Nel Nono Cielo, o Primo Mobile, Dante vede dio come un “punto” luminosissimo ma estremamente piccolo, quasi fosse racchiuso da ciò che esso stesso racchiude (Pd XXX 12). Il punto geometrico infinitamente grande e infinitesimale era già presente in un passo delle Upanishad là dove si dice che il Brahman è l’”Uno, senza secondo” poiché l’Io profondo dell’uomo, l’Atman, è anch’esso identico al Brahman. “Questo Atman dentro il mio cuore è più piccolo di un grano di riso o di frumento, di un seme di senape o di un grano di miglio; e tuttavia questo Atman dentro il mio cuore è più grande della terra, più grande dello spazio atmosferico, più grande del cielo…Questo Atman dentro il mio cuore è il Brahman stesso” (Chāndogya Upanishad, 3-14).
Intorno al Punto dantesco ruotano nove cori angelici sotto forma di cerchi lucenti e concentrici: i cori superiori trasmettono la scienza agl’inferiori (Pd XIII 52-60), da qui l’esistenza di vari gradi di beatitudine soprannaturale (Pd XXVIII 37-39, 43-45, 70-78 e 100-102). Più vicini agli uomini, ovvero alla Terra, gli Angeli occupano il cerchio più distante dal Punto, il meno veloce e luminoso (Pd XXVIII 34-39 e 126), mentre i Serafini e i Cherubini ruotano velocissimi a causa della loro vicinanza all’amore di dio.
Tralasciando la lunga descrizione di Beatrice delle gerarchie celesti, appare chiaro che gli Angeli vedono e amano Dio con minore intensità rispetto alle Intelligenze angeliche che compongono gli otto cori superiori (Pd XXVIII 37-39, 43-45, 70-78). Bisognava arrivare in Paradiso per scoprire che non c’è niente di uguale nell’universo, neppure le Intelligenze superiori?
Da dove derivano le differenze è presto detto: durante la ribellione alcuni Angeli “furon modesti” e perciò meritarono subito la “grazia illuminante” mentre altri si schierarono dalla parte di Lucifero, colui che “fu nobil creato / più ch’altra creatura” (Pg XII 25-26), salvo poi ripensarci e fare marcia indietro. Quindi, le doti naturali di ciascuno non contano?
A quanto pare la Grazia santificante viene prima della Gloria ed è commisurata alla volontà di ottenerla: “ricever la grazia è meritorio / secondo che l’affetto l’è aperto” (Pd XXIX 65-66). Se i terrestri non hanno ancora ben chiaro questo semplice concetto la responsabilità è tutta del clero, che a furia di filosofeggiare confonde le idee dei fedeli. E quando i messaggi della Scrittura vengono distorti e travisati in spregio a tutto il sangue versato nel mondo (dai Catari?) per diffondere la Parola di dio, rivela Beatrice, il Paradiso s’indigna: “(…) quando è posposta / la divina Scrittura o quando è torta. / Non vi si pensa quanto sangue costa / seminarla nel mondo e quanto piace / chi umilmente con essa s’accosta” (Pd XXIX 89-93).
Nessuno s’illuda di riuscire a meritarsi il Paradiso affidandosi alle varie scuole filosofiche, che non esitano a divulgare insegnamenti contraddittori pur di sfoggiare la propria sapienza. Addirittura si è affermato (Tommaso d’Aquino) che durante la passione di Cristo la Luna oscurò il Sole con un’eclissi; ma è falso! Nemmeno dio può andare contro le eterne ed inalterabili leggi della natura. Senza contare che la passione avvenne durante la luna piena (pasquale), mentre le eclissi di sole si verificano nei periodi di luna nuova. “Un dice che la luna si ritorse / ne la passion di Cristo e s’interpuose, / per che ‘l lume del sol giù non si porse” (Pd XXIX 97-99).
In piena caccia all’eretico ci voleva un bel coraggio a scagliarsi contro le falsità divulgate dal clero per impaurire e manipolare l’uditorio. Purtroppo gli uomini sono dei creduloni, si rammarica Dante, nell’illusione del quieto vivere bevono qualsiasi frottola e intanto i frati dell’Ordine di sant’Antonio Abate ne approfittano per ingrassare i loro maiali (arricchirsi) mentre i colleghi smerciano indulgenze a scopo di lucro.
La metafora dei maiali non è casuale, come niente lo è in realtà nella Commedia. Uno dei trucchi escogitati dagli inquisitori per «scoprire» il disallineato di turno, spesso un cataro, consisteva nel chiedergli di uccidere un animale. I catari erano vegetariani, come lo era Pitagora, gli indù e tutti gli altri fratelli eurasiatici che credevano nella reincarnazione e per nessuna ragione al mondo avrebbero macchiato di sangue la propria Anima, perdendo così l’occasione di slegarsi dalla catena delle rinascite acquisita con il consolamentum. Piuttosto, morivano sul rogo.
Sulle abitudini alimentari di Dante nulla si sa, com’è logico che sia in un’epoca in cui le vicende personali di ciascuno non erano di pubblico dominio. L’unico cibo che sembra interessare al poeta è quello spirituale, il “pan degli angeli”, mentre la sola cosa che si vede mangiare dai suoi personaggi è la carne umana. Tuttavia qualche indizio trapela qua e là, come ad esempio quando Dante critica il cacciatore che «perde il suo tempo» andando a caccia di uccellini perché non sa che chi “ben” mangia mantiene la purezza del sangue e campa cent’anni. “Mentre che li occhi per la fronda verde / ficcava io sì come far suole / chi dietro a li uccellin sua vita perde …” (Pg XXIII 1-3).
Accanto a tanti dubbi vi sono anche alcune certezze. Una di queste riguarda la premialità sulla quale il poeta non transige, come aveva fatto capire subito all’Inferno, dove neppure i dèmoni erano tutti uguali ma qualcuno appariva più uguale di altri. In cielo vige la stessa logica gerarchica, se si escludono il positivo e il negativo, ovvero il fatto che essendo il primo regno un mondo capovolto la categoria diabolica corrispondente al coro angelico più alto sottoterra è la più bassa, cioè il regno del Principe delle Tenebre.
A seconda dei meriti acquisiti si può dunque essere diversamente Angeli, diversamente Diavoli e diversamente beati. Premesso che in Paradiso dio è ovunque ed è possibile pregarlo in e da qualsiasi luogo, appare chiaro che ogni punto luminoso (Spirito) graviti in una dimensione differente. Tutti “solo in lui [dio] vedere ha[nno] la [loro] pace” (Pd XXX 102) ma non tutti hanno assimilato completamente le direttive della legge naturale né godono in modo uguale la libertà di essere in dio.
Ora se la diversità è un fatto assodato nell’universo, non si capisce per quale motivo gli uomini dovrebbero essere tutti uguali. In questo senso e nel rispetto della Tradizione la visione del poeta si pone agli antipodi dell’ideologia omologante instaurata dall’umanità del XXI secolo, la più ignorante di sempre. L’ugualitarismo massificante è un’invenzione di sana pianta, non ci vuole un genio per capire che ogni essere vivente beneficia in misura variabile sia delle influenze celesti che indirizzano ciascuno al suo fine sia della generosità della Grazia divina che piove da nubi così alte che la nostra vista non può neppure avvicinarsi. “Non pur per ovra de le rote magne, / che drizzan ciascun seme ad alcun fine / secondo che le stelle son compagne, / ma per larghezza di grazie divine, / che sì alti vapori hanno a lor piova, / che nostre viste là non van vicine, / questi fu tal ne la sua vita nova / virtualmente, ch’ogne abito destro / fatto averebbe in lui mirabil prova” (Pg XXX 109-117).
Tanti giri di parole per dire che Dante è un privilegiato? Non solo; ma mentre noi divaghiamo nelle nuvole lo scenario in Paradiso è cambiato di nuovo: i cori angelici sono svaniti ricordando il sorgere dell’aurora sulla Terra che al levar del giorno spegne le stelle in cielo. Il poeta torna a fissare Beatrice, in procinto di riacquistare la sua essenza ultraterrena e perciò luminosa in modo indescrivibile. Ad attenderli c’è adesso il X Cielo, il regno della luce privo di consistenza fisica, dove si assisterà al pieno trionfo delle Intelligenze angeliche e dei beati.
Accecato da un lampo improvviso Dante viene informato da Beatrice che l’Empireo accoglie in questo modo l’anima che vi ascende al fine di predisporla alla visione di dio. Qui il tema del “trasumanar” assume i caratteri dell’esperienza mistica vera e propria in quando la Trinità irraggia la Luce che solo attraverso l’Amore può essere «veduta» da quella creatura che trova la sua pace nel vedere il Creatore. L’episodio ha un famoso precedente nella Bhagavad-Gītā (XI 53-54), dove Krishna dice ad Arjuna che non lo potrà vedere con lo studio dei Veda né con le penitenze bensì con la pura luce (il lampo) dell’Amore assoluto.
Resta inteso che per arrivare a godere della gloria della Luce è necessario avere molto vissuto, ovvero conosciuto la vita con tutti i suoi inganni e le sue cedevolezze. Si ascende solo dopo essere discesi. Il discorso non riguarda Dante che queste esperienze le ha già fatte tutte superando brillantemente le fiamme dell’Inferno e le pene del Purgatorio. Muto davanti alla «città di dio», ora si augura soltanto di trovare la forza necessaria a raccontare la grandezza di un tale trionfo.
Ispirato dalla folgorante essenzialità del contesto si porta avanti cominciando a scarnificare la sua poesia, ricorre cioè a metafore semplici come il fiume di luce che scorre tra due rive piene di fiori e faville, con gli Angeli paragonati a pietre preziose (rubini e topazi) che fanno la spola fra dio e i beati.
Beatrice gli fa presente che non c’è nulla di reale in ciò che vede, si tratta soltanto di anticipazioni velate (“umbriferi prefazi”) di una verità troppo grande per le capacità cognitive di un mortale. Dante smette allora di pensare, anche perché è rimasto senza parole. L’invito a bere dell’acqua del fiume celeste al fine di placare la sete di conoscenza contiene diverse analogie con il fiume d’acqua incontrato nella rigogliosa vegetazione del Paradiso Terrestre: laggiù la comparsa del nastro liquido aveva annunciato l’arrivo di Beatrice, quassù il nastro dorato ne segnerà la partenza.
Gradualmente il fiume di luce diventa un lago nelle cui acque i fiori e le faville si trasformano in modo da rendere più nitida la visione delle corti celesti (angeli e beati) disposte come i petali di una rosa in una specie d’immenso anfiteatro con un piano verticale e uno orizzontale. Le gradinate più basse emanano una luce abbagliante, in quelle più alte la luminosità è indescrivibile; ma poiché nel regno di dio le leggi naturali non sono valide, come già è stato detto a proposito del Primo Mobile, indipendentemente dalla distanza dal centro le figure sono tutte pregne di amore e carità, cioè “viso e amore avea tutto ad un segno” (Pd XXXI 27).
Il paragone del concilio dei beati con una rosa era piuttosto frequente nella letteratura del Due-Trecento europeo, ma l’immagine originaria della Rosa Mystica viene dal passato remoto dell’Eurasia. La corolla, ovvero il concilio dei beati, corrisponde al Fior di Loto della tradizione tantrica, cioè il sahasrāra chakra, il fiore dai mille petali, il fiore delle mille volte tanto. Mille è il numero simbolico che indica l’infinito e non a caso Dante distribuisce gli Angeli attorno al lago “in più di mille soglie” (Pd XXX 113-114). Più avanti “più di mille angeli festosi, con le ali spiegate” faranno festa a Maria, la cui bellezza scintilla negli occhi di tutti i beati (Pd XXXI 130-131).
Il bottone floreale, cioè il “giallo de la rosa sempiterna”, rappresenta il Centro. E’ un punto ideale che non appartiene allo spazio profano, geometrico, bensì allo spazio sacro dentro il quale può realizzarsi la comunicazione con le altre direzioni, il Sopra e il Sotto, il Destro e il Sinistro. Il Centro è il punto infinitesimale attraverso cui passa l’Asse Cosmico e dentro cui i livelli si rompono, perciò il mondo sensibile può essere trasceso e il Tempo sparisce.
Essendo riferito al corpo umano il simbolismo yoga pone il fiore del sahasrāra sopra la testa e lo definisce il chakra della corona. Come nelle scuole indù la meta del cammino spirituale si svolge nel microcosmo della propria persona, così in Dante il viaggio dalla Gerusalemme terrestre a quella celeste avviene “in me guardando” (Pd XXXIII 113).
Colui che conosce il Loto dai mille petali, viola o bianchi che siano, si libera dalla catena delle rinascite nell’arco della propria vita (letteralmente sahasrāra significa “liberato in vita”) e dunque, come scrive Guénon, perviene allo stato di jīvanmukta. Allo stesso modo Dante raggiunge la Conoscenza nell’arco di tre canti, dal XXX al XXXII, osservando la Rosa Mystica fino a «comprenderla veramente e pienamente». Si augura forse che questa sia la sua ultima vita?
Mentre i «petali» del fiore pian piano svaniscono la vista del poeta viene colpita da un nuovo bagliore. Brahman si capisce all’improvviso come un lampo, dicono i testi vedici (Kena Upanishad IV 4-5). Scivolata prima nella metafisica greca e poi nella mistica cristiana (san Paolo folgorato sulla via di Damasco), l’immagine del lampo-illuminazione-spirituale approda così nella Commedia di Dante, il quale, entrando in questa luce, capisce quanto la «vista» di cui avrà bisogno per fare da cronista dell’Aldilà sia qualcosa che oltrepassa i limiti umani (Pd XXX 55-60).
Senza il sostegno della Grazia, non potrà scrivere ciò che ha veduto. “O isplendor di Dio, per cu’ io vidi / l’alto triunfo del regno verace, / dammi virtù a dir com’io il vidi!” (Pd XXX, 97-99). Ma forse è arrivato il momento di chiedersi cosa sia questa benedetta «Grazia» che il poeta invoca in continuazione. Si tratta soltanto della “novella vista” necessaria a fotografare le immagini per poi riproporle a un pubblico? Se così fosse, la lunga e tortuosa strada percorsa nell’Oltremondo apparirebbe come uno sforzo spropositato.
Chiaramente la posta in gioco è molto più alta ed implica, oltre al dovere di cronaca, il riacquisto della vera libertà che consiste nel darsi da fare fino all’ultimo squarcio di bellezza. Dante è vivo, sa benissimo che il suo viaggio non finirà con la stesura del poema. Soddisfatta dei risultati ottenuti l’Angelo/Beatrice torna intanto sul suo scranno, nel terzo gradino a partire dall’alto, di nuovo incoronata da un’aureola che rifulge dei raggi divini (Pd XXXI 70-72).
Accanto al poeta nell’ultimo tratto di strada ci sarà Bernardo di Chiaravalle, che si presenta invitando il cercatore di libertà a staccare gli occhi dal basso e guardare in alto, verso la cima della Candida Rosa, in modo da ammirare la Regina del Cielo. Proprio alla Vergine il venerando santo rivolgerà la famosissima preghiera (canto XXXIII) volta ad ottenere l’ammissione del suo protetto alla visione di dio.
La comparsa di san Bernardo coincide con il ritorno di una vecchia conoscenza: il karma. Se persino i morti in fasce nella rosa sono “locati per gradi differenti”, chiede Dante, ha senso lavorare tanto per accrescere i propri meriti personali? Solo l’ipotesi della reincarnazione può rispondere a un simile dilemma e l’esempio proposto di Esaù e Giacobbe, diversissimi tra loro pur essendo gemelli, ne è la conferma. Il primo è “mal nato” mentre il secondo è “ben nato” in relazione ai meriti e demeriti acquisiti dall’Anima incarnata di ciascuno lungo la catena delle rinascite.
Mai mollare, dunque. Non si lavora solo per se stessi ma anche per chi verrà in futuro, dalla una buona ristrutturazione dell’Anima dipende il buon karma. Ma tutto questo ormai è ben chiaro nella mente di Dante, che non è più il pellegrino smarrito della settimana scorsa bensì una persona a tutto tondo. L’Amore sfavillante di Luce, cioè l’Intelligenza che “move il sol e l’altre stelle” (Pd XXXIII 145), lo ha cambiato da capo a piedi. Sperava di «indiarsi», cioè di entrare in dio, di diventare uno con dio, e alla fine c’è riuscito.
Ora sa che la libertà che “va cercando” si trova oltre l’Eden, al di là dell’albero del Bene e del Male, nella sfera luminosa dove le cose materiali non hanno più valore. Gli spiriti incontrati in Paradiso gli avevano detto che la beatitudine consiste nel “tenersi dentro a la divina voglia”, ma per lui il concetto era difficile da elaborare. Arriva a comprenderne il significato solo alla fine del poema, dopo avere sperimentato di persona la visione di dio che è “l’etterno piacere, al cui disio / ciascuna cosa qual ell’è diventa” (Pd XX 77-78).
Avvolti dalla luce di dio si diventa un tutt’uno con essa, è un fatto, ma non per questo ci si annienta. Semplicemente si finisce di desiderare qualsiasi altra cosa: “A quella luce cotal si diventa, / che volgersi da lei per altro aspetto / è impossibil che mai si consenta …” (Pd XXXIII 100-102). Al confronto, il decantato libero arbitrio (che comunque non viene da dio) appare un orpello costruito per appagare la vanità, una schiavitù che rende vittime di se stessi.
Possiamo solo immaginare le risate che un uomo tradizionale come Dante si sarebbe fatto davanti alla sbandierata «libertà» del XXI secolo, totalmente basata sul desiderio compulsivo del soggetto-consumatore e priva di una reale consistenza spirituale. Indubbiamente il cammino del poeta ha beneficiato di protettori speciali e di un talento senza uguali, elementi piuttosto rari da trovare in un colpo solo, ma questa non può essere la scusa per stare a guardare senza fare nulla. Oggi più che mai, anzi, la vera libertà (di mente e di cuore) va ricercata e possibilmente trovata nella capacità di «non desiderare» alcunché, che è l’opposto del «non avere nulla» e fingere di esserne felici.
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