“Hanno ammazzato Giovanni Berta / fascista tra i fascisti / vendetta sì vendetta / farem sui comunisti /dormi tranquillo Berta / dormi tranquillo il sonno / ti vendicheremo un giorno / ti vendicheremo un giorno” (1)
di Giacinto Reale
A Firenze, la mattina di domenica 27 febbraio 1921, un paio di centinaio di giovani aderenti al neocostituito Gruppo Studentesco Liberale, in uno smilzo e pacifico corteo, superscortato da Carabinieri e Guardie Regie, percorrono i Lungarni e via Tornabuoni, fino a giungere in piazza Antinori.
Proprio la più che prevedibile natura “pacifica” della manifestazione ha convinto il Prefetto, dopo qualche iniziale incertezza, a dare l’autorizzazione: in piazza non sono previsti né i turbolenti agitatori “rossi” che da mesi fanno da padroni in città, né i neocostituiti ma già vivaci nuclei fascisti che, proprio qualche giorno prima, hanno dato prova della loro esistenza e volontà di battersi incendiando il giornale socialista “La Difesa”.
E invece, proprio in piazza Antinori uno sconosciuto (probabilmente accompagnato da qualche complice che spara colpi di rivoltella) lancia una potente bomba contro il corteo, facendo un morto (un Carabiniere) e una ventina di feriti, dei quali uno – Carlo Menabuoni, ventitreenne, reduce, aderente al fascio – morirà dopo lunga agonia il 14 marzo.
Appena si sparge la notizia, in piazza Ottaviani, alla sede fascista, si adunano, nel primissimo pomeriggio, alcune centinaia di uomini esasperati che, organizzati in gruppi (le squadre ancora non sono ufficialmente formate) si spargono per la città, intenzionati ad applicare la legge dell’ “occhio per occhio, dente per dente”, come lascia già prefigurare il discorsetto che tiene Pirro Nenciolini prima di partire:
“….l’è inutile pigliarsela con i pesci piccini e che l’è meglio pescare quelli grossi, e, allora, via per Firenze, a cercarli, e, dato che col Lavagnini c’era un vecchio conto, insomma, sapete a quest’ora l’è bell’e che morto. Ed ora si aspettava voi e quelli che sono andati a Pescia per ricominciare, ma questa volta si deve andare in fondo, Dio immortale, fino in fondo, perché a farla finita. “ (2)
Verso le 17, infatti, una squadra giunge alla sede del Sindacato Ferrovieri (contigua alla federazione Provinciale del Partito Comunista, appena aperta): tre uomini salgono, trovano Spartaco Lavagnini e lo uccidono. (3)
La voce si sparge immediatamente in città: viene proclamato lo sciopero dei ferrovieri (4) e quello dei tranvieri (5), i negozi chiudono per paura di rappresaglie, pattuglioni di Carabinieri e Guardie Regie vanno su e giù per le strade.
La notte del 27 Firenze ha un aspetto spettrale, illuminata a sprazzi dalle fotoelettriche dell’Esercito, mentre Oltrarno le strade vengono sbarrate con pietre e masserizie, fino a fare rudimentali barricate, rinforzate, ove possibile, da muri a secco eretti per l’occasione e presidiati da uomini armati.
Il giorno dopo, di primo mattino, si verificano qua e là incidenti tra fascisti e sovversivi, finchè, verso mezzogiorno, i primi muovono dalla loro sede e cercano di penetrare in San Frediano, avventurandosi per viuzze nelle quali sono, però, fatti oggetto della fucileria avversaria da tetti e finestre.
In campo c’è la crema dello squadrismo cittadino; Frullini, sempre molto attento nelle citazioni, fa un elenchetto di una decina di nomi, fra i quali, oltre a lui, ci sono: Luigi Pontecchi (poi morirà cadendo con l’aereo in giro di propaganda il 3 aprile). Amerigo Dumini (tantum nomen), Tullio Tamburini (il “grande bastonatore”), Dino Perrone Compagni (il “ras” per eccellenza), Erinne Bertolotti (uno dei protagonisti dei fatti di Foiano), Renato Nerbini (figlio di Giuseppe, il fondatore della omonima casa editrice) Ezio Narbona (ferito a Foiano). (6)
La situazione va in stallo, e non serve a sbloccarla l’intervento dei militari del 69° e 84° Fanteria, di stanza in città, con autoblindo e cannoni; si arriva così alle 17,30, quando si verifica l’episodio di cui è vittima Giovanni Berta.
Giovanni Berta nasce nel 1894 a Firenze, da una famiglia della piccola borghesia industriale: il padre è, infatti, titolare di una fonderia con una ventina di operai.
Da ragazzo manifesta, unita ad una certa irrequietezza, una forte passione per il mare, tanto che, a 14 anni, abbandonati gli studi, si imbarca come mozzo, prima su un veliero italiano e poi su un battello norvegese, finchè, dopo un paio d’anni, richiamato a casa per la morte di una sorella, sembra mettere la testa a partito, tanto da conseguire, in soli due anni, la “licenza complementare” (una sorta di diploma professionale) presso l’Istituto Sant’Ambrogio di Milano, con la specializzazione di “fabbro meccanico”.
Anche questo, però non serve a calmare la passione per il mare del giovane: rientrato a Firenze nel 1911, invece di inserirsi – come tutto lasciava immaginare – nella realtà della fabbrica paterna, vuole tornare ad imbarcarsi: volontario mozzo apprendista cannoniere prima e “cannoniere armarolo” poi, con ferma di sei anni, partecipa alla guerra di Libia e al conflitto mondiale.
Nell’aprile del 1919 torna a casa, e questa volta fa contenti i genitori, cominciando a lavorare in fonderia. Come molti reduci, si iscrive anche ad una delle Associazioni cittadine (l’Alleanza di Difesa Cittadina) che la guerra non intendono rinnegare.
Nell’agosto del 1920 avviene l’episodio che, probabilmente, determina un suo impegno tra i seguaci di Mussolini: nello stabilimento occupato dagli operai in sciopero, Giovanni viene aggredito da uno dei caporioni sindacalisti che intende assumere il controllo della piccola fonderia, e l’alterco, per poco non degenera nel sangue.
Sarà quindi iscritto al fascio, parteciperà all’incendio già accennato del giornale socialista “La Difesa” e sarà presente a Bologna il 21 novembre, in aiuto ai camerati di quella città per i noti fatti che sfoceranno nella “strage di palazzo D’Accursio”. (7)
Quel maledetto 28 febbraio Berta è al lavoro al suo stabilimento, impegnato anche con la visita del Magistrato che sta conducendo l’inchiesta su un incidente occorso ad un operaio, fin verso le 17, quando inforca la bicicletta e, dal rione Le Cure ove lo stabilimento è situato, si dirige verso l’Oltrarno.
Qui le versioni sono contrastanti: secondo gli antifascisti, il giovane intende recarsi alla fonderia Pignone per concordare una linea di condotta di fronte allo sciopero operaio; secondo i fascisti, invece, egli cerca di raggiungere i suoi camerati che ha saputo impegnati in scontri a fuoco in quella parte della città. (8)
Sta di fatto che, verso le 17,30, portando a mano la bicicletta è sul Ponte Sospeso, dove gli si fa incontro un minaccioso gruppo di persone.
“Sei fascista?” questa la domanda che gli viene rivolta, forse generata dal fatto che Berta, oltre a non essere conosciuto nel quartiere ed avere un aspetto “borghese” (il particolare dei guanti – uno calzato e uno no – sarà ripetuto in tutte le testimonianze), ha all’occhiello della giacca il distintivo della Croce Rossa, ignoto ai più, e probabilmente confuso con quello di qualche organizzazione di parte “nazionale”.
È questo il momento decisivo della vicenda: il giovane potrebbe negare, fuggire o fare fuoco con la rivoltella che porta sempre con sé dopo l’aggressione subita in fabbrica. Invece, con naturale fierezza, si limita a rispondere: “Sì”, ricevendo immediatamente una gragnuola di colpi da ogni parte.
Su come andranno poi le cose, le versioni si differenziano poco. Ecco quella de “Il Nuovo Giornale”, del 2 marzo:
“Sul Ponte Sospeso alle Cascine passava in bicicletta un giovane che aveva all’occhiello un distintivo della croce Rossa. Disgrazia volle che egli si imbattesse in una comitiva di una ventina di individui, i quali lo attorniarono, lo percossero, e, dopo averlo depredato del portafoglio e della bicicletta, lo sollevarono di peso e lo gettarono nel fiume. L’infelice non voleva morire: e si aggrappava con le mani, disperatamente ai ferri del ponte.
I suoi aggressori cominciarono allora a tempestargli di colpi di tallone la testa e le mani. Invano il disgraziato si raccomandava: una mano, frantumata dai colpi feroci, sanguinante, abbandonò il sostegno: fu visto il povero giovane tenersi ancora un po’ sospeso con la mano sinistra, ma nuovi colpi furono vibrati e lo sventurato cadde pesantemente nell’acqua. Nessuno si mosse per soccorrere colui che agonizzava.” (9)
Tutto sommato, questa ricostruzione appare la più aderente alla realtà, mentre non convince, invece, Cantagalli, il fazioso estensore delle cronache del fascismo fiorentino pubblicate nel dopoguerra, che, nel tentativo di demolire quella che definisce la “leggenda” di Giovanni Berta, parla genericamente di “sette tra ecchimosi e abrasioni” riscontrate sul cadavere, ed arriva ad ipotizzare che il povero giovane si sia buttato da solo in Arno, per sfuggire ai suoi aggressori.
Meno generica un’altra fonte, nella quale più dettagliatamente si legge che: “le dita delle mani, e particolarmente quella della sinistra (l’ultima a lasciare la trave del ponte) erano scarnificate, il labbro superiore spaccato, varie contusioni alla fronte ed un solco violaceo (forse un colpo vibrato con un arnese di ferro) alla tempia sinistra.” (10)
Inverosimile appare anche la tesi del “tuffo” spontaneo, in quanto ad esso avrebbe dovuto seguire il salvataggio a nuoto, perché Berta era un provetto nuotatore (“nel 1917… la sua nave era stata silurata e il ragazzo si salvò nuotando ore ed ore in alto mare”) e quel punto dell’Arno era noto anche per “la scarsa profondità del fiume.”
Solo la particolare gravità delle ferite inferte e il conseguente probabile stordimento del giovane. che viene gettato nel fiume (o cade) come un corpo morto, giustificano il tragico epilogo.
Quindi, concludendo, credo si possa affermare che si trattò di un’aggressione ingiustificata, di molti contro uno solo, degenerata per quella smania assassina che prende spesso la folla in questi casi, e che “voleva” la morte del malcapitato, senza accontentarsi del pestaggio inflitto sul ponte.
La sintesi degli avvenimenti è nell’articolo di Mussolini apparso sul Popolo d’Italia del 1 marzo, che è anche una coraggiosa assunzione di responsabilità:
“L’essenziale è di stabilire che la giornata di domenica sarebbe trascorsa a Firenze nella calma più completa se non si fosse sparato sul pacifico corteo degli studenti. Basta leggere le generalità dei feriti per convincersi che giovinetti e giovinette dai dodici ai diciasett’anni non potevano avere e non avevano intenzioni provocatrici verso chicchessia. L’eccidio fu ferocemente premeditato. Dapprima i colpi di rivoltella per suscitare lo scompiglio, poi il lancio della bomba. Tutto quello che accadde nel seguito è pienamente giustificato. Gli “umanitari” che fossero tentati di commuoversi per la fine del Lavagnini, sono pregati di pensare all’assassinio del giovinetto Berta, pugnalato e buttato nell’Arno.” (11)
Nei mesi a venire, di questo bestiale comportamento rimarrà traccia e rivendicazione – e credo sia l’unico caso – nella canzone che, sulla stessa aria di quella fascista, intoneranno gli assassini e i loro eredi canteranno negli anni successivi:
“Hanno ammazzato Giovanni Berta / dei fascisti fiorentini / è stata vendicato / Spartaco Lavagnini / hanno ammazzato Giovanni Berta / figlio di pescecani / viva quel comunista / che gli pestò le mani.” (12)
Sull’altro versante, la morte del giovane sarà considerata come l’esempio più rappresentativo dei caratteri della guerra civile: da una parte un onesto lavoratore, reduce di guerra, e dedito a far del bene al prossimo (come quel distintivo della Croce Rossa, orgogliosamente portato all’occhiello lascia intendere); dall’altra la massa anonima e sanguinaria, che si ferma solo dopo la morte del nemico.
Andrè Maurois, il noto scrittore francese, nei “Dialogues sur le commandement” trarrà spunto dai fatti del 28 febbraio per affermare che non si può dare una valutazione del fascismo “senza conoscere, in ogni suo particolare, questo episodio del martirologio fascista”, e il fascismo al potere onorerà nel modo migliore il suo caduto: il corpo verrà onorato nella Cripta di Santa Croce, insieme a quelli degli altri caduti fiorentini, e il tratto di spalletta del ponte dove il giovane si era aggrappato in un estremo tentativo di salvezza, sarà staccato ed esposto alla Mostra della Rivoluzione Fascista.
A Berta, inoltre sarà intitolato un dragamine (cosa anche questa inconsueta per le elitarie abitudini della Marina Militare in materia di denominazioni dei mezzi, e che testimonia la risonanza dell’episodio ), lo stadio fiorentino, strade, piazze e scuole in tutta Italia, oltre a numerosissime formazioni giovanili del Partito.
Un’ulteriore prova di quanto il sacrificio del giovane Berta fosse caro alla memoria di tutti i fascisti si avrà qualche mese dopo, il 13 luglio del 1921. (13)
Quel giorno, infatti, il diciottenne squadrista de “La Disperata” Annibale Foscari (è il “contino” di cui parla Piazzesi, alludendo alle sue origini nobiliari), transitando, con un camerata, per via Dei Pilastri, ode giungere, da una bottega di calzolaio posta nell’adiacente via Farini, l’irridente canto che ho sopra riportato.
I due, disarmati, di slancio penetrano nella bottega, ma vengono affrontati dal calzolaio e dal suo lavorante che impugnano dei trincetti. Ferito a morte, tre giorni dopo il Foscari morirà, ultima vittima, se vogliamo, dei fatti di quel tragico fine di febbraio fiorentino.
NOTE
(1) Testo della canzone riportato in: Giacomo De Marzi, “I canti del fascismo”, Genova 2004, pag 241
(2) Mario Piazzesi, “Diario di uno squadrista toscano”, Roma 1980 pag 111
(3) Sulle modalità della morte di Lavagnini si è inserito il “mito”, con l’aggiunta del particolare che al cadavere sia stata rimessa in bocca, con macabra scelta dei suoi assassini, la sigaretta che stava fumando; dettaglio che fa il paio con quello, riferito invece a Berta, dei colpi di coltello sulle mani aggrappate alla spalletta del ponte. In effetti, di ambedue le cose non vi è prova certa da nessuna parte (per esempio: la testimonianza di uno degli assassini – mai identificati – per Lavagnini o la perizia necroscopica per Berta). È, quindi, più che autorizzato il dubbio
(4) Proprio l’indizione di questo sciopero sarà alla base dell’eccidio di Empoli, dove, il giorno dopo, 9 tra fuochisti di Marina e Carabinieri, diretti a Fiorenze per sostituire il personale delle ferrovie, saranno barbaramente uccisi, perché scambiati per fascisti
(5) I tranvieri proclamano lo sciopero dopo che tre di loro hanno ricevuto una sonora lezione da una squadra fascista che avevano provocato con “quell’antico verso osceno fiorentino che il Macchiavelli chiama “manichetto” (Roberto Cantagalli, “Storia del fascismo fiorentino 1919-25”, Firenze 1970, pag 156)
(6) Bruno Frullini, “Squadrismo fiorentino”, Firenze 1933, pag 171
(7) Le notizie sono tratte da: (a cura di) Gruppo Rionale Fascista “Giovanni Berta” di Firenze, “Giovanni Berta”, Firenze 1934
(8) La tesi dell’intenzione del giovane di recarsi a contattare i titolari della fonderia Pignone per concordare l’atteggiamento da assumere il giorno dopo di fronte al previsto sciopero, sostenuta da Cantagalli, appare poco credibile. Considerato il clima di forte tensione esistente in città, con morti e feriti, sarebbe bastata una telefonata, piuttosto che inoltrarsi in quartieri notoriamente ostili
(9) In: (a cura di) Gruppo Rionale Fascista “Giovanni Berta” di Firenze, cit, pag 33
(10) In: (a cura di) Gruppo Rionale Fascista “Giovanni Berta” di Firenze, cit, pag 35; la presenza di ferite in massima parte sul lato sinistro del corpo conferma l’esattezza del noto manifesto riprodotto a corredo di questo articolo: vi si vede, infatti, Berta che si regge con la sinistra alla spalletta del ponte, e, quindi, riceve proprio lì i colpi dei suoi assassini
(11) In: (a cura di) Edoardo e Duilio Susmel, “Opera Omnia di Benito Mussolini”, Firenze 1955, vol. XVI, pag 191
(12) Testo della canzone riportato in: Giacomo De Marzi, op cit, pag 241
(13) A Firenze la situazione tornerà alla normalità la sera del primo marzo, con lo smantellamento delle barricate, l’incendio della Camera del Lavoro ad opera dei fascisti, e la sfilata in città dei militari reduci dall’aver “espugnato” San Frediano, tra le festose accoglienze della popolazione
Categorie: Fascismo, Giovanni Berta, Squadrismo, Storia
Pubblicato da Giacinto Reale il 9 Maggio 2014
Nato a Bari intorno alla metà del secolo scorso, vive a Roma. Ha sempre coltivato la passione per cose di storia, alla ricerca di una verità che intuiva essere non di rado diversa da quella dei “sacri testi”.
Coltiva, ultimamente, uno speciale interesse per vicende e uomini del primo fascismo, convinto che lì c’è tutto: quello che il fascismo fu, e, soprattutto, quello che prometteva di essere……
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E tutti gli ebrei fatti morire dai fascisti nei campi di sterminio nazisti? Viva il comunista che gli pesto- le mani!
e l’Italia di Vittorio Veneto tradita a Versailles dall’occidente “che non ci ama e non ci vuole ed è divenuto una succursale della più spietata banca giudaica”, così come, in patria, da traditori socialisti e cagoja liberali? mentre noi si andava con D’Annunzio a Fiume voi fomentavate disordini per preparare la rivoluzione bolscevica!
Voi e quel maiale di Matteotti che già nel 16 negava collaborazione e accoglienza ai profughi italiani della Strafexpedition! La stessa sinistra che oggi accoglie solo stranieri anziché pensare ai giovani italiani.
“Dormi tranquillo Berta/
gabbiano vendicato/
Giacomo Matteotti/
è stato pugnalato!”
e per il caro qui presente Stefanini: “viva quel fascista che ti sfondera’ il cranio” (io)
A Firenze si direbbe: “che c’entra il c… con le quarant’ore?”
Nel 1921 gli ebrei italiani erano quasi tutti simpatizzanti fascisti. Alcuni di loro, entusiasti fascisti ed addirittura squadristi. Giustificare un delitto avvenuto nel 1921 accampando il futuro antisemitismo del 1938 o la feroce persecuzione da parte dei nazisti, è degno solo di un ridicolo somaro.
A Salara un disgraziato operaio di notte sente bussare alla sua porta. Chi è? Domanda. Amici! gli si risponde. Apre e attraverso la fessura venti colpi di fucile lo distendono cadavere. A Pettorazza il capolega sente battere alla sua casa di notte, sempre di notte… A Pincara,piccolo paese in mezzo alla campagna, a mezzanotte arriva un camion davanti all’ufficio di collocamento, una miserabile bicocca, una stanzetta… Ad Adria vanno a mezzanotte alla casa del segretario della sezione socialista, lo prendono, lo legano, lo portano sull’Adige, lo immergono, lo lasciano legato a un palo telegrafico… A Loreo… ad Ariano… a Lendinara… E continua così la storia; ma nessuno interviene, nessuno è scoperto,nessuno sa chi siano i delinquenti. Notte per notte, giorno per giorno, sono così incendi e assassinii che si commettono. Nelle disgraziate campagne del Polesine oramai si sa che quando si batte di notte alla porta di casa, e si dice che è la forza pubblica, è la condanna a morte.
G. Matteotti 1921