“…E a pensare e muoversi secondo il volere di quest’ultimo con il quale è identificato e che crede essere se…
Alcune considerazioni filosofiche
“[…] tutta l’infelicità degli uomini viene da una sol cosa, e cioè dal non saper rimanere tranquilli in una camera.” (B. Pascal, Pensieri, Santarcangelo di Romagna, Rusconi, 2014, p.157)
I – Per una filosofica introduzione del Virus
Impressa come fosse un’epigrafe, riteniamo che la frase ivi in apertura propostavi sia efficiente per descrivere il momento – difficile e dal dubbio comfort – che, tutti nel Paese, nei mesi precedenti di clausura, abbiamo vissuto. Praticamente rinchiusi in quella che è la nostra umile dimora, abbiamo passato la maggior parte del tempo tentando di ammazzarlo in qualsiasi modo, anche il più semplice: siamo andati alla caccia di un purchessia divertissement, sempre rifacendoci al Blaise. C’è stato chi ha riscoperto il piacere della condivisione famigliare, chi ha approfittato del tempo libero per dedicarlo ad un’intima introspezione che sperava potesse essergli utile non appena sarebbe tutto finito, chi si dedicava a facezie videoludiche, chi, in modo ipocondriaco, misurava ogni ora la propria temperatura corporea e faceva una rassegna dei propri sintomi inesistenti1 e chi, come noi, ha tentato di riflettere filosoficamente circa quanto stava e sta tutt’ora accadendo.
“Prendiamola con Filosofia”, abbiamo pensato.
II – Il rapporto tra la malattia, la conoscenza e la Paura
Filosoficamente parlando, riflettendoci, il protagonista indiscusso di tutta questa situazione non è tanto il virus Covid-19 che sta mettendo piede dappertutto, ma la Paura: la grande piaga che sta divorando il popolo Italiano non è il virus in quanto tale, bensì la paura collettiva nei confronti dello stesso. La paura di contrarre il virus non deriva tanto dalla gravità sintomatologica che il virus porta con sé, bensì dalla totale ignoranza collettiva circa l’agente patogeno. Il Covid-19 – o meglio, com’è conosciuto dalla comunità scientifica: il SARS-CoV-2 – è arrivato, piombato, nella nostra quotidianità in modo dionisiaco, scombussolandola, ribaltandola, disordinandola, senza darci occasione minima di poter prendere consapevolezza e coscienza del problema che ora, repentinamente, stiamo affrontando al meglio delle nostre possibilità, tanto individuali quanto collettive. Non c’è stato alcun momento – tutt’altro, lo stiamo vivendo proprio e ancora adesso – di maturazione conoscitiva della malattia. “[…]basta ben giudicare, per ben fare, e giudicare meglio che si può, per fare anche meglio che si può, e cioè per acquistare tutte le virtù, e con esse tutti gli altri beni[…]” (Cartesio, Discorso sul Metodo, Firenze/Milano, Bompiani, 2018, p.141): è proprio questo quanto è mancato, quanto attualmente purtroppo ancora ci manca pur essendo certamente gli studi progrediti, un giudizio determinante della cosa, della malattia che stiamo cercando di sconfiggere; la conseguenza di questa deficienza gnoseologica2, come ci dice Cartesio, è la mancata acquisizione delle virtù – calma, atarassia, placidezza – che ci restituirebbero “tutti gli altri beni” (tranquillità, serenità). Al contrario siamo in preda della percezione concreta, dilaniante, spaesante, claustrofobicamente asfissiante, della morte: della possibilità che questa possa trovarsi dietro l’angolo, attaccata battericamente sullo schermo dei nostri telefoni, sul nostro mouse, sulla nostra scrivania, sulla nostra tavola, sulle nostre posate, sulle nostre mani, all’interno di noi. “[…] non è una cosa naturale morire. E da quando sapevo che stavo per morire, più niente mi sembrava naturale, né quel mucchio di carbonella, né quella panca, né il brutto muso di Pedro”; “Nello stato in cui mi trovavo […] non tenevo più a niente, in un certo senso ero calmo. Ma era una calma orribile […]” (J.P. Sarte, La Nausea/Il Muro, Milano, Narrativa Club, 1982, p.184/187). Sentiamo l’esser-ci della possibilità della morte come fosse un miasma che s’aggira ovunque osiamo muoverci e mettere mano.
Eppure – qui il paradosso, qui l’altra faccia della realtà – quanto stiamo affrontando non rappresenta letalità certa, anzi, l’abbiamo sopraddetto, è una letalità tutta possibile solo nel particolare e circoscritta all’individuo. Ma allora da dove scaturisce questa paura, questo sentimento di morte, questo strozzante accusare distopiche allucinazioni circa il prossimo futuro? Secondo Spinoza, “la conoscenza del primo genere (quella derivata esclusivamente dai sensi, dall’esperienza sensibile, quella empirica, ndr) è l’unica causa della falsità”3, ossia: la conoscenza frettolosa, superficiale e non totalmente attendibile dei soli sensi senza la ragione, senza la riflessione di quanto si percepisce, rende visibili le cose, e la realtà, “in modo mutilato” (Spinoza). Collegando la riflessione spinoziana circa il primo grado – di tre – di conoscenza al nostro tema di attualità, ci vien reso immediatamente evidente dove risieda e nasca la paura incontrollata: la non-totale-conoscenza di quello che stiamo affrontando ci regala una realtà parzialmente vera, “mutilata”. Non abbiamo una presa conoscitiva totale sull’argomento, e questo ci terrorizza, poiché provoca un forte senso di disorientamento, di bivio, d’incertezza, di confusione. Tutto questo è, tra l’altro, alimentato fortemente dalla saturante sovra-informazione che ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, riceviamo circa il virus: bollettini poco chiari che contengono numeri rappresentanti contagi, morti, certamente i guariti – pochi, questi, a quanto in confronto dovrebbero essere, a causa del tampone da noi effettuato, decisamente sensibile anche a piccole ed inattive tracce virali, come abbiamo già detto nella pagina – e quant’altro. Forse siamo anche stanchi di sentire tutto questo, forse siamo anche stanchi e saturi di questo mondo che sembra essersi oscurato. Stiamo sentendoci non più padroni del mondo, ma gettati al mondo, come ha riflettuto Martin Heidegger.
La disperazione e la paura incontrollata, in ogni caso, non sono comunque la risposta: reagire consapevolmente – magari anche calmandoci e riflettendo con lentezza e fermezza, dopo che questo mondo in preda ad una tachicardica velocità ci sta inghiottendo – facendo leva sul pensiero che godiamo disposizioni precauzionali e dispositivi di protezione individuali, le mascherine, dovrebbe rasserenarci. Tutto sta, lapalissianamente, alla nostra responsabilità. Assettati, affamati, voracemente desiderosi di conoscenza, arriveremo anche alla piena comprensione di quanto oggi ci minaccia e che consequenzialmente domani non lo farà più. L’importante, nel frattempo, è mantenere la calma, essere lucidi, ragionare (come vorrebbe Spinoza) e tentare di fermare le passioni che ci rendono turbolenti(come vorrebbe Cartesio).
III – Per una positiva e filosofica conclusione: Leopardi e “La Ginestra”
L’importante, in questi momenti di grande incertezza, di chiaro trapasso – non solamente dal peggio al meglio, ma sicuramente quanto stiamo globalmente vivendo ci sta portando ad un trapasso anche intellettuale, di pensiero – è essere sempre aperti col prossimo: stiamo soffrendo della stessa paura, tutti, nessuno escluso, anche chi fa finta di non essere minimamente toccato dalla situazione. Compatire positivamente l’altro, riuscire a percepire nel suo dolore il nostro, potendolo così consolare porta a consolare efficacemente anche noi stessi. A questo proposito, vorrei ricordare, portando il tutto in seno alla letteratura Italiana, quanto poeticamente esprima Leopardi nella lirica “La Ginestra”: un fiore contraddistinto dal colore giallo, che fiorisce in quei luoghi poco ospitali dove non ci sarebbe spazio per la vita il quale, a poco a poco, dà seguito ad arbusti sempre più grandi, folti e resistenti, con una forza di coesione simbiotica che l’umano può solamente invidiargli; “[…] quell’orror che primo/contro l’empia natura/strinse i mortali in social catena4[…]” (G. Leopardi, La Ginestra, vv.146-149). La “social catena”5 di cui parla qui Leopardi è l’equivalente del tenerci strettamente per mano, consapevoli di soffrire insieme dello stesso male, e proprio grazie al fatto che si condivida lo stesso patema, consolarci l’un l’altro della reciproca condizione; eppure, ricordiamoci come in Leopardi si combatta contro un – leopardianemente – male inestinguibile, totalmente indifferente nei confronti dell’uomo, la Natura, quella matrigna. Noi combattiamo contro qualcosa di tutt’altro che inestinguibile: un virus che attende solamente di essere determinatamente conosciuto per potersi dire finalmente sconfitto. Possiamo certamente farcela, se ci terremo per mano, lenendo vicendevolmente le nostre paure e le nostre insicurezze.
Ce la faremo, come sempre, anche stavolta, anche la prossima, insieme.
Note:
Santamato Simone
Categorie: Attualità, Filosofia
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So bene che poco hanno valore i complimenti di una povera ignorante, ma li faccio egualmente , lei è sommo come sempre
Il sottoscritto non ha alcun timore della morte fisica, ma senza ombra di dubbio lo nutre nei confronti della perdita della libertà naturalmente prevista come Uomo e fornitagli dal Creatore, corroborata da una Costituzione democratica e da una Carta dei Diritti universalmente riconosciuta, ed oggi, anzi da 12 mesi, prese sistematicamente sottogamba dai Kapò di turno, a tutti i livelli della piramide partitocratica… Libertà oggi scippatagli – per quanto a “comode” rate – con violenza e sopraffazione, uniformi e mitragliatori imbracciati – da una inconcepibile dittatura sanitaria e da un clan di politici traditori alimentati a mazzette.
Buona domenica
Bruno