti di futuristi, si batte in armi con ardore rimediando due ferite da schioppettate, una medaglia al valore per il suo coraggio alla Bainsizza e purtroppo, da ufficiale, conosce Caporetto. Nascono da quelle esperienze di trincea i suoi diari-testimonianza Kobilec-Giornale di guerra del 1918 e Ritirata nel Friuli sulla disfatta di Cadorna pubblicato nel 1919, anno del suo matrimonio con Maria. La nuova famiglia vive nella casa di mamma Egle dove i Soffici s’erano spostati dopo la morte di papà Giovanni,  nel piccolo comune rurale di Poggio a Caiano che tra l’altro ha dedicato all’artista un museo nelle exscuderie medicee di Villa Ambra. Maria darà al sor Ardengo tre figli, Valeria, Laura e Sergio, il paese invece gli offrirà gli squarci dei suoi pesaggi campestri riportandolo, dopo i fumi avanguardisti, alla pittura toscana ch’era nelle sue radic1.

Ardengo Soffici, I giocatori di carte, olio su cartone, 1909

Ma Zarathustra guardò, meravigliando il popolo. Poi disse:

    «L’uomo è una corda, tesa tra il bruto e il superuomo, — una corda

 tesa su di una voragine.

    Pericoloso l’andar da una parte all’altra, pericoloso il trovarsi a mezza

strada, pericoloso il guardar a sé, Pericoloso il tremare, pericoloso

l’arrestarsi.

Ciò che è grande nell’uomo, è l’essere egli un ponte e non già una

meta: ciò che è da pregiare nell’uomo, è l’essere egli una transizione ed

una distruzione.

(da Così parlò Zarathustra di F. Nietzsche)

Crediamo di cogliere nel segno a dire che Ardengo Soffici fu un ponte tra la cultura europea e la tradizione italiana, tra innovazione e recupero sapiente della cultura autoctona, lui ha costruito senza ondivagare ma andando dritto in avanti e questo spiega la sua continuità politica da irredentista a fervente fascista fino all’adesione alla RSI.

Quest’uomo elegante, alto, sottile, affilato nel parlare, acuto, già nel ’19 si schiera senza indugi dalla parte del Mussolini rivoluzionario, scrive sul Popolo d’Italia e cura la terza pagina del Corriere della Sera, sembra, in apparenza, contraddirsi, da una posizione aperta alla cultura internazionale ora spinge a viva forza verso uno Stile nazionale. L’artista non vive in opposizione al mondo ma ora respira col suo mondo, perché? ”Il Fascismo non è né reazione né sovvertimento, ma ritrovamento, attraverso la rivoluzione, della ragion d’essere e dell’ordine propri del popolo italiano”. Ritorno alla latinità di contro alla cultura germanica della Riforma, al cattolicesimo che è verità universale in opposizione al nihilismo soggettivista in salsa romantica, modernista, scettico-relativista.  Occorreva ricucire l’unità spirituale di un popolo contro il materialismo di bottega dandogli un comune modus vivendi et pensandi cioè uno Stile che non poteva prescindere dalla grande tradizione classica. Lo Stile è unità e universalità, superamento della meccanica classista e campanilista, recupero dei valori immutabili della civiltà greco-romana e del cattolicesimo che solo il popolo italiano ha nel suo DNA.

Questo percorso di pensiero Ardengo l’aveva già iniziato scrivendo su La Voce e Lacerba, spirito contro materia o meglio materialismo, vita piena contro sopravvivenza borghese, arte come filo indispensabile a cucire etica con estetica, nessuna frattura dunque ma continuità appunto. Finalmente con il Fascismo era possibile rendere vero il reale in tutte le sue manifestazioni, politiche, economiche, artistiche, militari, sociali in stretta interdipendenza unitaria, inverando storicamente quanto auspicato da Dante, Petrarca, Machiavelli, Oriani.

Nel ’23 Soffici scende a Roma, vi resterà un anno, per imbarcarsi nell’edizione del quotidiano Nuovo Paese, testata di orientamento fascista da distinguersi da Paese di sponda comunista chiusa nel ’22, ma anche il Nuovo durerà poco più di un anno. Quel giornale avea da essere il laboratorio di una erigenda torre del pensiero della neonata rivoluzione, d’altronde Soffici non era uno squadrista da camionetta e tortore come Gallian, era un maître à penser, uno stroncatore al limite del dileggio dell’arte cerebrale, non contestualizzata nello scorrere fluido della storia d’ un popolo, in questo sulle stesse posizioni di Mario Sironi. L’esperienza romana lasciò l’amarezza e Ardengo se ne tornò alla sua Poggio a Caiano ma sempre in armi con la sua penna ed il pennello. Nel 1919 aveva già pubblicato un saggio sull’arte “Scoperte e massacri, Scritti sull’arte” titolo poi di una mostra retrospettiva a lui dedicata dagli Uffizi di Firenze nel 2016, proprio per la sua opera di tranchant (acuto e tagliente) critico d’arte.

Il 21 aprile 1925 la sua firma compare sul Manifesto degli intellettuali fascisti assieme ad altre 249 perché “Il Fascismo è un movimento recente ed antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della Nazione italiana […] un’idea in cui l’individuo possa trovare la sua ragione di vita, la sua libertà e ogni suo diritto; idea che è Patria, come ideale che si viene realizzando storicamente senza mai esaurirsi, tradizione storica determinata e individuata di civiltà ma tradizione che nella coscienza del cittadino, lungi dal restare morta memoria del passato, si fa personalità consapevole di un fine da attuare, tradizione perciò e missione […]” Sintesi perciò Stile, ecco la continuità del ponte di Ardengo che proietta la razza italiana sulla prua della nave. Quel ”genio” di Margherita Sarfatti l’ aveva acchiappato nella sua tela, aderisce al programma del gruppo Novecento pour le rappel a l’ordre esponendo sia alla I mostra del movimento nel 1926 che alla seconda e poi fino a Buenos Aires nel ‘30. Messo da parte il Futurismo, Soffici riscopre l’armonia della composizione coi colori e le parole, dipinge paesaggi, nature morte, scrive nel ’28 Periplo dell’arte- Richiamo all’ordine 47 articoli sull’arte da quella classica al fascismo. Espone alle Biennali veneziane del 1934 e 1936, riceve il premio Mussolini dell’Accademia d’Italia per la pittura nel ‘32, questo Don Chisciotte ingenuo del suo Lemmonio Borreo (1912) continua a costruire il suo viadotto fra tradizione aulica e presente con una fede messianica nel fascismo.

C’erano i fascisti che sognavano la rivoluzione permanente come Viani (anche lui toscanaccio), Berto Ricci, Bombacci, Galan, Maccari, Sironi, Ugo Spirito, i razionalisti del MIR e i “regimisti” votati alla solidificazione del sistema, alla retorica dell’Impero purtroppo luogo comune delle dittature nel quale ripipolava il virus borghese, lui era coi primi.

Anche Soffici soffrì questo iato dopo i fasti dell’Etiopia, ma restò comunque saldo al porto della rivoluzione incompiuta appoggiando persino la promulgazione delle leggi razziali del ’38, quella sì una contraddizione contro la sua giusta avversione alla Kultur germanica, dimostratasi decisamente nefasta, nello stesso anno pubblicò una sua raccolta di liriche Marsia e Apollo, duello tra il sileno impertinente e il dio dell’armonia delle arti.

Poiché non si può stare da una parte e dall’altra e quando si scende in campo, giusto o sbagliato che sia, in armi o con le fionde, comunque bisogna battersi fino al gong senza arrendersi, Soffici sposò la guerra italo-tedesca contro il resto del mondo anche dopo l’8 settembre del ’43, finis Patriae, dando la sua adesione, non militare, alla Repubblica di Salò sottolineando il carattere social-rivoluzionario dei punti di Verona assieme a Barna Occhini ( papà della famosa attrice Ilaria e genero di Papini). A fucili spenti entrambi furono reclusi, come collaborazionisti, nel campo di concentramento di Collescipoli nei pressi di Terni, da dove uscirono, dopo il processo, per insufficienza di prove.

Tornato nella sua Poggio nel’46, riprenderà a scrivere di arte ed a firmare paesaggi e nature morte con quel metodo che tratta parole e colori con lo sperimentalismo di G. Apollinaire e la sapienza del gesto di Cézanne.

Un riconoscimento nella Repubblica nata dalla Resistenza, al fine gli venne consegnato, fu il premio Marzotto del’55 per il testo autobiografico “Autoritratto di artista italiano nel quadro del suo tempo” un filo d’Arianna delle sue esperienze letterario-artistiche con uno sfondo di amarena per uno che, comunque, era caduto in piedi, con la schiena ben diritta. Nel ’64 passò il limitar della sua vita dalla realtà, mosaico delle piccole cose, al sogno della loro unità inseguendo quello Stile italiano.

Ardengo Soffici, Case aPoggio, olio su cartone, 1963

 

Emanuele Casalena

Bibliografia

Alessandro Del Puppo, “Lacerba” 1913-1915, Bergamo: Lubrina Editore, 304 pp, 2000.Mimmo Cangiano, L’estetica del reale. Ardengo Soffici e il Fascismocome”Stile”in “Italianistica”, n. 3, 2016, pp. 27-43.

Federico Giannini, Recensione della mostra “Scoperte e massacri. Ardengo Soffici e le avanguardie a Firenze”, agli Uffizi. Scritta il 20/12/2016 e pubblicata su Finestre dell’Arte.

  1. Raimondi – L. Cavallo, Ardengo Soffici, Firenze, Nuovedizioni Enrico Vallecchi, 1967.

Giuseppe Antonio Camerino, «SOFFICI, Ardengo». In: Enciclopedia Italiana Treccani – IV Appendice, 1981. Soffici 1907/2007. Cento anni dal ritorno in Italia, catalogo della mostra di Poggio a Caiano a cura di L. Cavallo, Prato, Claudio Martini Editore, 2007.

Vincenzo Trione, Dentro le cose: Ardengo Soffici critico d’arte, Ed. Bollati Boringhieri, Collana Saggi. Arte e letteratura, 2001.

Wikipedia, l’enciclopedia libera, Ardengo Soffici.

 

 

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